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Autore: _maya96_    25/05/2013    0 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-Behind Blue Eyes-
 
-Dietro Gli Occhi Azzurri-

 
 

No one know what it’s like to be the bad man. To be the sad man.
Behind blue eyes.
No one know what is like to be hated. To be fated to telling only lies.
But my dreams. They aren’t as empty as my conscience seems to be.
I have hours, only lonely.
My love is vengeance that’s never free.
 
Nessuno sa come ci si sente ad essere l’uomo cattivo. Ad essere l’uomo triste
Dietro gli occhi azzurri.
Nessuno sa come ci si sente ad essere odiato. Ad essere accusato di dire solo bugie.
Ma i miei sogni non sono così vuoti come sembra essere la mia coscienza.
Ho ore in totale solitudine.
Il mio amore è una vendetta che non è mai libera.
(The Who –Behind Blue Eyes-)

 
 
Per caso ci siamo incontrati.
Da quale onore e da quale dolcezza e felicità io sono caduto per vivere qui, sulla terra, fra i mortali, al cospetto di un angelo dal quale Dio ora ha la fortuna di essere baciato.
In quei vasti campi elisi, cullati dalla lieve brezza fresca del vento, che porta da lontano incomparabili doni, come il volto di quella fanciulla, da cui non riuscivo più a distogliere lo sguardo.
Soltanto da lei tra tutte quelle indifferenti creature, che camminavano invisibili, come ombre della notte, illuminate da un leggero calore, candido come le stelle.
Quale era il giorno?
Che ore erano?
Quell’orologio non era mai andato così veloce. Non riuscivo a fermarlo. Non potevo. Il tempo correva e quella notte avrebbe presto trasformato il domani in sera.
Non potevo perdere tempo. Non ne avevo.
Forse un tramonto non era abbastanza. Forse le nostre sagome svanendo si sovrapponevano, senza distanza ed infinita profondità come pareva il destino nelle nostre mani, ma io non riuscivo ad arrestarlo. Io non potevo.
Avrei voluto con tutto il mio cuore, ma non ci ero riuscito.

Ti amo, Tatia. Ti amo così tanto.

Una calda lacrima mi riga fugace la guancia. Rapida, crudele, brutale, mentre lacera il ricordo di quell’amore mai vissuto con troppa e profonda intensità.
Afferro il passato, ma mi resta in mano soltanto la nebbia. Un vuoto insaziabile di una miserabile vita immortale appena agli inizi, ma lei non c’è. Non ci sarebbe mai più stata.
Ogni parola. Ogni carezza. Ogni bacio rubato è svanito per sempre tra tutto quel vento impietoso, come rovi di spine taglienti, che fendono implacabili quell’aria di piombo.
Quei rovi che graffiano. Che mi mortificano e che mi feriscono la pelle che sanguina dolore, come sussurri di un cuore che mi richiama indietro, ma io non posso tornare. È tardi. È troppo tardi. Così maledettamente ed irrimediabilmente tardi.
Il petto scosso da sussulti senza voce, mi ferisce. Mi fa male. Fa così tanto male. C’è così tanta pena che non riesco nemmeno a respirare.

Non dovevi morire. Non dovevi lasciarmi solo.

Parlo alla terra, ma questa non risponde. Non ho più nessuno. Non ho più nessuno che mi ami. Sono completamente e totalmente…solo.
E allora comprendo. Comprendo ogni cosa, mentre tengo stretto quella piccola rosa, delicata come il suo profumo. Solo per un momento. Solo per un altro secondo. Solo per ricordarmi un’ultima volta cosa avevo provato prima di non sentire più nulla. Prima di condannarmi alla miseria eterna.

Perdonami, amore mio.

Chiudo gli occhi. Ora sono pronto.
Un istante. Un attimo. La rosa mi scivola dalle mani. Il dolore scompare, scalfito da quell’ultima lacrima argentea, che porta via ogni cosa. Ogni sofferenza. Ogni pena. Ogni afflizione e castigo. Tutto quanto.
Sono completamente vuoto.
L’interruttore si è spento ed è calata la notte.

 

* * * *


 
Notte.
Quella era l’unica cosa che ricordavo. L’unica cosa al quale forse ero legata. L’unica capace riportare indietro ricordi e dolore, assopiti con il tempo.
Era notte quando la macchina dei miei genitori era svanita giù da quel precipizio, senza fine. Era notte l’ultima volta che avevo visto mio nonno prima che morisse, negandogli il perdono e la mia comprensione. Era notte quando Ryan era sparito per sempre, senza neanche una banale lettera d’addio. Ed era notte quando la signora Miller aveva tentato di uccidermi.
Come se quell’infida oscurità tessesse le trame dei fili della mia vita. Come se mi accompagnasse. Come se mi tenesse la mano ogni qual volta che chiudevo gli occhi. Ogni volta che scendevano le tenebre.
Ed era per questo che avevo paura. Avevo paura di quel maledetto buio. Non perché temessi che qualcuno vi si nascondesse all’interno. Questo non centrava nulla.
Io avevo paura della notte perché la notte toglie il tempo per vivere.
Questo è tutto ciò che ci porta via il buio e a me, più di chiunque altro, aveva portato via ogni cosa.
Come ci si sente a non avere più nessuno?
Sospirai fugacemente al ricordo di quelle parole. Di quelle crudeli e sadiche parole pronunciate da una mente troppo contorta ed intricata per riuscire a comprenderla. Eppure dovevo farlo. Dovevo provarci. Dovevo riuscirci. Perché quella stessa mente contorta ed intricata era la sola cosa di cui avevo memoria.

Io ti troverò sempre, Alba. Te lo prometto.

Klaus.

Era lui. Era di nuovo lui. Sembrava ironico realizzare che ogni volta che accadeva qualcosa lui fosse la sola persona a cui pensavo. La sola capace di riportarmi indietro. Di distrarmi e di non farmi credere che il mondo fosse così crudele, perché sicuramente nessuno poteva essere peggio del diavolo e quindi se riuscivo a sopravvivere a lui, potevo farlo con chiunque.
Ma nonostante tutto non riuscivo a più a definirlo una bestia. Non riuscivo più a chiamarlo mostro così come avevo sempre fatto. Così come avevo sempre pensato.
Ma allora cos’è che era cambiato?
Forse c’era qualcosa di diverso in lui. Un qualcosa che ancora non ero riuscita a definire. Un qualcosa di…umano. Una piccola luce tra tutte quelle tenebre che aumentava ogni giorno di più, ormai me n’ero accorta. Non poteva più mentirmi e soprattutto non poteva più mentire a se stesso.
Ero certa avesse un cuore anche se non possedeva più un’anima. Infondo mi aveva salvata. Mi aveva protetta. Più volte. Non poteva averlo fatto solo per i suoi fini e per i suoi scopi personali. Non doveva. Io non ci avrei creduto comunque. Forse perché ero talmente abituata a cercare il buono nelle persone, che ormai avevo perso di vista anche quella cruda e patetica realtà.
Qualsiasi bugia mi avesse raccontato, molto probabilmente avrei finito per crederci in ogni caso.
Ma delle volte i peccati che commettiamo sono così efferati che non c’è più alcuna speranza di redenzione, ma questo dovevo ancora comprenderlo. Allora credevo che dietro a quella maschera di cinismo e fredda indifferenza dovesse nascondersi un uomo. Un uomo scalfito dalla collera e dal rancore, ma pur sempre un uomo.  Un uomo che, nonostante tutto, doveva, a suo modo, essere ferito.

Non sai neanche cosa vuol dire odiare. Non hai vissuto abbastanza per saperlo.

Ma forse sbagliavo. Forse l’avevo sempre fatto. Stavo solo riponendo la mia fiducia in un qualcuno che neanche esisteva.
Forse una bestia non avrebbe mai potuto trasformarsi in un uomo. Non l’avrebbe mai fatto ed ero una stolta a pensare il contrario, ma non avrei mai cessato di credere a quel sogno, anche se irreale.

Forse per lo stesso motivo per cui non sarei mai entrata in un giardino senza nemmeno una rosa.

Un lieve sobbalzo mi riportò alla realtà, facendomi aprire quegli occhi che non mi ero accorta di tener chiusi.
Il paesaggio dinnanzi a me scorreva veloce, celere, rapido. Così infinitamente e irrimediabilmente lesto da non riuscire nemmeno a comprendere dove mi stessi trovando.
Alte nubi ricoprivano a tratti il cielo quasi terso, troppo limpido, così distinto da quello di Port Angeles, mentre tutta quell’aria mi sfiorava la pelle non più denominata da un freddo pungente.
Cercai di mettere a fuoco tutte quelle poche ombre davanti al mio sguardo, ma tutto quello che vidi fu soltanto terra. Una terra senza nome, ospite di qualche albero sperduto, che parevano non racchiudere neanche più un briciolo di vita.

“Era ora che ti svegliassi, amore”.

Sospirai, non riuscendo a prendere quelle parole per vere. Come se non l’avessi nemmeno sentite. Come se tutto il freddo di quella nobile voce, antica come il tempo e sovrana come il mare, non mi avesse sibilato dilettevole alle orecchie.
Ma in fondo come potevo farlo? Come potevo comprenderla? La testa mi pulsava. Mi martellava ripetutamente. Mi strideva come unghie affilate su una parete priva di scanalature e faceva male. Mi faceva male perché sembrava essersi portata via il più minimo ricordo della notte precedente. Come se fossi vuota. Come se non esistessi nemmeno e tutto quello che avevo davanti non potesse essere altro che un’invenzione. Uno scherzo giocato ad una mente troppo stanca e rastremata da riuscire ad intendere con la ragione.
Ma dovevo farlo, perché quello sicuramente doveva essere solo l’inizio.

Lui è un vampiro. Una belva. Non ha nulla di umano.

Io voglio quell’oggetto. Conducimi da loro o sarò costretta ad ucciderti.

Hai il loro marchio, Alba. Smettila di mentire.

“No!”

Urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Con tutta la foga e veemenza che ero in grado di possedere. Con tutto quell’ardore che non riuscivo nemmeno a dominare, ma non era abbastanza, non ancora. Io non ci riuscivo. Non riuscivo ad arrestarlo. Non potevo.

Sangue.

Nuotavo in un mare di sangue ed affogavo in quelle acque così come quel giorno. Così come in quel mare. Così come con mio nonno, ma lui questa volta non era lì. Non era lì con me. Non poteva salvarmi. Non potevo dargli la colpa di tutto quello che stava accadendo, perché lui non c’era. Lui era morto. Così come tutti. Così come tutti gli altri.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

Io avevo causato tutto questo. Io li avevo uccisi. Io avevo ucciso tutti. Ero completamente e totalmente sola ed era solo colpa mia.

Come ci si sente a non avere più nessuno?

Lacrime. Crudeli lacrime bastarde mi trafiggevano gli occhi come fervide fiamme e mi colavano ardenti sulle placide goti, che urlavano acute un dolore glaciale che nessuno però riusciva a sentire.
Tutto quel sangue mi colava infido dalle mani e mi s’insinuava scaltro fin dentro le unghie, che ancora non ero riuscita a separare dalla gola lacerata della signora Miller, squartata in brandelli di carne e cumoli d’ossa taglienti come il peggiore dei cani rabbiosi, in un mondo arrogante privo di sentimenti. Così com’era lui. Così com’era Klaus. Così come forse ero anche io.

Ci vuole sempre una bestia per ferirne un’altra, non trovi?

“Smettila!”

Mi presi la testa tra le mani in modo da non sentire le ultime urla sofferenti della signora Miller trafiggermi la mente come pugnali dorati, ma era tardi. Troppo tardi. Lei era morta, dannazione e il suo sangue macchiava un’altra volta le mie mani, che ora mi coprivano il volto profanato dal rosso, in un immenso oceano dove però non riuscivo a nuotare e andavo giù. Ancora più giù. Sempre più giù, fin quando non riuscii a vedere più il sole. E faceva male. Faceva così tanto male, perché tutto quel sangue rappreso mi entrava sudicio in gola e non mi faceva respirare.

Come pensi si sentano ora i tuoi genitori? Credi davvero che ti amino?

“Basta, ti prego. Basta. Fallo smettere!”

Urlai. Questa volta più forte. Con più decisione e tenacia, ascoltando quell’irremovibile dolore, creato dalla stessa persona che aveva cercato di proteggermi. Che aveva cercato di salvarmi, ma al contempo, forse, non faceva altro che uccidermi, perché mi faceva ricordare tutto.

Vi odio. Preferirei morire pur di non vedervi mai più.

Se Allyson è andata nel bosco è colpa tua e di Scott, non mia.

Mi ha pregato di dirti di non smettere mai di dimenticarlo.

“Basta , ti prego!”

“Va tutto bene, Alba. Ora è tutto finito”.

Aprii gli occhi, lenta, incerta, quasi come se temessi che tutti quegli incubi divorassero anche la luce piena del giorno, che luminescente ed ammaliante divorava la notte, ma non fu subito il cielo quello che vidi. Non fu quell’ardore a riscaldarmi. Non questa volta almeno.
Il suo volto era così vicino, troppo. Quasi riuscivo a rispecchiarmi in quegli occhi di un azzurro magnetico. Così freddi. Così ardenti, come mai avevo visto fin ora. Sembravano gli occhi di una persona mortale, perché erano abbagliati dall’albore perenne della vita.
Per la prima volta. Per il primo istante. Per il primo momento dopo lunghi mesi di totale indifferenza in quegli occhi avevo visto qualcosa. Una luce così viva. Una luce così brillante. Una luce che avrei voluto non si spegnesse mai. Perché da quelle chiare iridi azzurre, fredde come il ghiaccio, ma irriverenti come il fuoco, ero riuscita ad intravedere il cielo.

“Klaus?”

Le sue mani cingevano dolcemente le mie sulle orecchie, quasi come se anche lui volesse arrestare quel flusso di parole e grida che mi tormentavano la mente da troppo tempo ormai, soffocando ciò che di vero era rimasto, confondendo ossequiosamente quella fragile linea di fuoco tra sogno e realtà.
Ma io dovevo farlo. Dovevo provarci. Dovevo riuscirci. Non potevo permettergli di entrare nella mia mente e sovvertire i miei pensieri. Non glielo avrei lasciato fare.
Lui era un mostro. Un assassino e con le stesse dita con cui aveva dissanguato la signora Miller ora stava profanando il mio volto. Non dovevo cadere nel suo inganno. Non potevo. Non di nuovo.

“Lasciami. Non toccarmi!”

Urlai con tutta la voce che possedevo in gola, così violentemente, profondamente ed inarrestabilmente quasi da sentirla sanguinare, mentre quelle gocce scarlatte mi salivano al volto e m’inibivano gli occhi  come un rogo cocente, che con fiamme dorate mi bruciava il cuore.
Colpì con ferocia la sua mano, ancora sospesa sulla pelle calda del mio viso arrossato, come se piangessi lacrime amare.
Non riuscivo ad indietreggiare. Non potevo farlo. Non ci riuscivo. Ero bloccata. Legata da una stretta cintura sul sedile di un auto nel bel mezzo del nulla.
Ero sola. Sola con quell’assassino, il cui sguardo tornò ad ardere bruciante di rabbia, che pareva sciogliere il freddo ghiaccio che si colorava impavido all’interno.

“Sta ferma!”

La sua voce mi arrivò come un ringhio. Così crudele. Così maligno. Così atroce e disumano, da non apparire nemmeno reale, perché era così differente dallo sguardo di pochi istanti prima, che caratterizzava la sua volubile natura. La vera natura di un mostro.

Lui è un vampiro.

Afferrò la mia mano insicura sulla maniglia e se la portò vicino al volto, inebriando il prezioso profumo palpitante nelle vene del mio polso.

“Sai, ti preferivo quando dormivi” mi disse sussurrando, sotto ad un sorriso malizioso. “Eri molto più…accondiscendente”.

Ritrassi velocemente la mano con disgusto, sentendo quelle ironiche parole seguite da una fragorosa risata, invadermi la mente. Stanca. Straziata. Sconvolta. Disperata.
Io ero tutto questo e lui continuava a prendersi gioco di me.
Ero sola. Sola con il diavolo. Non potevo permettermi di avere timore. Non avrei avuto alcuna scelta. Non avrei avuto alcuna possibilità.

Non devi avere paura di niente se vuoi sopravvivere.

Senza neanche pensarci afferrai il volante dell’auto appena ripartita fino a farla andare completamente fuori strada. Proprio com’era successo quella notte. Proprio com’era successo con loro. Proprio come stava per succedere anche adesso.
Io vi odio. Preferirei morire pur di non vedervi mai più.
Quella fu l’ultima cosa a cui pensai, prima di perdere i sensi.

 

* * * *


 
Disteso nel letto, la coperta è calda ed allontana con il suo torpore un gelido inverno ormai alle porte.
I deboli raggi di un sole troppo lontano mi trafiggono gli occhi come pugnali dorati, forgiati dalla mano sinistra di dei senza nome, viventi in un mondo folle concepito da menti umane troppo timorose da non permettersi nessuno di cui temere.
Apro gli occhi e sono ancora qui. Lei è ancora qui. Tutto è esattamente come l’avevo lasciato. Tutto è esattamente come un attimo prima di addormentarmi, viaggiando in realtà parallele, sconosciute ad ogni singola creatura mortale.
Forse sto sognando.
Forse ciò che ho davanti ai miei occhi non è reale. Forse è solo un’illusione, ma in fondo mi piace, perché finalmente sono felice.
Ma è per questo che ho paura.
Ho paura perché una felicità così grande la si prova soltanto quando la si sta per perdere.

“Tatia…”

Invoco il suo nome, sussurrandolo appena per non farla svegliare, mentre sfioro il suo leggiadro corpo nudo così come la notte precedente e quella ancora prima.

Non avere nessuno che si ama è la peggiore maledizione possibile.

Accarezzo i suoi capelli, neri nastri della notte. Tocco la sua pelle, respirando un profumo troppo soave da appartenere al mondo dei vivi e bacio voglioso le sue labbra di rose come per mantenermi ancora intero, sapendo però quanto ciò fosse sbagliato.

Io la amo, Niklaus, la amo con tutto il mio cuore.

Così diceva sempre mio fratello Elijah, parlando della sua sposa, presto madre dei suoi figli, mentre io lo ascoltavo, guardandolo negli occhi come il peggiore dei traditori. Uccidendo giorno per giorno la sua fiducia per questo amore modano, che forse avrebbe avuto mai fine.
Lei allora si sveglia, aprendo quegli occhi neri, ardenti dalle fiamme della notte e io la guardo.
La guardo come se fosse la sola cosa per la quale avrei potuto morire. Come se ne valesse davvero la pena. Come se tutto questo non fosse soltanto un errore, mentre sento le sue dolci mani sopra il mio viso, che accarezzano angeliche il volto di un bastardo, che lei però non riesce a vedere.

“Ti amo, Tatia. Io ti amerò per sempre”.

Mormoro appena parole segrete, che questi attimi celati alla realtà, non potranno mai dimenticare e allora lei mi sorride. Un sorriso così vivo. Così luminoso. Un sorrido che avrei voluto non si spegnesse mai e baciando appena il lobo del mio orecchio, senza malizia, mi sussurra parole estranee.

“Cosa vuol dire per sempre?”

“Fino ad un attimo prima che il mondo finisca”.

È sbagliato. È troppo sbagliato. Così ingiustamente ed irrimediabilmente sbagliato, ma mentre ricambio desideroso il suo bacio, mi pare che nulla sia stato mai così giusto.

 

* * * *


 
“Alba svegliati!”

Parole. Fiumi incessanti di parole scorrevano loquaci dalla mia mente stanca, troppo afflitta, mentre tentavo di svegliarmi da un sonno troppo impetuoso per potermi sottrarre.
Ma non ci riuscivo.
Il buio mi avvolgeva. Mi ostacolava. M’incatenava come fa la peggiore delle prigioni con i criminali più efferati, ma io, a differenza loro, questa volta non volevo fuggire.
Preferivo rimanere lì. Non sapendo bene dove. Non sapendo bene come, ma ciò nonostante la paura del nulla era meno efficace della paura della realtà.
Questa volta non avrei lottato. Non avrei combattuto. Mi sarei soltanto lasciata andare, come fa la spuma delle onde, guidata dalla corrente. Come avrei dovuto fare tanto tempo fa. Prima che perdessi ogni singola persona a me cara. Prima che fosse troppo tardi.
Perché forse un mondo senza di me era migliore di un mondo privo di luce.

“Apri gli occhi!”

Fu allora che lo sentii. Una voce così fredda. Una voce così pallida, troppo. Non sembrava nemmeno reale. Non sembrava nemmeno viva o forse non lo era mai stata, ma nonostante tutto fu la sola cosa a riuscire a riportarmi indietro.
Tossii, sputando voracemente quel sapore ferroso, entrato con veemenza nella mia gola. Mentre le labbra si sporcavano di rosso, profanate da quell’unico odore, che sembrava avermi restituito la vita.
Ma stranamente ogni qual volta che capitava, mi sentivo sempre più vicino alla morte. Come se essa si stesse avvicinando così velocemente, ogni volta che lui osava toccarmi.

“Alba, riesci a sentirmi?”

Sospirai, non riuscendo a fermare quel sussulto, che era partito fugace sotto le dita affusolate della sua mano contro la pelle del mio viso. Infreddolito. Congelato. Ghiacciato fin dentro le ossa e tutto solo per colpa sua. Tutto per colpa del diavolo.

Non lasciare che mi faccia del male.

Lui vuole uccidermi. Lui è un vampiro. Una belva del tempo.

“Cosa mi hai fatto?”

Urlai atterrita, pulendo con ribrezzo ogni traccia di sangue dalla mia bocca macchiata di rosso. Come se stessi cancellando via ogni singolo ricordo ed ogni legame che mi aveva avvicinata a lui in questi ultimi tempi. Ogni singola cosa che mi teneva legata al diavolo, nonostante tutto il dolore e tutto il male che mi aveva causato. Io non riuscivo a sottrarmene.
Ma dovevo farlo. Non sarei diventata come lui. Non sarei mai diventata una bestia. Io non volevo. Non potevo. Io non avrei ucciso tutte quelle persone. Io non avrei mai afflitto a nessuno tutta la pena che lui affliggeva a me.
Ero così diversa da lui e nonostante i miei sforzi di fargli affiorare sempre di più la sua umanità, mi ero ritrovata ad odiarlo per avermi salvato così tante volte la vita.
L’odiavo per avermi fatto odiare me stessa. L’odiavo per avermi fatto sentire in colpa per tutte le morti che lui aveva causato. L’odiavo perché forse, in fondo, non riuscivo ad odiarlo.

“Il sangue di un vampiro ha poteri molto speciali, tesoro”

Lo vidi avvicinarsi pericolosamente al mio immobile corpo, che rimaneva ancora disteso per terra, inebetito, incapace di azzardare alcun tipo di movimento. Mentre il suo respiro mortale mi soffiava sulle labbra, condannandomi ad un fato peggiore di quello al quale ero forse destinata.

“È capace di donare la vita, di guarire, ma può anche infliggere la pena più tormentosa di tutte” mi disse, sussurrandomi parole glaciali sul lobo dell’orecchio. “La pena della miseria eterna, dell’immortalità. Se muori avendolo in circolo diventerai come me”.

Il suo dannato sorriso mi fece tremare, mentre il suo respiro di ghiaccio colpiva invisibile il mio tremante, come se facesse crollare mura impassibili di suono, che solo l’ululato del vento era capace di colmare.

No!

Non volevo diventare come lui. Non potevo. Non sarei mai diventata un mostro. Non sarei mai diventata una belva del tempo. Non avrei mai provato indifferenza e non avrei mai smesso di aspettare la morte in ogni singolo momento della mia esistenza.
Forse ora voleva uccidermi. Forse era sempre stato quello il suo intento. Voleva condannarmi al suo dolore così non si sarebbe mai più sentito solo. Voleva qualcuno con cui condividere il resto della sua immortalità.

“Non devi fare così, tesoro” disse sorridendomi schietto, con fare presuntuoso ed arrogante. “In molti farebbero la fila per anche solo assaggiare la mia essenza. Io invece l’ho donata a te”.

Le sue gelide dita, come frammenti di ghiaccio, si avvicinarono sfrontate al mio volto, accarezzando superbe il contorno delle mie labbra, sfiorando la lingua che si nascondeva all’interno.

“Dovresti essermi grata per questa gentilezza, sai?” Pronunciò seducente la sua nobile voce, come una leggiadra cantilena antica, che solo il tempo era in grado di cogliere. “Infondo ti ho salvata dalla tua demenza di poco prima”.

La pelle bianca delle sue dita venne profanata da quel vivido rosso, che ancora risiedeva sulla mia bocca e che lui aveva cercato di pulir via, finché se lo portò provocante alle labbra, assaggiando quella sua essenza che lui stesso aveva definito così preziosa.
I caldi raggi del sole illuminavano a tratti il cielo quasi terso e pugnalavano infami il volto austero di un diavolo più vecchio di loro, mentre la lieve brezza fresca del vento osava sfiorare il suo fragile respiro contro il corpo inebriante di un uomo che forse nemmeno esisteva.
Eppure era così reale. Così vicino. Così vivo, che arrivai addirittura a volerlo. A sentirlo. A desiderarlo, accorciando quella corta distanza, lontana come un abisso. Lontana come il mare. Lontana come il cielo da quest’Inferno terrestre. Anche se era sbagliato. Anche se non era giusto. Anche se non dovevo farlo. Lo agognai a tal punto da sentire una voragine nel pieno centro del petto spaccarmi in due come petali di una rosa.

“Se ne vuoi ancora basta solo chiedere, amore”.

No!

Non dovevo. Non potevo. Lui non avrebbe vinto. Non di nuovo. Io non glielo avrei lasciato fare perché io l’odiavo. Perché il mio odio nei suoi confronti era la cosa più forte che avessi mai provato. Per tutta la pena che aveva provocato a me e alla mia famiglia io non avrei ceduto.
Mi alzai di scatto, ignorando il dolore che mi ottenebrava ancora la mente, cercando di allontanarmi da quel mostro, nei cui occhi vedevo di nuovo l’indifferenza. Ma forse feci un errore.
L’immagine solenne di Klaus mi si materializzò davanti agli occhi. In così pochi istanti. In così poco tempo. Non riuscii neanche a realizzare che ciò fosse vero. Non riuscii nemmeno a comprendere che l’ira nelle sue iridi fosse reale.

“Non voltarmi le spalle, umana!”.

Sottolineò con cattiveria quell’ultima parola come se fosse una condanna e afferrando malignamente il mio braccio, mi attirò più vicino a sé, finché un solo dannato respiro fu capace di dividerci.

“Lasciami!”

Urlai, cercando di allontanarmi dal suo corpo imponente che risplendeva sotto il sole, come una creatura divina, al contempo mortale, ma la sua stretta divenne più forte. Talmente forte da provocarmi un dolore immane.
Mi faceva male. Faceva così tanto male. Troppo. Non riuscivo ad allontanarlo. Non riuscivo a sottrarmene. Le sue dita, come strette cinghie di ferro, mi graffiavano la pelle e mi martoriavano la carne, ma io non riuscivo a fuggire. La mia forza non era abbastanza. Io non ero abbastanza. Non contro di lui.

“Dovresti dimostrare un po’ più di riconoscenza con chi ti salva la vita, sai?”  

La sua voce si tramutò in un sibilo, così beffardo ed inumano, che quasi divenni schiava delle sue crudeli e brutali parole. Come se lo temessi ad un punto tale da non poter vivere senza di lui neanche un singolo attimo di questa mia folle vita. Perché in ogni minimo istante che cercavo di intravedere quel barlume di umanità, lui uccideva questa speranza come cenere al vento.

“Non sono un uomo temperato, Alba” mi disse con un tono freddo, che non ammetteva alcuna replica. “Ora voglio che tu salga in macchina, senza dire una parola. Abbiamo un lungo viaggio da intraprendere”.

“No!” Risposi, urlandogli in faccia, senza neanche avvedermi. “Io non voglio venire con te”.

Non seppi dove trovassi la forza di parlargli in quel modo. Senza paura. Senza timore. Senza vergogna o almeno in modo apparente. Lui non doveva accorgersene. Solo così avrei potuto sopravvivere. Solo così sarei riuscita a fuggire. Solo così, molto probabilmente, avrei avuto salva la vita.
Io non gli dovevo niente.

“Tesoro, il tuo volere non ha alcuna importanza” mi disse sorpreso della mia testardaggine, ma evidentemente non era ancora abbastanza. Lui voleva di più. Non si sarebbe fermato.

Si avvicinò. Così velocemente. Così rapidamente. Nei suoi occhi vedevo i miei, che affogavano in un mare blu, ghiacciato dalla luce possente della morte.

“Ammiro la tua ostinazione, piccola, ma non vorrei essere costretto a soggiogarti per rendere la tua presenza più tollerante nei miei riguardi”.

Sospirai. Lui non ci sarebbe riuscito. Io l’avevo preceduto. Questa volta avrei potuto vincere. Il ciondolo al collo era la mia unica salvezza e quelle piccole foglie di quella magica pianta, rubata alla signora Miller mi avrebbero salvata.
Dovevo solo fargli credere di essere soggiogata, quando lui si sarebbe avvicinato al mio sguardo. L’opportunità mi si sarebbe presentata da sola. Solo così allora avrei potuto scappare, senza timore.

Non devi avere paura di niente se vuoi sopravvivere.

Allungai la mano libera sul mio petto, cercando quell’unico oggetto capace di proteggermi, ma lui non c’era. Non più. Non lo trovavo. Era sparito, volatilizzato come nel nulla.

“Hai perso qualcosa, tesoro?”

Klaus.

Era lui. Doveva essere lui. Ne ero sicura. Ne ero assolutamente certa. Lui se n’era accorto e quando mi aveva rapita si era preoccupato di prendermelo, così da poter soggiogarmi ogni qual volta volesse.

“Ridammelo!”

Rabbia. Urlai quelle parole marcate come se fossero veleno, ma non lo scalfissero per niente, anzi, lui rise della mia prevedibile ostinazione, come per ricordarmi che sarebbe sempre stato un passo avanti a me e ciò mi fece infuriare ancor di più.
Ma cosa avrei potuto fare contro di lui? Come potevo sconfiggere il diavolo?

“Non temere, il tuo prezioso gingillo alla verbena si trova in un posto sicuro” disse sorridendomi bastardo, con fare minaccioso. “Sarebbe davvero un peccato se accadesse qualcosa all’ultimo regalo del tuo adorabile nonno, non trovi?”.

Ti odio.

Non glielo dissi. Non glielo espressi a parole. Lo tenni tutto per me. Nascosto. Celato. Come se fosse un regalo. Perché tutto quell’odio e quel rancore nei suoi confronti era talmente forte e confuso, da potermi provocare solo pena ed afflizione, ma fui certa che lui lo notò comunque.
Non disse nulla, sospirò appena. Fissava il mio sguardo nel vuoto, con fare malinconico. Come se quella lieve scintilla che brillava nelle sue iridi, fosse tornata ad ardere corrosiva il volto di un uomo cinico e perverso, ma terribilmente geniale e pur sempre solo.

“Sali in macchina”.

Il suo sussurro m’invase le membra, temibile, sprezzante, afflitto. Come se davvero fossi riuscita ad offenderlo. Come se l’avessi davvero colpito. Come se anche lui avesse un punto debole. Così come me. Così come tutti.

Non sai neanche cosa vuol dire odiare. Non hai vissuto abbastanza per saperlo.

La sua mano lasciò decisa il mio braccio dolorante, che cadde rovinoso lungo il mio fianco, così maldestramente che quasi persi l’equilibrio, perché fino al momento prima l’intero mio corpo si era affidato alla sua insostenibile forza.
Il vento mi scompigliò con furia i capelli e ballava delicato sul tessuto della sua maglia, scura come la notte come il manto del cielo. Poi si voltò, forse troppo lentamente e pacatamente, come se stesse attendendo qualcosa. Come se l’avesse già prevista. Come se davvero fosse capace di leggere i pensieri del mondo.
Riuscì in un attimo a fermare la mia mano, che teneva stretta quello spesso ramo contro la sua schiena. Ci riuscì così facilmente e velocemente da non farmi sentire neanche dolore. Da non farmi neanche comprendere cosa la rabbia mi aveva spinto a fare, prima che fosse troppo tardi. Prima che avessi compiuto l’irrimediabile.
Lui mi aveva fermata.

“Cosa vorresti fare, Alba? Uccidermi?”

Il suo volto era crudele. Il suo volto era brutale. Così atroce ed efferato da farmi mancare l’appoggio del suolo, mentre le sue dita stringevano avide la mia mano e giurai di sentire lo scricchiolio delle ossa all’interno.

“Hai bisogno d’imparare qual è il tuo posto una volta per tutte” così dicendo mi venne addosso, tanto che non riuscii a distinguere più dove fosse il sole.

Mi ritrovai per terra, senza forze. Il mio corpo non dava segni di voler reagire o anche solo di combattere. Io non ci riuscivo. Forse non volevo. Forse non ne sentivo il bisogno. Rimanevo lì a terra con il cuore ridotto in brandelli, come se mi stesse dilaniando l’anima.
Le sue mani stringevano avide il mio collo e mi rubavano l’aria. Me la portavano via. Io non riuscivo a respirare. Io non potevo respirare. Forse mi stava uccidendo. Forse gli occhi neri, intrisi di collera, di quel diavolo, in cui prima avevo visto riflesso il cielo, sarebbero stati l’ultima cosa che avrei visto in tutta la mia vita, prima della miseria immortale. Prima di diventare come lui. Prima di diventare anche io una bestia, senza sentimenti, né emozioni. Solo un eterno ed impassibile nulla.

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

“Hai messo la mia pazienza già abbastanza alla prova oggi” disse sibilando tra le zanne affilate, alzandosi in piedi senza la minima fatica. “Fa’ un’altra volta una cosa del genere e hai la mia parola, sarà l’ultima cosa che farai”.

Mi guardava dall’alto, come se non fossi importante. Come se fossi una nullità. Come se non esistessi nemmeno. Come se fossi solo un’inutile ragazzina che poteva facilmente mettere a tacere con la sua inarrestabile forza e con le sue ostili minacce.
Mi stava sfidando, ne ero sicura, ma non volevo farlo vincere. Non volevo concedergli questa vittoria. Non di nuovo. Io non avrei ceduto. Non questa volta. Tanto se avesse voluto uccidermi lo avrebbe già fatto da un pezzo.
Mi alzai in piedi. Decisa. Irremovibile. Sicura. Per la prima volta in vita mia non avevo paura. Non avevo timore. Gli sputai in faccia, come uno schiaffo, tutto quell’odio che conservavo nei suoi confronti, forse con troppo rancore.

“Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco”.

Un istante. Un attimo dissipato nello spazio vorticoso del tempo. Il suo volto, accecato dall’ira immane di un momento qualsiasi, venne arso con furore da una collera brutale di parole prive di senso.
Poi arrivò quel dolore. Un dolore così intenso e bruciante come il fuoco vivido di un rogo nel deserto. Un dolore così rovente ed insalubre come infide pietre bollenti di carbone, ma un dolore così spontaneo ed improvviso che quasi ci volle un po’ prima di arrivare completamente a sentirlo.
Ma era così chiaro. Forse troppo.
Rivolta a terra, sfiorai la mia guancia arrossata, sentendo quella ferita, procurata dal suo schiaffo, che mi si apriva effimera colante di sangue, mentre il suo sguardo furioso pareva aver perso, in un singolo istante, quell’opprimente tonalità scura che gli dipingeva le iridi angeliche, recuperando quella razionalità e quella sicurezza che gli garantiva il controllo su tutto. Come se si fosse accorto del terribile atto ignobile che aveva compiuto.
Silenzio.
Un silenzio glaciale seguì quel breve momento. Un silenzio che palpitava sotto la mia pelle ora violacea in seguito al suo colpo, partito crudele da una mano testimone del tempo. Un silenzio che da solo pareva parlare.
Calde ed infide lacrime mi martoriavano con il loro bruciore il viso segnato, senza neanche avere la consapevolezza e la forza di riuscire a fermarle. Non potevo. Non ci riuscivo. Forse non volevo neanche. Anche se sembravo debole non aveva più importanza. Questa non era più una gara. Nei suoi occhi non albeggiava più un tono di sfida, ma di sorpresa.
Rimanevo a terra. Immobile. Senza parola. Senza pensieri. Senza difese, né speranze. Rimanevo immobile di fronte a lui, anch’esso in silenzio, mentre non osava neanche guardarmi. Sovrastato, incredulo, da un bagliore accecante, che aveva restituito ad entrambi il senno.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

E mentre mi ripetevo ossequiosamente quelle parole in testa, iniziai a correre così veloce, così rapidamente e prontamente il più lontano possibile da quel luogo. Il più lontano possibile da lui. Ferita, disarmata, esamine, ma ciò non aveva importanza. Non ora. Io dovevo fuggire. Dovevo fuggire dal diavolo, ma stranamente alla mia folle corsa lui non oppose alcuna resistenza. Come se mi stesse donando quella possibilità, inseguito a quel  gesto, che pochi istanti prima, aveva sopraffatto entrambi.

 

* * * *


 
“Come hai potuto farmi questo, Niklaus?”

Parole. Avverse parole sconquassano delatorie un corrotto respiro che riversa menzogne senza fine e che corrode erosivo una tacita promessa troppo immorale per anche solo averne memoria.
Ma devo farlo, perché quella stessa promessa perduta è la sola causa di tutto ciò. Una promessa innocente, mondana, ma infondo avevo sempre saputo il dolore che avrebbe causato.

Fino ad un attimo prima che il mondo finisca.

Il sangue colante dalle mie livide labbra, macchia incurante quell’aria viziata che circonda avida ciascuno di noi. Sottintendendo quel gelido albore di una fiducia fraterna appena spezzata. Sospesa invisibile tra melodie profane, risalenti da mura imponenti di un inferno troppo vicino.

“Elijah, io…”

“Non dire una sola parola. Mi suscita ribrezzo anche solo ascoltare la tua voce”.

Non mi lascia parlare. Non vuole ascoltarmi, ma infondo non lo biasimo. Come potrei farlo? Lui ha ragione. So che c’è l’ha. Io l’ho tradito. Ho tradito la sua fiducia.
Ma come può essere una colpa amare qualcuno? Come può un amore essere così maledettamente sbagliato? Condannato a bruciare per una meschina esistenza che non sarebbe mai giunta ad una fine?

“Io non rinuncerò mai a lei, fratello”.

Cerco di alzarmi dal suolo, pulendomi da quel sangue di cui lui mi ha macchiato. Proprio come faceva lui. Proprio come faceva nostro padre. Ma lui non può diventare come Mikael. Io non voglio che lo diventi, ma forse è inevitabile, io sono un mostro. Sono un mostro perché amo la donna di mio fratello. Questa è la mia colpa e questa sarà la mia condanna, ma avrei lottato. Per quell’unico barlume di felicità io non avrei cessato di combattere. Solo per lei. Esclusivamente per lei sono disposto anche a perdere lui.

“Mi dispiace, fratello”.

“Io e te non siamo fratelli” afferma sprezzante, guardandomi con sdegno. “A volte mi chiedo se lo fossimo mai stati”.

Non può dirmi questo. Non deve dirmi questo. Io non voglio che lo dica. Non voglio sentire queste inique parole, pronunciate dalla sua bocca. Non voglio che mi guardi in quel modo. Non voglio che mi guardi come lui. Non deve farlo. Non può farlo.

“Non oltraggiarmi, Elijah”.

Urlo. Gli sputo in faccia parole sommesse, crudeli, spietate. Parole che però lui neanche ascolta. Se ne va, senza dire una parola. Senza scomporsi nemmeno per un istante. Come se fosse superiore. Come se non volesse abbassarsi ad un tenore troppo abietto. Come se fosse troppo nobile. Troppo dignitoso per essere mio fratello. Per essere il fratello di uno sprezzante bastardo.
Ma io non glielo avrei permesso. Avrebbe pagato per quest’ingiuria insolente.

“Tu non puoi andartene, Elijah” inveisco smanioso contro la sua dannata ed assortita immagine già troppo lontana. “Tu non puoi voltarmi le spalle”.

Urlo. Le mie urla si diffondono eloquenti tra lo scrosciare delle acque di un fiume troppo distinto, che pare maledire, con il suo scalpore, un cielo tonante, squarciato dalla luce accecante di un fulmine poco lontano, mentre pioggia incessante cade dall’etere luttuoso, come se fosse davvero la fine. Come se fosse la fine di tutto.

Fino ad un attimo prima che il mondo finisca.

La figura austera di mio fratello, si volta in quel nulla come una placida ombra, rivolgendomi spietata il suo sguardo nero come la notte e talmente indifferenze da provocarmi rancore.

“Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco”.

Parole. Crudeli ed infami parole di fuoco paiono colpirmi come la più feroce delle lame nel pieno centro del petto. Così perfide. Così inique, tanto da spezzarmi lo smanioso respiro, che si riversa impassibile, insudiciando quell’aria troppo leggiadra per un sangue sporco come me.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Dolore. Un dolore tale mi cola infido come ferite sul cuore. Così sovrastante. Così dominante. Così aperto e reale, che non posso fare a meno di cadere al suolo. Come un debole. Come un disperato. Come un bastardo.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

E mentre vedo la sua nobile figura allontanarsi lentamente dalla mia, comprendo. Comprendo ogni singola cosa.
Tutta quella felicità era solo finzione. Lo sapevo. L’ho sempre saputo, ma infondo l’ho negato, solo per poter vivere lo stesso.
Quella felicità era solo un leggero barlume di paradiso prima di sprofondare nel baratro più nero dell’inferno, come cenere che scivola tra le dita sotto il vento imponente della nullità.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Si, adesso comprendo. Comprendo ogni singola cosa. Comprendo come tutto ciò che avevo prima, ora non esista più nemmeno nell’ombra di un istante.
Perché ora è tutto cambiato.
Perché ora c’è soltanto la guerra.

 

* * * *
 

 
Io lo odio.

Quelle parole non smettevano di devastarmi insidiose la mente. Rapide. Brutali. Atroci. Spietate, mentre io le riversavo fuori. Correndo come il vento verso il nulla più totale.
Dolorose fitte mi pugnalavano infami il petto, scosso da sussulti senza voce e senza aria per respirare. Ma io dovevo andare avanti. Ancora più avanti. Sempre più avanti, fin quando il cuore mi fosse esploso nel petto, io non dovevo fermarmi.
La voce assidua del vento mi sputava addosso lame argentate. Lame che ferivano. Che graffiavano e che mi brutalizzavano il viso grondante di sangue e tutto per colpa sua. Tutto questo per colpa di quel diavolo.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Quella era stata la cosa più vera che avessi mai detto in tutta la mia vita.
Caddi. Caddi a terra sopra un prato senza nome. Sotto ad un cielo troppo distante. Lontana da tutto e da tutti, ma così maledettamente vicina a me stessa.
Io volevo fuggire con tutto il mio cuore. Con tutte le mie forze. Con tutto quell’ardore che mi bruciava smanioso nel petto come un foco cocente, ardente di rabbia, di disprezzo, ma soprattutto di odio.
Io l’odiavo. L’odiavo con tutta me stessa, come mai avevo odiato in tutta la mia vita. L’odiavo a tal punto da poter odiare il suo respiro. Odiavo la sua nobile voce. Odiavo il suo dannato sguardo intriso di rabbia, ma odiavo anche quella luce luminescente che si nascondeva silenziosa in esso.
Io l’odiavo. Odiavo tutto di lui. Il mio odio era così forte. Così sovrastante. Così incombente e dominante da non riuscire a controllarlo. Da non riuscire a reprimerlo. Io non potevo farlo. Non ci riuscivo. Quell’odio mi divorava. Mi lacerava. Mi dilaniava consumandomi pezzo per pezzo in un grido mortale che faticavo ad esprimere. Ma dovevo farlo, perché quell’odio accecante mi stava prosciugando.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Colpii con ferocia quel terreno troppo asciutto, con un pungo troppo ingente. Lo feci così forte. Così intensamente. Così inarrestabilmente e duramente, quasi da provocarmi dolore. Lo stesso dolore corrosivo che avevo sentito quando Klaus mi aveva colpita con uno schiaffo.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Lo feci ancora e ancora e ancora, fin quando non sentii più il fiato nel petto. Fin quando quell’odio, intriso di una rabbia rossa come il sangue parve diluirsi sotto il bagliore accecante del sole. Fin quando mi accorsi di essere di nuovo completamente sola.

Come ci si sente a non avere più nessuno?

Piansi. Piansi così maledettamente forte che tutte quelle lacrime parvero solcarmi il viso come argini di un fiume. Cadevano, svanivano, per poi precipitare sofferenti nel nulla del suolo come corpi morti. Come i miei genitori dopo quel maledetto incidente. Come la signora Miller con la gola squarciata da quel mostro maledetto.
E io avevo provocato tutto. Io avevo provocato tutto questo.

Ci vuole sempre una bestia per ferirne un’altra, non trovi?

Chiusi gli occhi e strinsi i pugni così tanto da far penetrare le unghie nella pelle, come se sentissi lo scorrere assiduo del sangue scivolarmi tra le dita. Ma non aveva alcuna importanza. Io volevo ferirmi. Dovevo ferirmi.
Dovevo far scorrere via ogni minima goccia di sangue, così avrei scacciato il suo. Così non avrei avuto più nulla con me di quella bestia.
Lo feci ancora e ancora e ancora, trattenendo quell’immane dolore digrignando i denti. Lo feci non so per quante ore o per quanti istanti. Il tempo pareva fermo, abbandonato al destino peggiore della miseria eterna.
Poi mi calmai.
I respiri mi uscivano grevi dalle labbra dischiuse. Così pesanti. Così stanchi. Come se stessi ingoiando del piombo. Come se non riuscissi più a respirare. Come se mi fossi accorta di nuovo di essere completamente e totalmente sola.

“La solitudine è la condizione umana, tesoro, nessuno riempirà mai questo vuoto”.

Klaus.

Era lui, la sua voce l’avrei riconosciuta fra milioni. Perché quella voce era la stessa che urlava dai miei incubi, accecando la realtà.

“Vattene!” Asserii, senza però nemmeno voltare la testa. Io non dovevo guardarlo. Non volevo guardarlo. Non ci riuscivo neanche.

Sentii la sua presenza farsi più vicina, finché la sua ombra, distesa al suolo, raggiunse la mia, sovrapponendosi ad essa.

“Devo ammettere che non è stato tanto oneroso da parte mia colpirti…”

“Ho detto vattene!”

Non volevo ascoltarlo. Non volevo sentirlo. Non volevo udire tutto quel rancore divorarmi di nuovo solo perché lui mi era accanto. Avrei preferito morire mille volte, con le pene più atroci, piuttosto che avere un suo solo sguardo.
La sua immagine alle mie spalle s’irrigidì, come se stesse cercando di calmarsi dalle mie dure, ma veritiere parole, finché lo sentii sedersi al mio fianco, sopra allo stesso terreno senza nome, profanato dal vento.
Ma io non volevo.
Cercai di andarmene, ma lui mi fermò, prendendomi per un polso prima ancora che mi alzassi da terra e mi parlò lentamente con voce sommessa.

“So che mi odi, Alba e io ti ammiro per questo”.

Mi fermai per un istante, assaporando goccia per goccia ogni singola parola. Come se me le avesse regalate, sprecando il suo fiato e il suo interminabile tempo a venire a cercarmi, di nuovo.

Io ti troverò sempre, Alba. Te lo prometto.

Voltai la testa verso il suo viso, guardando il sole che si rifletteva spavaldo in esso, illuminando quei chiari occhi come il mare, che silenzioso si tuffava nel cielo, ma non vi trovai nulla. In quegli c’era solo la pallida immagine dell’indifferenza.

“Ti ammiro, perché a te è concesso il diritto di odiare e credimi, l’odio è il piacere più duraturo” mi disse, sussurrando parole glaciali, così silenziosamente che pareva non esistessero nemmeno. Come se fossero fantasmi. “L’odio ispira vendetta, Alba e la vendetta non muore mai”.

Lo ascoltai, completamente e totalmente rapida dalla sua voce elegante, che come una cantilena pareva rievocare ricordi troppo distanti da potersi riflettere negli occhi di un mostro.
Come se soffrisse. Come se stesse parlando della sua storia, attraverso la mia. Come se anche lui provasse sentimenti.
Ma io non dovevo lasciarmi abbindolare da lui. Non potevo. Dovevo fermarlo. Non potevo credere ad una bestia che voleva avere il controllo su tutto. Non potevo fidarmi di un assassino che odiavo con tutta me stessa.

“Tu non sai nulla di me” gli dissi sprezzante, parole di fuoco, cercando di ferirlo nel modo peggiore possibile, facendo leva sulla sua presunta debolezza.

Mi alzai velocemente e senza guardarlo mi voltai verso il nulla e incominciai a camminare. Senza sapere dove fossi. Senza sapere quale strada portasse alla mia casa o quanta distanza mi separasse da essa. Io non sapevo nulla, ma il nulla era preferibile che essere al suo fianco.

“Vedo la pena dietro il tuo sguardo, Alba. Riesco a sentirla sanguinare nel tuo cuore. Davvero credi che non conosca nulla di te?”

Mi fermai. Quelle parole mi giunsero troppo distinte da apparire irreali, perché non potevano assolutamente essere state pronunciate dalla bocca di Klaus. Era completamente assurdo.
Mi voltai lentamente e rimasi in silenzio finché la figura di Klaus raggiunse la mia con troppa gentilezza.

“Anche io ero come te, sai? Molti secoli fa” mi disse, azzardando qualche altro passo verso di me, ma io, questa volta, non opposi resistenza alla sua vicinanza. Rimasi tacitamente ad ascoltarlo. “Anche io avevo le tue stesse lacrime corrose di rabbia che m’infangavano lo sguardo, una volta”.

Trattenni il respiro quando le sue dita affusolate sfiorarono la mia guancia e strinsi i denti dal dolore per quel livido troppo vivo da poterlo dimenticare. Quel livido provocato dalla stessa mano che ora pareva accarezzarlo, asciugandomi tutte quelle lacrime, che mi velavano le iridi scure.
Come se mi stesse chiedendo perdono. Come se stesse cercando redenzione e se non l’avessi conosciuto bene avrei potuto dire che quella sensazione che sentivo era veritiera. Che anche lui, una volta, era stato umano come me. Ma ciò era impossibile. Doveva esserlo per forza.

“Ora ti chiedo di guardami adesso, Alba” sussurrò all’improvviso, circondandomi il viso con le sue mani, in modo che lo guardassi in volto. “Guarda nei miei occhi e dimmi cosa vedi”.

Non mi stava soggiogando. Ne ero certa, anche se forse non avrei mai potuto dirlo con esattezza, ma ciò nonostante seguii il suo volere, che non mi era stato imposto o comandato, ma implorato. Come se fosse una supplica. L’ultimo desiderio di un condannato a morte.
I suoi occhi erano azzurri. Così azzurri. Troppo azzurri. Erano freddi e luminescenti come l’inverno. Erano così distanti e remoti, offuscati da tutti quei gelidi secoli di solitudine e rabbia repressa.
Non erano gli occhi di un mostro. Non erano gli occhi di una bestia. Erano gli occhi di un uomo triste, condannato ad essere solo ed odiato per il resto della vita. Per tutto il resto di una placida e fragile eternità.
Senza essere mai compreso. Senza essere mai capito. Con una coscienza vuota, strappata dai sogni. Come se fosse costretto a nascondersi. Come se si fosse negato i sentimenti per non essere ferito, di nuovo.
Come se fosse perso. Disperato. Umiliato. Dominato dalla sua stessa rabbia e dal suo stesso odio, che cercava di celare di fronte al nulla e alla totale indifferenza. Facendo credere a tutti di essere completamente e totalmente vuoto.

“Nulla” risposi “Io non vedo nulla”.

Lui mi sorrise malinconicamente, convinto che anche io fossi caduta nel suo gioco e abbassando per un attimo lo sguardo su un punto impreciso tra le nostre ombre distese al suolo, pronunciò flebili parole, comandate dal vento.

“Conserva il tuo odio, piccola. Sarà l’unica cosa a farti sentire ancora viva”.

Passarono degli istante o forse erano ore. Non me ne resi conto. Non lo feci. Fu lui a rompere quel silenzio irreale, creato attorno alle nostre immagini fin troppo vicine.

“Ti ho portato una cosa” disse tirando fuori dalla tasca della giacca quel ciondolo blu che brillava nell’aria. “Così saprai che le tue scelte sono vere”.

“La mia collana” risposi sorridendo come quel giorno in cui Ryan me l’aveva ridata. Quando avevo sorriso senza alcuna ragione al funerale di mio nonno. Come se non fossi sola. Come se non lo fossi mai stata.

“Posso?”

Annuii esitante e lasciai in silenzio che lui la allacciasse al mio magro collo, come se così facendo avessimo in qualche modo ricominciato. Come se dopo quella giornata di guerra ci fossimo diretti verso un tramonto di pace.

“Come posso fidarmi di te?” Gli domandai insicura, voltandomi di nuovo verso il suo sguardo glaciale.

Non dovevo chiederglielo. Non dovevo farlo. Avrebbe potuto mentirmi, senza la minima fatica e io non avevo niente che mi desse la veridicità delle sue parole. Io non avevo nulla, ma volevo fidarmi di lui. Lo volevo così tanto. Così intensamente, anche se non ne comprendevo il motivo, ma era come se ne sentissi il bisogno e ciò era come se fosse il mio tormento.
Volevo fidarmi di lui, anche se significava fidarmi delle sue bugie. Sapevo che era sbagliato ma non m’importava. Dopo quei brevi istanti precedenti avevo avuto la conferma che dentro di lui ci fosse qualcosa di umano.
Volevo davvero credere a quella speranza, anche se molto probabilmente stavo solo sbagliando.

“Sono un uomo d’onore, Alba. Se do la mia parola la mantengo” rispose come se avesse letto i miei pensieri. “Solo una promessa non ho mai mantenuto in tutta la mia vita”.

I suoi occhi velati di tristezza si fecero lontani, cupi, rievocanti ricordi sepolti sotto ad un passato troppo lontano, più pesante, persino, di assidue zolle di terra rappresa, che gli insudiciavano meschine il cuore.
Mi venne spontaneo chiedere quale fosse la sua promessa e a quella domanda lui tentò di riacquistare quel controllo di cui ne era desideroso e mentre ci avviavamo verso la sua macchina mi sorrise appena. Un sorriso così sincero ed insolito come mai avevo visto in lui fin tanto almeno che avevo memoria.

“Forse un giorno te la dirò”.

 

* * * *
 

 
Sto correndo.
Fuggo, non so da chi né da cosa.
Un tacito silenzio smuove smanioso mura insondabili di suono, come oscuri testimoni nascosti in una notte placida, albeggiante del colore ceruleo della luna, unica testimone della mia tormentosa apatia verso quel qualcuno nascosto nella penombra, ma io non lo vedo. Non ci riesco. Non ancora almeno. Ma lo sento. È lì, proprio dietro di me. Mi sta raggiungendo.
Scappo. Continuo a correre tra grevi e taglienti arbusti affilati in un bosco artefatto, dominato da gocce impercettibili, che piovono incuranti dal cielo, lugubre, falso, irreale, luttuoso. Mentre urla assordanti, nate dal vento, richiamano a loro un Dio privo di voce.
Sento il suo respiro soffiarmi sulle spalle. Sento i suoi occhi trafiggermi la schiena. Così crudele. Così infido e meschino. Un diavolo senza il suo volto. Come posso rifugiarmi da lui se non riesco nemmeno a vederlo?
Ho paura. Ne ho sempre avuta. Il bastardo figlio del nobile e potente Mikael è solo un codardo. Un vigliacco. Una macchia nera, che imbratta un nome troppo illustre per essere dimenticato. Persino mio fratello mi ha voltato le spalle.

Preferirei morire mille volte  piuttosto che stare al tuo fianco.

Questo mi aveva detto. Questo mi aveva sputato in faccia con tutta quell’indifferenza, che mi aveva ferito. Che mi aveva ferito così tanto. Per questo ora sono qui. Per questo ora voglio fuggire, ma quella bestia mi ha trovato. Quella stessa bestia che ora avrebbe finalmente posto fine all’esistenza di un codardo traditore.

Avrei preferito che tu non fossi mai nato.

Cado. Cado in quel terreno troppo umido in un bosco troppo ingente, tra arbusti rivestiti di silenziosi sussurri, che piangono il loro tormento come anime dilaniate all’inferno, e allora lui mi raggiunge.
È la fine.
I suoi occhi vermigli, iniettati di sangue, che affogano nella morte, mi guardano per un attimo. Poi un lieve bagliore illumina i suoi denti, zanne affilate come lame taglienti di spade arrugginite, che con ardore ed inarrestabile ingordigia, sporgono fuori dalle fauci di quel lupo. Di quella bestia. Di quel carnefice che mi avrebbe portato alla morte.
La sento. È così vicina. È così reale, così vera, così viva. Non riesco a fuggire. Non riesco a sottrarmi. Sono nato per morire. Mikael aveva ragione. Io non sono degno neanche di essere vivo.
Un urlo. Un agghiacciante urlo interrompe eloquente quell’attimo privo di tempo e allora lo vedo. È lì proprio davanti a me. Così piccolo. Così indifeso, troppo. Non sono riuscito a fermarlo e ora è troppo tardi. È così maledettamente e fottutamente tardi.
È tutta colpa mia. Non avrei dovuto portarlo in quel luogo. Non avrei dovuto costringerlo a fuggire con me, solo per non sentirmi solo. Avrei dovuto proteggerlo. Avrei dovuto difenderlo. Lui non doveva morire. Doveva salvarsi. Almeno lui doveva salvarsi.

“Henry”.

Mi avvicino all’inerte corpo di mio fratello più piccolo, ripiegato su di esso sopra ad un giaciglio di foglie, come se stesse dormendo. Cose se stesse sognando. Come se quella bestia non l’avesse sbranato e si fosse solo addormentato in quei suoi pochi anni ancora indefinibili come vita.

“Henry ti prego svegliati!”

Piango. Calde lacrime amare mi sfregano le goti, solcando rapide la pelle del mio viso fino a scendere come pioggia sul suo corpo minuto ancora bambino.

“Ti supplico apri gli occhi”.

Non li apre. Non mi ascolta. Non so cosa devo fare. Non so cosa devo dire. Il suo sangue non smette di sgorgare brutale dalle sue ferite e io non riesco a fermarlo. Non posso fermarlo. Questo mi macchia perenne le mani e io sono impotente. Sono completamente e totalmente inutile. Non riesco a salvarlo. Non riesco ad aiutarlo.
Lui sta morendo e io non posso far nulla.

“Ti prego, Henry, non morire. Non mi lasciare”.

Urlo. Lo chiamo. Scuoto le sue braccia martoriate dai denti di quella bestia, ma lui non si muove. Rimane lì. Fermo. Immobile. Esamine sotto i miei occhi pietrificati. Senza difese. Senza sogni né speranze.
Completamente ed assolutamente solo. Non ho nessuno a cui chiedere aiuto. Lui muore e io non posso far altro che restare a guardarlo.

“Ti prego prendi me non lui, ti supplico”.

Parlo al cielo. Parlo a quel vento che nefando invoca il suo nome, ma nessuno mi sente. Nessuno mi risponde. Nessuno mi ascolta. Nessuno mi aiuta.
Perché, dannazione? Perché?

“Coraggio Henry svegliati, ti prego, ti prego. Ti sto implorando”.

Lui non può morire. Lui non deve morire. Io non voglio che lui muoia, ma non so cosa fare. Quel sangue continua a scorrere smanioso e io non riesco a fermarlo. Non posso fermarlo. Vorrei con tutto il mio cuore, ma non sono abbastanza forte. Io non sono mai abbastanza. Non lo sono mai per nessuno. Neanche quando si tratta della vita di mio fratello che razza di uomo posso essere?

Avrei preferito che tu non fossi mai nato.

Forse sarebbe stato meglio per tutti.

Prendo il suo corpo e corro. Corro così tanto. Così veloce. Così lesto che quasi non sento più il fiato in gola. Il cuore batte così forte da perforarmi il petto, ma non ha alcuna importanza. Io posso salvarlo. Devo salvarlo. Anche se dovessi perdere la vita io. Lui deve vivere.

“Ti salverò, Henry. Te lo prometto”.

E mentre corro in quel bosco senza nome, il vento pare sputarmi addosso il suo laido respiro come se stesse ripudiando il suono di quell’unica promessa, che in tutta la mia vita, non sono mai stato capace di mantenere.

 

* * * *


 
Mi chiedo se l’oscurità non sia determinata dalla luce.
Infondo entrambe traggono il proprio scopo dal mondo che creiamo.
Le plasmiamo. Le forgiamo come cenere al vento sulle fenditure luminescenti di spade argentate, persuadendo noi stessi che quel reflusso cremisi colante da ferite biancastre come gelidi inverni senza albore, non ci facesse sentire insicuri come estinte creature abbandonate da Dio, che indifferenti s’infliggono sofferenza ed agonia nel terrore del cinismo umano.

Umano.

Non ricordo la mia vita precedente. La vita prima della mia morte. Come se fossi nato così. Come se fossi già nato un mostro. Una bestia che vive d’intelletto in un cosmo filosofico, nella pacata beatitudine dell’arte e della letteratura, vivendo degli istanti rapiti alla gente come il peggiore degli assassini in un mondo senza vergogna né pudore.
Questo sono io. Questo sarò io per sempre, ma non me ne compiango. Non più ormai.
Ho accettato l’idea di non raggiungere quella quiete eterna. L’unico sonno ristoratore della rigenerazione. L'unico capace di colmare un profondo silenzio, che da più di un millennio vibra avido tra mura insondabili di melodie profane.
Nessuna parola. Nessun suono. Nessun respiro. Io non sento più nulla. Non ci riesco.
Come un’anima in pena mi aggiro eloquente nel mondo dei vivi, fingendo una vita che non mi appartiene in un luogo a me estraneo, che non mi comprende.
Ma come potrebbe farlo?
Come potrebbero le persone cogliere ciò che nemmeno riescono a percepire?
Come creature vane. Come esseri indifferenti ed emarginali. Diavoli sottomessi a loro stessi. Asserviti a screziature intricate di menti contorte. Di geni incompresi dall’animo privo di onore nella beata solitudine della dimenticanza, trascinando se stessi in lande deserte, come volti senza nome e senza forza per ricordare.
Ormai conosco gli uomini. Conosco i loro pensieri. Le loro più assidue aspirazioni e i loro più irrealizzabili sogni.
So distinguere la debolezza della superbia, della paura e della brama di potere, così come so riconoscere il desiderio della carne, della cupidigia e dell’amore.
Amore. Lungo silenzio di un dolore che scivola appena in un immenso ed incolmabile vuoto.
Come fanno gli uomini a vivere di amore?
Come riescono così facilmente le loro menti ad ottenebrare vane promesse ed assidui ricordi in un qualcosa di così banale e popolano?
L’amore è sopravvalutato. È un sentimento contro natura, che danna due sconosciuti ad una dipendenza meschina ed insalubre, tanto più effimera quanto più intensa.
È come una forma di pregiudizio. Si ama solo ciò di cui si ha bisogno, ma io ora non ho bisogno di nessuno.
Sono solo. Costretto a vivere una vita al quale sono recluso. Con un passato di cui non ho quasi più memoria, frequentando l’inferno in cui anime dannate trafiggono spietate i cuori di chi li ha messi al mondo, cantando silenziose una tenue melodia che sembra perdurare nello scorrere assiduo del tempo, che divora implacabile giorni come belve assetate di sangue.
Ho tentato di tutto. L’ho fatto davvero. Ogni abilità fisica e mentale. Ogni nuova tecnologia ed esperienza. Ho riempito la mia vita di arte e filosofia, di scienze e disciplina.
Conosco a memoria volumi interi. Libri e manufatti antichi dimenticati a loro stessi, dispersi negli angoli più remoti della terra, rinvenuti nei numerosi viaggi in cui l’ho visitata, ma non è abbastanza. Non più ormai.
Ciò non è più di conforto per la mia mente. Nutre il mio intelletto, ma mi distrugge il cuore.
Ho provato a spegnerlo. Ho provato a spegnere quel maledetto interruttore in modo da non sentire più nulla e ci sono anche riuscito.
Per tutti sono diventato il diavolo. Ho ucciso centinaia di persone. Ho bruciato villaggi con donne e bambini all’interno. Ho squartato, torturato e dissanguato solo per puro divertimento, ridendo della fine nei loro occhi, che mi rafforzava gentile l’animo, ma ciò  nonostante mi sentivo ancora solo.
Ho tentato di tutto. Ho provato anche ad uccidermi se è per questo. Volevo che quel dolore finisse. Che quella ferita aperta nel mio cuore, come una voragine causata da due gelide mani, che ne tiravano voracemente i lembi, smettesse di sanguinare veleno.
E tutto solo per cosa?
Tutto solo per non sentirmi solo?

Perché le persone devono morire?

Inchiodo velocemente con la macchina quando la voce di una bambina qualunque mi sussurra innocente parole prive di senso tra mura impenetrabili di suono e di ricordi in un mondo sterile segnato dal silenzio delle tenebre. Come se fra tutti la sua voce fosse la sola cosa ad apparire viva.

"Tatia?”

“No…io mi chiamo Alba”.

Ero rimasto pietrificato davanti alle sue parole. Io il più antico di tutti, il più potente, il più odiato e temuto tra la gente ero rimasto destabilizzato. Nessuno poteva penetrare le mie protezioni. Nessuno poteva avvicinarsi a mia insaputa. Io non potevo permetterlo.
Avevo sentito una fitta calda nelle viscere. L’avevo sentita espandersi, travolgermi, arrivando addirittura a ferirmi, come se fossi un animale. Come se avessi perduto la ragione.
Non provavo più nulla. Avevo spento tutto da così tanti secoli, da così tanto tempo, troppo,  quasi da non averne più alcuna memoria. Ma in quel momento nell’udire la sua voce calda e melodiosa come il mare in uno sprazzo di paradiso tra le luci assordanti dell’inferno, ero rimasto sbalordito, meravigliato, come se il fuoco, lambito dalle fiamme, mi si propagasse impavido nelle vene e mi accecasse la vista.
Eppure non riesco a pentirmene. Non riesco davvero a pentirmi di ciò che ho sentito, di ciò che ho provato e percepito. Non ho rimorsi, né rimpianti per quel che è accaduto. Forse ciò mi definisce debole, un vigliacco, un umano, ma non sono riuscito a condannare quel calore estraneo che mi ha solleticato il petto. Avrei potuto. Molto probabilmente ci sarei anche riuscito, ma non l’ho fatto. Non l’ho voluto, forse per egoismo.
Avrei potuto ucciderla. Avrei dovuto davvero farlo perché sono crudele, perché sono una bestia. Perché sono un mostro. Questo è ciò che sono. Questo è ciò che sarò sempre. Solo un bastardo e come tale mi devo comportare.
Ma quel giorno è stato diverso, mi sono sentito leggero, libero. Per un attimo non mi sono più sentito prosciugato da un incolmabile vuoto e tutto questo a causa sua. Tutto questo soltanto per lei.
Mi volto e la guardo dormire, accoccolata sul sedile morbido della mia auto, intrappolata da una stretta cintura, come se temessi che qualcuno me la portasse via, così com’era successo con lei. Così com’era successo con Tatia.

“Cosa ne avete fatto di lei, padre?”

“Quella sgualdrina non arrecherà più pene a te e a tuo fratello”.

Lui l’aveva uccisa. Me l’aveva portata via. L’aveva strappata con violenza dalla mia vita e io ero rimasto solo, sempre e per sempre, senza quell’unica cosa per cui ne valesse davvero la pena.

Fino ad un attimo prima che il mondo finisca.

Io senza di lei non ero più nulla.
Una forza invisibile mi colpisce in pieno petto. Mi fa male. Mi fa così tanto male, troppo. Non riesco a resistere a quell’angoscia che mi s’insinua avida tra le voragini del mio torace nudo, afflitto, in preda ad un spasmo affilato come un coltello.
Mi muovo alla cieca. Debole, disorientato, stordito. Come se il grido che scaturisce dalla mia gola fosse il ruggito di sfida di una belva. Di una belva senza cuore destinata a vivere con il suo rancore in eterno.
Ma io non voglio questo. Non voglio esserlo mai più.
Spingo con le mani fin dentro il mio petto, stringendo avidamente un semplice muscolo, rimasto sopito per troppo a lungo.
Un cuore. Il mio cuore. Una massa informe di sangue marcita con il tempo. Un cuore che non prova nulla. Che non sente nulla. Un cuore distrutto dentro una bestia dall’anima distrutta.
Che cosa sono io?
Non più un uomo. Non ancora un demone. Solo una pallida ombra di ciò che ero e di ciò che non sarò mai.
Non voglio più assecondare quella condanna. Non voglio più provare sofferenza ed agonia. Tutto quello che ho fatto. Ogni singola mossa compiuta in tutti questi secoli di buio silenzio è stata eseguita solo esclusivamente per non giungere a questo.
Potrei stringere ancora un po’. Dovrei farlo, nessuno me lo impedirebbe. Basterebbe solo un pochino, solo un istante, per lasciarmi lambire finalmente dall’oscurità eterna. Solo una leggera pressione. Una minuscola, minima, insignificante pressione e tutto questo sarebbe finito.
Potrei davvero farlo.
Ma lo voglio davvero?
Un leggero sospiro raschia l’aria delle prime ore del mattino, come se neanche l’aurora stesse cercando il riposo. Come se neanche lei fosse libera di abbandonarsi al sonno sicuro dell’appagata morte, ma fosse destinata a piangere in eterno.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

È di nuovo lei. Il suo fragile respiro di velluto nero potrei riconoscerlo fino ai confini della terra. Il suo delizioso profumo dolce e delicato come una rosa tra rovi e pruni di spine morenti in mondo folle, abbandonato all’oblio, mi gremisce completamente fin dentro la pelle.
Lo respiro. Lo ansimo. Lo desidero a tal punto da  poter perdere la ragione.
Chiudo gli occhi, ascoltando quella scia di fuoco scorrermi bramosa come linfa nelle vene, mentre queste pulsano frenetiche sangue al cervello, portandomi al delirio.
Lo voglio. Lo voglio con la stessa intensità di quel giorno senza data in quel luogo senza nome. Lo voglio come se fosse la prima volta che lo stessi respirando. Che lo stessi ascoltando. Come se ogni suo minimo movimento sprigionasse un’ondata cremisi di calore accecate.
Un calore così intenso ed ardente che non può non essere mio.
Mi avvicino. Così lentamente. Così silenziosamente. Così maledettamente ansimante alla bianca linea del suo invitante collo scoperto. Come se mi appartenesse. Come se non potessi farne a meno. Come se volessi a tutti costi farla mia. Come se non avessi altra scelta.
Devo placare quella sete. Devo arrestare quella bramosia violenta. Mi consuma. Mi acceca. Mi divora fin dentro le viscere come denti affilati di un cane rabbioso, mentre strido con le unghie sui sedili in pelle, cercando di arrestare quella voglia  irrequieta.
Lei è lì immobile, indifesa, ingenua, abbandonata al sonno debole della vita. Lei è lì soltanto per me.

Completamente e totalmente mia.

Sono avvolto dalle fiamme, consumato e tormentato nel corpo, nella mente e perfino nell’anima, se mai l’avessi avuta. Incapace di fermare le emozioni disinibite e quella passione inarrestabile.

Guardami negli occhi, Alba. Dimmi cosa vedi.

Io non vedo nulla.

Aveva ragione. Aveva così dannatamente ragione. Io non sono nulla. Io non provo nulla. Fa bene ad odiarmi. Perché tutti odiano il diavolo. Perché per me non vi è altra scelta, ma infondo una parte di me aveva sperato che lei dicesse il contrario.

Posso fidarmi di te?

No, non puoi.

Lei non può fidarsi. Lei non deve fidarsi. Non voglio che lei si fidi della bestia, perché non vi è salvezza per chi ripone la propria fiducia in un mostro come me.
L’avevo colpita. L’avevo colpita proprio come faceva mio padre e lei era fuggita come io forse non avevo mai fatto con lui.
Non me ne sono reso conto. Non me n’ero nemmeno accorto. Non volevo farlo, ma la rabbia mi aveva condotto a questo. Lei mi aveva condotto a questo.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Devo fermarla. Devo assolutamente fermarla. Lei non può farmi questo. Lei non deve farlo. Io non provo nulla ed è ciò a darmi il potere. Perché se ricomincio a riprovare qualcosa tutto quello che sento è dolore.
Ma anche non sentire dolore è una pena.
Ed è per questo che devo fermarla. Ho bisogno di fermarla. Devo farlo prima che sia troppo tardi.
Basterebbe così poco. Solo un banale ed insignificante istante. Non se ne sarebbe nemmeno accorta. Non si sarebbe nemmeno svegliata. Sarebbe morta senza la consapevolezza di esserlo realmente.
Sarebbe stata solo una vittima. Una delle tante. Niente sarebbe stato diverso. Nulla sarebbe cambiato, ma perché non ci riesco? Perché di nuovo? Perché con lei?
Ormai ho perso il conto di quante volte l’abbia salvata. Come se fosse una promessa. Un patto di sangue che ho stipulato con me stesso nello stesso istante in cui le ho ridato la collana o forse anche prima.
Io devo proteggerla. Ne ho così tanto bisogno. Ne ho così tanto diletto. Questo è questo ciò che voglio. Questo è ciò che desidero realmente. Come se quell’inutile vita umana mi facesse ricordare inevitabilmente la sua.

Fino ad un attimo prima che il mondo finisca.

Ma forse non riuscirò mai a proteggerla da me. Dal diavolo. Dall’uomo solo che non potrà mai amare, condannato per sempre alla peggiore maledizione possibile.
Se avessi un cuore ora sicuramente si spezzerebbe.

Preferirei morire mille volte piuttosto che stare al tuo fianco.

Grido. Grido così forte, mentre il mio urlo si propaga come un ringhio dolente tra mura impassibili di suono, fendendo terrificante il vento e l’aria della notte, che mi sussurra segreti dalla sommità di un cielo cupo. Di un cielo silenzioso, letale, magnifico.
Lei però non mi avrebbe sentito. Non questa volta, perché mi sono così tanto allontanato in quel gelido nulla, che neanche scalfisce il mio corpo. Un fascio di muscoli sovrumani che pare dissolversi come nebbia cristallina nel bel mezzo del vuoto. Ma lei non c’è. Non più. Sono di nuovo solo. Pienamente e totalmente solo.
Sto perdendo il controllo.
Ho la possibilità di uccidere, ma mi blocco. Non ho più fame. Non ho più sete. Non ho più forze. Io non sento più nulla. Come se mi fossi svuotato. Come se fossi un’anima disperata, priva di qualunque cosa. Ogni gioia. Ogni dolore. Ogni piacere. Tutto quanto.
Quando mi trovo lontano da lei perdo completamente me stesso.
Ed è per questo che la odio.
Io la odio. La odio così tanto. Così intensamente, profondamente e voracemente. Il mio odio non ha eguali. Non ha limiti né confini.
La odio perché il mio odio è l’unica cosa vera che io abbia mai sentito in tutto questo tempo. In tutti questi secoli, afflitti dalla pena della morte, quest’odio è l’unica cosa viva.
Io la odio perché non riesco a smettere. Non dovrei provarlo. Non potrei. L’odio è un’emozione così come l’amore e questi due sentimenti sono le due più grandi debolezze di un vampiro e io non sono debole. Non sento nulla e non m’interessa di nessuno.
Questo è ciò che sono. Questo è ciò che sarò sempre. Non sarei mai stato una persona diversa. Non certo per colpa sua. Non certo per lei. Non sarebbe mai riuscita a cambiarmi. Io non l’avrei mai permesso.
Quel lontano giorno ho fatto una scelta e quella stessa scelta oggi sarebbe stata onora, ma prima ho bisogno di ritrovare me stesso. Devo capire ciò che sono e ciò che non smetterò mai di essere. Devo farlo è l’unica cosa che mi rimane da fare.
Devo uccidere.
Devo assolutamente uccidere qualcuno. È l’unico pensiero che riesco ad avere. L’unico al quale devo pensare.
Io devo uccidere. Lo voglio. Lo voglio così tanto, come se me lo stessi imponendo, come se nonostante tutto non ne sentissi il bisogno.
Ma devo farlo.
Seguo quell’aria ansimante, impregnata da una traccia infallibile di vita, mentre la mia mente si disperde in quel forte odore nauseante scalfito dal rosso vivido del sangue.
Poi la vedo. È lì, da sola, come se mi stesse aspettando.
Il suo aspro fetore, segnato dall’alcool e da scadenti narcotici, che intinge riluttante i suoi attillati vestiti, che le scoprono volgari le curve del corpo quasi nudo, non riesce a fermarmi.
Raggiungo quella prostituta senza ripensamenti né rimpianti e la sbrano completamente, riducendo la sua carne in minuscoli brandelli. In masse informi di sangue rappreso, che mi s’insinua maleodorante sui vestiti, ma non è abbastanza. Non ancora. Ho appena cominciato.
Devo uccidere. Devo farlo di nuovo e di nuovo e di nuovo, finché non mi sentirò più così infinitamente vuoto. Fin quando tornerò a provare l’indifferenza. Anche per lei. Anche per quella presuntuosa ragazzina a cui ho salvato la vita troppe, infinite volte e per quella stessa vita salvata avrei compiuto un massacro.
Perché io sono il mostro. Perché io solo la bestia. Perché io sono il diavolo e a tale destino sono condannato a perseverare.
La mia forza discende dal male e al male, quindi, è destinata a ritornare.
Chiunque sarebbe morto oggi, sarebbe morto solo a causa sua.
 

When my fist clenches, crack it open
before I use it and lose my cool
When I smile, tell me some bad news
before I laugh and act like a fool
If I shiver, please give me a blanket
Keep me worm, let me wear your coat.
 
Quando I miei pugni si stringono, riaprili
prima che li usi e perda la calma
Quando sorrido, raccontami qualche brutta notizia
prima che inizi a ridere e comportarmi come un pazzo
Se tremo, ti prego dammi una coperta
Tienimi al caldo, lascia che indossi il tuo cappotto.
(The Who –Behind Blue Eyes-)

 
  
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