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Autore: Sueisfine    21/12/2007    1 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Nineteen

~ Torture

«Togli questa merda».
«Ma perché ?». Il suo sguardo implorante faceva più che altro venire i brividi.
«Ma come perché, Lol. Fa schifo, ecco perché». Pigiai l’indice sul tasto di stop del registratore, interrompendo bruscamente la voce di Simon Le Bon che faceva disgustosamente capolino tra le note sintetiche di quella che era una delle hit dell’anno, Planet Earth. «Cristo, che merda».
«Dai, non è proprio male in fondo…», cercò di giustificarsi Lol.
«Cosa ?». Mi voltai verso di lui. «Ma hai sentito come canta ? E’ orribile, è frocio, usa troppi sintetizzatori e mi fa veramente, ma veramente, vomitare. E non capisco come, nello stesso anno, la gente abbia potuto comprare sia il nostro Faith che questa merda di disco dei Duran Duran. Non lo capisco». Stizzito, mi buttai a sedere sul divano di pelle, con un tonfo sordo. Mi accesi una sigaretta.
Lol corrugò le sopracciglia, guardandomi indispettito, «Mi stai proprio sul cazzo quando fai così Sim, lo sai, vero ?».
Si diresse verso il tavolo al centro della stanza – o, meglio, verso la bottiglia di vodka sul tavolo al centro della stanza – e si piazzò di modo da darmi le spalle.
«Dico solo ciò che penso». Aspirai lentamente il fumo dalla sigaretta. «Sono schietto».
Per essere schietto, sì, ero schietto.
«No Sim, non sei schietto». Girò il capo per rivolgermi uno sguardo di severo rimprovero, «Sei stronzo, che è ben diverso».
Per essere stronzo, sì, ero anche stronzo.
Mi concentrai sulla mia sigaretta, prima di scattare di nuovo in piedi e riprendere in mano il basso. Strimpellai qualche accordo confuso. Lol nel frattempo si era messo seduto al tavolo, e guardava fisso davanti a sé, il bicchiere pieno di liquido trasparente stretto nella morsa della mano destra.
«Proviamo ?», gli chiesi. Mi sentivo abbastanza energico, giacché quella mattina avevo dormito beatamente. Era domenica, e Robert non si faceva sentire da due giorni. Da venerdì, per la precisione. Da quando l’avevo picchiato. E mi sentivo stranamente tranquillo da allora, come immerso in una specie di dolce sollievo che sembrava rasserenarmi un poco. Un timeout che forse mi ci voleva.
Il mio interlocutore, benché perso in chissà quali reminescenze offuscate dall’alcool, rispose lucidamente, strascicando però le parole. «Ma cosa vuoi provare, Sim… Non abbiamo i testi, non abbiamo gli accordi, non abbiamo niente di niente», disse, senza distogliere lo sguardo dal muro che aveva di fronte, «Ci manca Robert, in sostanza. Magari non tornerà più, magari», ingurgitò ancora della vodka in un rapido sorso, «magari lo troveranno morto da qualche parte, domani, o dopodomani, oppure mai, e il suo corpo marcirà lontano dai suoi amici e dai suoi cari, come si merita, e tutti quanti lo crederanno rapito dagli alieni», si voltò verso di me, sorridendomi, «come Elvis !», e rise di gusto.
La smorfia che comparve sul mio volto evidentemente lo spaventò, giacché corresse subito il tiro, «Ma scherzavo eh». Poi ritornò a fissare sobriamente il muro, come a riprendere un discorso in sospeso.
Robert morto che marcisce lontano dai suoi amici e dai suoi cari, come si merita.
Ma l’alcool fa veramente dire queste cose, o forse mi sono perso qualcosa ? Sentivo questo rancore sotterraneo fluttuare ormai nei discorsi di ognuno ed impregnarne irrimediabilmente le parole. Una sensazione davvero sgradevole. Una teatralità che veniva sempre meno. Un bene ? Probabile.
«Ti farebbe piacere ?».
Non distogliendo gli occhi un momento dalla parete bianchiccia, chiese di rimando, nascondendo la sua voglia di evitarmi dietro l’ebbrezza momentanea, «Cosa mi farebbe piacere, Sim ?».
«Quello che hai detto poco fa, Lol», spiegai, «Il sapere Rob morto ti farebbe piacere ?». Calzai di un peso particolare la parola “morto”, dopodiché mi schiarii la gola.
Lasciò passare qualche secondo, come se la domanda fosse arrivata leggermente in differita alle sue orecchie, infine rispose, versandosi dell’altra vodka, «Ti ho detto che scherzavo, no ?». Continuava ad evitarmi, e, per ribadire il concetto, continuò, «Sai cosa significa “scherzare”, vero ?», con una nota di estrema noncuranza nella voce, ed una punta di saccente scontrosità.
Le mie tempie presero a pulsare. Ero sfinito da quei giochetti di parole. A me piaceva parlare chiaro, e tutte le forbite allusioni a cui ero continuamente sottoposto non mi andavano per niente giù. Specie se ostentate in quel modo.
«Sai», ripresi, posando il basso sulla moquette ed avvicinandomi lentamente a lui, l’ira che montava anch’essa, lenta, «La cosa che mi fa veramente incazzare», procedevo senza fretta, con passi e parole, adagio sul pavimento, «E’ che qui ultimamente si scherza un po’ troppo, e si fa costantemente finta di dimenticarsi fin dove arrivano i limiti degli altri», ora mi trovavo di fronte a lui, dalla parte opposta del tavolo, frapponendomi fra i suoi occhi ed il tanto rimirato muro di calce, «Si è perso il gusto dello scherzo, non c’è più ironia, e siamo, per giunta, tutti più permalosi», mi appoggiai in cerca del suo sguardo, e stavo però fissando la sua nuca, poiché, in un probabile moto di vergogna, aveva chinato il capo. «Tu sai come sono io, Lol», stringevo il tavolo con forza, le nocche delle mani che sbiancavano rapidamente, «Io sono disposto al dialogo, e farei veramente qualsiasi cosa per voi due, te e Rob intendo», le unghie graffiavano il legno, «Ma la mia pazienza ha un limite», e la mia collera ormai aveva raggiunto l’apice. Davanti agli occhi mi passavano, invisibili allo sguardo altrui, scene terribili, bocconi di memoria, fresche ferite ancora parzialmente sanguinolente che non facevano che aumentare il mio stato ansioso. Neanche mi resi conto del pugno chiuso con cui ferocemente colpii il tavolo. «Non dovete prendermi per il culo», abbaiai. Il colpo lo fece sobbalzare, e finalmente alzò gli occhi su di me. Era terrorizzato. Gli occhi lucidi e stanchi che, sgranati all’inverosimile, cercavano di non cedere alla mia rabbia. Ripresi in fretta il controllo della ragione, riportandola sul selciato con le redini ben strette, e per farlo dovetti dare momentaneamente le spalle al mio amico. «Scusami, Lol», dissi mestamente, nonostante avessi la convinzione di non dovermi scusare di alcunché, «E’ che sono nervoso, per motivi che tu sai e che non starò qui a spiegarti, e per questo perdo facilmente la pazienza».
«Sì, ho notato…». Le prime parole che il mio interlocutore mi rivolgeva da diversi minuti, e suonavano strane. Un filo di voce, fiacco e quasi ansante, come uscito dall’oltretomba. «Mi dispiace che tu ti senta così, Simon, mi dispiace». Un sospiro. Provai un’improvvisa tenerezza per lui, e mi girai di scatto, quasi a volerlo ghermire con un abbraccio. Ma l’immagine che mi trovai davanti riuscì a deviare i miei affettuosi propositi.
Lol teneva gli occhi, umidi ed iniettati di sangue, fissi sul bicchiere di vetro, che tremava sorretto da entrambe le mani, le guance biancastre ed incavate – così apparivano in penombra, anche se la sua corporatura abbondante avrebbe potuto dar ad intendere il contrario - , ed il volto che cercava di mantenersi immobile, in bilico su un sottile fascio di nervi nel bel mezzo di un’evidente crisi di qualche tipo. La fronte imperlata di sudore imprigionava radi capelli neri, e la visione di un malessere così profondo mi lasciò interdetto per qualche secondo. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di portarmi una mano alla bocca, e chiedergli in un sussurro se stesse bene. Una malriuscita e stupida domanda retorica dalla risposta scontata.
«No Sim, io…», ma il battere dei denti lo ostacolava, quindi spinse il bicchiere lontano cercando di alzarsi, ed ancora una volta il suo corpo gli impedì di reagire, le gambe che sembravano non reggere sotto il peso del suo corpo. Si appoggiò con le mani al tavolo, con attorno solo il mio respiro affannoso e il rumore innaturale dei suoi denti che sbattevano tra loro incessantemente.
Finalmente mi mossi, ma non verso di lui, bensì verso la porta. Non so bene se avessi intenzione di scappare e lasciare lì Lol, da solo, oppure se il mio intento fosse quello di cercare aiuto. So solamente che aprii di scatto la porta e, barcollando sgraziatamente, come sotto l’effetto di droghe, percorsi, a ritmo però sostenuto, il corridoio. Sembrava non finire mai. Volevo allontanarmi da quell’orrore, prendere le distanze dal nauseante scenario del momento, ma le grandi ed intermittenti falcate non facevano altro che darmi la sensazione di rimanere incollato al pavimento, senza mai procedere. Dovetti fermarmi e riprendere fiato, stavo per soffocare, la testa mi girava ed avrei dovuto soccorrere Lol, ma conoscevo fin troppo bene la mia incapacità in queste situazioni. Volevo solo gridare aiuto, ma il respiro mi veniva meno. Accasciandomi a terra, la gola tra le mani e le tempie ancora pulsanti, pensavo a tutta questa disgustosa situazione. Saremmo morti tutti ? Era quindi questa la fine, forse meritata, come era stato detto poco prima, per tutti e tre ?
Lol… Lawrence Tolhurst. Ragazzino goffo ed impacciato, ma dal cuore grande. Fino ad allora ero stato così preso dal mio dolore da non accorgermi che lì, in quel posto, assieme a me, accanto a me, c’era un’altra persona. Ed anch’essa soffriva. E soffriva così intensamente ed immensamente da rischiare l’esasperazione. E sicuramente l’angoscia di Lol era di gran lunga superiore alla mia. Sua madre l’aveva lasciato pochi mesi prima, in maniera devastante ed inaspettata, ed apparentemente la metabolizzazione del lutto era perfettamente riuscita. La sua situazione familiare ed economica non era delle migliori, e Dio solo sa quanto lui si sentisse in colpa per tutto questo. Ma ai nostri occhi funzionava tutto alla grande, io e gli altri immersi solo nei nostri crucci momentanei e Lol che sembrava riprendersi poco alla volta. E questo non certo grazie a noi. Quando Lol soffriva, c’era l’alcool. Alcool dappertutto, sempre. Negli ultimi mesi non riuscivo a ricordare un solo istante in cui il nostro amico ne fosse stato sprovvisto. E fu solo in quel momento che realizzai quanto Lol non potesse fare a meno di bere in qualsiasi parte della giornata, a qualsiasi ora ed in qualsiasi momento, opportuno o meno. E noi due eravamo stati così ciechi ed egoisti da lasciarlo andare, libero di elucubrare ed inveire contro se stesso, sottovalutando la situazione, e senza confortarlo neanche un poco, anzi, dandogli addosso ad ogni buona occasione. Non era più un nostro confidente ed una persona su cui contare, ma un pasticcione sempre depresso e sempre ubriaco, facile e deteriorata valvola di sfogo per due adolescenti capricciosi.
E poi c’era la questione Robert. Robert dagli occhi di ghiaccio, che prima ti giura amicizia eterna suggellando il tutto con i più meravigliosi segni d’affetto, e Robert che subito dopo ti insulta e sputa sulla tua dignità, pulendosi le suole interrate delle scarpe sul tuo cuore spezzato.
Robert che c’è solo quando gli fa comodo e poi, in un moto di ritrovata tranquillità, ti porta a pranzo fuori; Robert che se ne sta per i fatti suoi, rimuginando oscuramente e covando disprezzo e rancore per il mondo intero, e Robert che poi si premura di farti gli auguri di compleanno – con tanto di regalo - alla mezzanotte esatta, perché lui ci tiene a queste cose. Quella creatura complessa, tanto amata e tanto odiata, che adesso, invece di affrontare i propri fantasmi, aveva preferito sparire. Lui che aveva lasciato che tutto quanto andasse a rotoli, lui che, seminata sufficiente zizzania, si volatilizza. Provai un profondo disprezzo per quel suo gesto vigliacco e scrupolosamente crudele, quasi premeditato. La sua intenzione era quella di sospendere i giochi, e tutti noi avremmo dovuto ubbidire senza batter ciglio.
No, non è così che funziona, caro il mio dispotico amico. Non puoi lasciare me e Lol in questo putrido inferno. Chiusi gli occhi e li riaprii, piano. Ero svuotato da ogni forza. La battaglia era infine giunta al termine, per me. Tanto valeva lasciarsi morire lì, su quel pavimento setoloso e ruvido, della sola fine che un pusillanime come me potesse meritare.
E, come se i miei pensieri l’avessero evocato, in fondo al corridoio lo vidi, Robert, esile figura scura che si aggira nei dintorni con il passo felpato ed etereo di uno spettro. Inizialmente pensai ad una sorta di quelle percezioni senza oggetto tipiche della schizofrenia, un’allucinazione in piena regola. Ma mi ravvidi quando con il tocco, prima lieve, poi deciso, della mano cercò di scuotermi dal torpore, e la sua voce lontana che chiamava il mio nome mi riportò alla realtà.
«Simon, per l’amor del cielo», i suoi occhi cerulei, infossati e spaventati, «Rispondi…».
«Lol», riuscii a dire, tra un colpo di tosse e l’altro, «Lol sta male». Le parole raschiavano come pezzi di vetro contro le pareti della mia gola.
«Dov’è ? E tu come stai ? Che è successo ?». Sembrava veramente terrorizzato, voltava il capo convulsamente da una parte all’altra, in cerca presumibilmente di qualche indizio di altra umana presenza, a parte noi tre, su quel piano dell’edificio.
«Lol», ripetei, «Vai da lui, è…». Non riuscii a terminare la frase. Indicai però a Robert la stanza, e lui corse in quella direzione. Passarono alcuni secondi lunghi come vite. Il capo tra le mani, e nessun rumore attorno. Come in una bolla di sapone.
Cercai di deglutire, ma sentivo ancora questo nodo opprimente che non voleva sciogliersi. La testa fortunatamente aveva smesso di girare, quindi provai ad alzarmi, reggendomi con le mani alla parete. Con andatura caracollante ed estrema difficoltà riuscii a raggiungere la nostra saletta. Appoggiato allo stipite della porta, guardai furtivamente dentro.
Lol e Robert discutevano tranquillamente, l’uno accanto all’altro, seduti sul solito divano di pelle consumata. Quella scena apparentemente pacifica mi riportò celermente alla completa lucidità. Lol sembrava stare meglio. Uno spavento per nulla. Sarei anche potuto morire là fuori. «Sarei anche potuto morire là fuori». Placidità all’esterno, e la rabbia che sale dentro di me. «Mi stavo preoccupando». La voce che si alza di due o tre toni. La loro chiacchierata bruscamente interrotta. Si voltano verso di me. Io avanzo verso di loro. «Stai meglio», dissi, lo sguardo puntato su Lol.
«Ho avuto la nausea», noncurante, «Mi hai lasciato qui, e poi ho vomitato. Freddo, blocco digestivo e troppo alcool fanno un effettaccio».
«Direi», ribatté subito Robert. «Bevi un po’ troppo ultimamente, eh Lol ?». Tutto questo gelo. Perché sembrava che non fosse successo niente ? Negli occhi vitrei Lol nascondeva un male silenzioso ed invasivo, che lentamente lo deteriorava, eppure Robert sembrava non farci troppo caso. «E anche tu ti sei ripreso in fretta Simon, eri fuori di te prima», un’occhiatina divertita, «Mi avete fatto prendere un colpo, tutti e due».
L’ultima goccia che cade con leggerezza dal mio vaso, ormai letteralmente stracolmo, e si appiattisce a terra.
«Potevo morire là fuori, lo sai ? Lo sapete ?». Forse stavo esagerando, ma l’aleggio di morte tra i capelli io l’avevo percepito. Ed ecco di nuovo i loro occhi incollati su di me, su ogni centimetro della mia pelle li sentivo addosso. «Come ti permetti di fuggire in quel modo per poi tornare come se nulla fosse successo e ridere dei nostri malesseri ? Eh, Robert ? Nessuno è infallibile, nessuno è invincibile, neanche tu. Devi smetterla di calpestarci, di calpestare il nostro amor proprio e la nostra dignità, di mollarci e riprenderci a tuo piacimento». Sconquassato. Definitivamente abbandonato a me stesso. «Non sei solo, Robert, non sei solo».
«Sono tornato per questo, Simon», rispose lui, con naturalezza, «Sono tornato perché qui ho voi». Rivolse per un momento lo sguardo al cielo grigio londinese fuori dalla finestra. «Là fuori non ho nessuno». Sospirò.
«Bel modo di tenerti strette le persone», sbottai con sprezzante sarcasmo, «Ci pianti in asso perché ti girano le palle, ci lasci sommersi dal lavoro, e torni per poi fare la vittima ? No grazie, non ho bisogno di questo».
«E di cosa hai bisogno tu, eh ?». Mentre parlava stringeva i pugni per soffocare probabilmente una malsana voglia di farmi pagare con gli interessi le botte subite giorni addietro. «Cosa ne sai tu cosa sto passando io in questi giorni ? Cosa ne sai ? Scrivere è la mia ragione di vita, eppure per farlo sto così dannatamente male…». Chinò il capo, sommessamente. Ma non avevo intenzione di lasciarmi intenerire, non stavolta.
Lol nel frattempo stava seguendo quel match di frasi sparate a caso con addosso un palese desiderio di sparire. Lo vedevo imbarazzato, ed ancora ubriaco. E tremava. Impercettibilmente agli occhi di Robert, in modo paurosamente evidente ai miei. Lol e l’alcool. Io volevo difenderlo da quel mostro che era diventato. Dovevo difenderlo.
«Tu, tu e tu, sempre tu, vero Robert ? Tu che sei tornato, tu che stai male, tu qui, tu là», rivolsi a Lol uno sguardo solidale, «E noi ? Cosa ci dici di noi ? Cosa siamo noi per te ? Io e Lol, che ruolo abbiamo in questa tua stupida rappresentazione teatrale di dubbio gusto ?», le pupille di Lol che si dilatano perché sa benissimo cosa ho intenzione di tirare in ballo, anche se io e lui non avevamo mai affrontato il discorso prima di allora, «Anche noi stiamo male, sai ? Anche noi siamo esseri umani che soffrono come soffri tu, e forse ancora più profondamente… Perché le nostre sofferenze sono radicate, perché il nostro passato è pesante come un macigno e piano piano ci sta sotterrando, perché abbiamo subito perdite che non possiamo risanare semplicemente scrivendo, o cantando, o suonando… Siamo malati, Robert, e lo siamo tutti e tre in egual misura, e tu sei solo uno sciocco egoista se pensi il contrario». Mi fermai, non perché non avessi più nulla da dire, tutt’altro. Volevo una sua reazione.
«Io… Non mi sento molto bene, vado in bagno». Gli occhi di Lol sull’orlo delle lacrime, che sapevo sarebbero riuscite a traboccare poco dopo. Il suo sgusciare fuori dalla stanza è silenzioso, e lui si sente inerme di fronte a quel monolite che non riesce a superare, e che strozza le sue viscere sino a farle collassare. Col mio discorso speravo di aver fatto breccia nel cuore di Robert, almeno un minimo.
«Vedi cosa riesci a fare ?». Sospirai, poi presi posto accanto a lui. «Ti rendi conto dell’enorme potere che hai sulle nostre vite ?». Avrei voluto recidere quel legame, ma la sofferenza si preannunciava mortale.
«Vorrei tanto», non tardò a replicare lui, con voce atona, lo sguardo fisso sul pavimento lercio, «Riuscire a rapportarmi a voi allo stesso modo in cui vorrei che voi vi rapportaste a me, e gioire con sincero entusiasmo di tutto questo, rallegrarmi ed essere in pace con me stesso. Ma poi ho semplicemente compreso che non è possibile abbandonarsi a certi ragionamenti». Respirava piano, senza affanno, come se avesse finalmente cavato fuori la conclusione di mille anni di pensieri e ragionamenti notturni, nascosti. Prese a guardarsi le mani bianche con minuzia, scrutandosi le unghie mordicchiate. «Ciò che voglio far capire agli altri», alzò gli occhi azzurri su di me, «E’ che, se voglio, io posso essere orribile proprio come loro lo sono con me. E qui risiede il senso di queste parole». Prese dalla tasca del cappotto dei fogli di carta piegati alla rinfusa.
La sua scrittura minuta e disordinata riempiva pagine e pagine, frasi scritte, cancellate e poi riscritte. Matita, penna, parole sghembe e frasi monche che presi a leggere con insaziabile curiosità. Sembravano il frutto di una devastazione profonda, parole, figlie miserabili di un qualche demonio intrappolato sotto le spoglie del mio amico. Pensieri terrificanti, quasi atroci, resuscitavano paure fino ad allora soffocate. Un’apocalisse definitiva, straziante, sanguinante, da cui però non riuscivo a staccare gli occhi. Seguivo morbosamente il fluido scorrere dei testi, pagina dopo pagina, incollato a quel degradante paesaggio, e fu solo la voce di Robert, di nuovo la sua voce, a riportarmi al principio di quel percorso che, vorace, mi aveva inghiottito senza il benché minimo preavviso.
E tutto sembrò improvvisamente acquistare senso.
«Cosa ne pensi ?».
I must fight this sickness.
«Mi piace».
Find a cure.
«E cosa faremo ora ?»
I must fight.
«Suoneremo fino alla fine, Sim».
Fino alla fine.
  
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