Capitolo
2 - 罪 Tsumi
Sii
caritatevole con tutti gli esseri: l'amore è la prima
caratteristica del divino.
11 ottobre 1851,
Edo, mattina.
I due amanti
percorsero
con lentezza estenuante i corridoi dello Shogunato, fino a giungere al
cancello
d’entrata. Lo oltrepassarono all’apparenza senza
indugi, ma con un inenarrabile
timore nel cuore, il dubbio sulla sorte di Itachi, la consapevolezza
struggente
che non sarebbe dipeso tutto solo e soltanto da loro.
Per tutto il
tragitto nella foresta che li avrebbe condotti nell’isolata
prigione in ferro e pietra, Naruto e Sasuke rimasero a distanza
ravvicinata,
anche se il massimo tocco che si concedevano era quello delle loro mani
che si
sfioravano; il biondo di tanto in tanto appoggiava la propria mano
sulla spalla
del compagno o sulla nuca marmorea. Dal canto suo, l’Uchiha
avrebbe davvero
voluto baciare Naruto fin quando il fiato non gli sarebbe mancato e
soffocare i
pensieri scaturiti da quando aveva saputo del ritorno di suo fratello,
ma si
portava dietro, come sempre, la sensazione di essere costantemente
osservato da
qualcuno che aveva un’ottima abilità nel
nascondersi alla sua vista.
Per evitare,
comunque, degli inconvenienti che avrebbero potuto costargli una
prematura morte, preferiva sopportare quella tortura e lasciare che la
distanza
avesse la sua parte ogni qualvolta il sole si ergeva alto nel cielo
azzurro e
costernato da candidi cumulonembi.
Il cielo.
Le nuvole.
La gioia e la
serenità che quella visione gli infondeva.
Tutto
ciò gli rimembrava Naruto. Ogni stato d’animo,
ogni sensazione, emozione,
la bellezza folgorante del compagno, quella pace interiore che trovava
soltanto
in sua presenza.
Tutte cose
che, era certo, non avrebbe mai potuto dimenticare, nemmeno se
l’avesse voluto con tutto se stesso, ma non lo voleva. In
effetti era arrivato
persino ad ipotizzare che, in punto di morte, quelli sarebbero stati
gli ultimi
pensieri che la sua mente avrebbe potuto mostrargli, perché
i più belli e
significativi della sua vita, nonché gli unici che
l’avrebbero fatto sentire a
casa, nonostante la morte lo stesse portando via; magari in un mondo
migliore
di quello invivibile in cui era costretto a trascorrere ogni attimo
della sua
vita.
Non che
volesse morire per codesta ragione, ovviamente, aveva appena diciotto
anni. Il tasso di mortalità a quell’età
era anche diminuito nettamente, ma era
altrettanto certo che da quando aveva intrapreso la relazione con
Naruto, non
avrebbe più potuto definirsi salvo. Una minima mossa
sbagliata e potevano
scoprirli, una minima mossa sbagliata e potevano morire.
«Siamo
arrivati», annunciò lo Shogun, indicando con un
cenno del capo la
struttura che si ergeva nel mezzo della radura, nascosta dalle fronde
spesse
dei robusti alberi.
«Mh».
Quell’imponente
palazzo roccioso incuteva un certo timore, le cancellate in
ferro erano arrugginite in alcuni
tratti. Due guardie se ne stavano ritte in allerta dinanzi al portone
principale, una mano sulla spada posta al lato sinistro del corpo
fasciato ad
un’armatura e, al di sotto di questa, una tuta nera copriva
gli arti superiori
e posteriori; il braccio destro era disteso lungo il fianco e la mano
stretta a
pugno. I due giovani arrivarono di fronte a loro, che, appena li
videro, si
inginocchiarono e chinarono il capo, portando la mano destra sul petto
e
salutando cordialmente.
«Ciao,
Kiba; ciao, Neji», trillò ilare Naruto,
nascondendo la tensione che gli
aleggiava attorno.
I due
sorrisero e poi si scostarono, lasciando passare Uchiha e Namikaze, che
li superarono senza esitazioni.
I passi
rimbombavano nell’ambiente cupo e piuttosto stretto rispetto
alla
larghezza che lasciava immaginare la struttura, ed era illuminato solo
dal
fuoco in alcuni tratti, sia a destra sia a sinistra.
«Sei
pronto?», si premurò di domandare Naruto,
approfittando della solitudine
ed anche dell’oscurità per appoggiare il compagno
al muro e baciargli le
labbra, per poi leccargliele con dolcezza. Il moro si godette il
contatto
finché non sentì l’ansia contorcergli
lo stomaco, mentre lui trepidante
attendeva solo di incontrare il nii-san.
«Sì».
Il biondo lo
prese per mano ed insieme raggiunsero la cella di Itachi Uchiha,
collocata in un corridoio isolato rispetto a tutti gli altri.
Itachi era
steso e voltato verso il muro, forse per proteggere i suoi occhi
dalla fioca, ma nell’ambiente fastidiosa, luce emanata dalla
fiamma, forse
perché sapeva che i due sarebbero arrivati e non avvertiva
l’incessante bisogno
di guardare verso le sbarre.
«Itachi»,
lo chiamò lo Shogun, «sei sveglio?»
Silenzio.
«Dobbiamo
parlare», ritentò, indeciso se aprire o meno la
cella ed entrarvi,
più che altro data la preoccupazione nei confronti di Sasuke.
«Itachi!»,
urlò quest’ultimo, esasperato,
«Perché?!»
Il quesito,
posto con cotanta rabbia, mostrò tutta l’ira
funesta che struggeva
il cuore puro di Sasuke, mista alla sofferenza immane che da anni
tentava di
reprimere.
E
silenziosamente le lacrime gli rigarono il voto diafano, e nella
sovraumana
quiete Naruto aprì le sbarre e lasciò che il
minore degli Uchiha vi entrasse.
E rimase fuori
ad osservare l’Uchiha più grande dai lunghi
capelli corvini
rialzarsi e mostrare lo sguardo stanco, spento, addolorato, mentre
Sasuke era
preda di uno stress emotivo, crisi di pianto e sbalzi d’umore
che nemmeno la
persona più lunatica del mondo avrebbe potuto sopportare al
suo posto.
«Otouto»,
mormorò Itachi, la voce flebile e lo sguardo ancora perso
nel vuoto,
«da quanto tempo».
«Perché
l’hai fatto?!», l’eco del grido provocato
da Sasuke si espanse per la
cella e per il corridoio, poi si arrestò.
E tutto tacque.
«In queste
promesse
infrante
giù
nel profondo
ogni parola si
perde nell’eco.
Riesco solo a
vedere attraverso
un'ultima bugia
Questa volta
finalmente
ti
lascerò andare».
[Linkin
park – Lost in the echo]
28
aprile 1847, Edo.
«Confidiamo
in te, Itachi».
Queste furono
le parole che il ragazzo udì prima di indossare
l’armatura,
afferrare la propria spada ed andare via da Edo.
«Proteggete
la mia famiglia», aveva raccomandato, prima di mettere piede
fuori
città.
Clandestinamente,
Shisui Uchiha l’aveva raggiunto in un punto cieco al di fuori
delle mura di Edo.
«Itachi,
io…», provò a dire, ma il giovane
Uchiha dai lunghi capelli corvini lo
interruppe ancor prima di udire ciò che l’altro
era desideroso di esporre.
«Non
c’è bisogno che tu dica niente»,
spiegò monocorde e pacato, elemento che
lo caratterizzava sin da quando era solo un bambino.
«Ma
non è giusto così, dovrei essere io quello a
sacrificare tutto, invece te
ne stai andando e sembra quasi facile a guardarti!»,
sbraitò, «Tutto sembra
sempre così semplice quando ci sei tu ed io non ho idea di
come sia possibile!
Come… io…»
Dei singhiozzi
interruppero quello sproloquio che all’inizio poteva sembrare
insensato, ma ch’era pregno di sincero dispiacere, vuoto,
tristezza, sensi di
colpa. Tutto ciò che Shisui stava provando nel vedere Itachi
andare via era
racchiuso in quelle parole pronunciate forse con troppa
velocità.
Ma lui stava
andando via. Per colpa sua.
«Shisui»,
proferì il più piccolo tra i due,
«è giusto così».
«No,
non lo è», ribadì prontamente
l’altro.
«È
giusto, invece, che tu abbia l’opportunità di
vivere la vita che da infante
ti è stata negata», esplicitò con
calma, «a me va bene così».
«Dovrei
essere io quello che dovrebbe proteggerti! Perché, invece,
ti ostini a
sacrificare te stesso ogni singolo attimo della tua vita,
purché io sia felice?»,
ululò sofferente, cercando di tenere a bada quella voglia di
urlare e farsi, di
conseguenza, scoprire.
Itachi gli
carezzò con leggiadria una guancia e poi discese sino alle
labbra
che fissò, nostalgico ed assorto.
«Perché
ti amo e questo è l’unico modo per redimermi da
questo peccato»,
confidò, spiazzando l’altro per la convinzione e
l’onestà in quelle parole.
Shisui boccheggiò prima di ridestarsi e congiungere le
labbra con quelle del
compagno.
«Non
è un peccato», ebbe il coraggio di ansimare sul
suo viso, non appena ebbe
la forza di distaccarsene, rimanendo comunque a pochi centimetri dalla
sua bocca.
Nel frattempo, delle amare e calde lacrime sgorgarono dai suoi occhi
d’ossidiana, cadendo dal suo mento ed andando a bagnare il
terreno.
«Lo
è», riconfermò il minore,
«questo non lo si può cambiare».
«Non
andare via…», lo supplicò con voce
flebile e dalla quale traspariva tanta,
tanta sofferenza.
«Aishiteru»,
ripeté Itachi, allontanandosi con velocità ed
agilità dall’altro.
Sussurrò
poi, lasciando che il vento trasportasse le proprie parole sino
all’altro: «Tornerò da te e ci
rivedremo».
Peccato che ci
fossero più opportunità che l’esilio
permanesse per tutta la sua
vita, piuttosto che arrivasse una concessione di ritorno a Edo.
«Ti
aspetterò», promise solennemente Shisui,
rientrando amareggiato e colpevole
nella città.
Sei mesi dopo
24
novembre 1847, Edo.
«Avevate
promesso», ringhiò rabbioso, perdendo
completamente la sua espressione
indulgente e tranquilla, donatagli dai tratti quasi femminei e delicati
del suo
giovane viso e dalla pelle nivea e delicata. Le mani impugnavano con
forza la
katana lucida, pronta a trafiggere i corpi delle persone presenti.
«Non
abbiamo potuto fare nulla», tentò di giustificarsi
con noncuranza uno di
loro, che aveva dichiarato di chiamarsi Kagami.
«Avete
infangato il nome della mia famiglia», sibilò
tagliente, «e non avete
tenuto fede al patto stipulato».
«E
tu hai rivelato dei segreti della città, Itachi, senza
indugi! Crimine più
grave non poteva esser commesso!», sbraitò Obito
Uchiha, mentre sua moglie Rin,
dietro di lui, tentava invano di tranquillizzarlo.
«Ho
agito di conseguenza», ricordò, «vi
avevo avvertito che l’avrei fatto, se
mi aveste messo in condizione di non avere altra scelta».
«Verrai
condannato a morte per questo, altro che esilio», lo
accusò Izuna
Uchiha, fratello minore del più temibile membro del clan:
Madara Uchiha.
«Voi
stessi avete firmato la vostra condanna a morte, intanto», li
informò,
trafiggendo senza batter ciglio il petto di Rin e provando una sadica
soddisfazione nel vedere l’espressione di terrore, sgomento e
dolore che si
dipinse sul volto di Obito.
«T-tu…
C-come… hai… osato!», urlando quella
frase, gli si scagliò contro, ma il
movimento avventato favorì Itachi nell’infilzargli
la spada dritta nel cuore.
Con poco garbo
e quasi con una gelida indifferenza, sfilò la spada
insanguinata
e lasciò che il corpo di Obito si accasciasse vicino a
quello della moglie: una
visione raccapricciante che stava pian piano risvegliando la sua
compassione e
gli fece in parte realizzare di star distruggendo tutto,
così come loro avevano
infranto la via che si era creato con i suoi genitori e suo fratello. E
fu
proprio su quest’ultimo che Kagami puntò per
placare l’animo infervorato e
devastato del giovane Uchiha.
«Tuo
fratello è ancora vivo, Itachi»,
iniziò, «vuoi davvero che il tuo adorato
otouto ti conosca come il traditore assassino di alcuni dei membro
più
importanti del clan?»
Touché.
«Se
sapesse tutto, non mi biasimerebbe di certo»,
affermò sicuro di sé.
«Peccato
che tu non possa tornare in città»,
sospirò Kagami, «Devo ricordarti
che sei esiliato?»
Touché.
Di
nuovo.
«Non
potrai tornare finché ci saremo noi in
città», lo schernì, «tu sei
un
traditore».
«Kira…»
«Inoltre,
i tuoi genitori meritavano di fare quella fine», lo
provocò, «organizzare
una rivolta contro di noi, disturbare la quiete di Edo e stabilizzare
una loro
patetica egemonia sugli altri membri del clan…»
Itachi chiuse
gli occhi e sospirò profondamente, alla ricerca della
razionalità
e della calma.
«Devo
farlo per lui… per loro… perché non ho
scelta».
Afferrò
con rapidità un’arma da un borsellino, fece
roteare il kunai attorno al
dito, strinse l’impugnatura e lo lanciò verso
Izuna, colpendogli la gola e
trafiggendola.
Preferì
non guardare la sua morte ed ignorare i suoi soffocati lamenti,
l’odore
forte del sangue che impregnava l’aria e ricopriva il tatami
chiaro,
contornando e sottostando ai corpi privi di vita di Obito e Rin.
Stavano
affiorando i sensi di colpa; lui non era un assassino, ma era un uomo
di parola. E quella di suo padre contava più di qualunque
altra.
«Voglio
che tu li uccida uno dopo l’altro e quello che
dovrà soffrire di più e
che dovrai cercare sarà Kagami Uchiha.
«Ha
assassinato tua madre, Itachi; credi che meriti di vivere?
«Io
sono impossibilitato dal farlo, ormai… lascio a te il
compito di badare a
Sasuke quando morirò.
«Loro
saranno la causa dello sterminio di innocenti.
«Mi
dispiace che lo scoprirai a tue spese.
«Va’,
Itachi, so quanto sia dura per te».
“No,
non lo sai,” avrebbe voluto dire il ragazzo, ma le parole di
suo padre
rimbombavano senza sosta nella sua testa.
Pareva
scoppiare.
Doveva
concentrarsi.
Era un ninja.
I sentimenti non dovevano appartenergli. Non in casi simili, non
se avessero compromesso una missione di vitale importanza.
Con movimenti
quasi fulminei raggirò Kagami Uchiha, usando un kunai per
lasciargli tagli sulle braccia, sul colto, sulle mani. Frammenti di
abiti
tagliati ricadevano sul tatami e la tensione permetteva ad Itachi di
percepire
il rumore dell’aria che attutiva la già lieve
caduta della stoffa. Gli si fermò
di fronte e gli piantò un kunai nel braccio, facendogli
spalancare gli occhi;
ma Kagami non urlò, non ansimò, non
boccheggiò. Ed Itachi ammirò quel
temerario, nonostante provasse ribrezzo per le malefatte di
quell’uomo.
«Mio
figlio troverà sicuramente di meglio»,
ghignò, «gli assassini non fanno
per lui».
Itachi non
capiva cosa stesse dicendo e in religioso silenzio impugnò
la spada,
tirandola fuori dal fodero in cui l’aveva momentaneamente
riposta.
«Mi
chiedo proprio cosa ci vedesse di bello in te»,
mormorò, il respiro mozzato
dalla tosse e dallo sputo di sangue che non poté reprimere.
«Requiescat
in pace», disse Itachi, «che i Kami possano
perdonarti».
E lo trafisse
in un sol colpo.
E la porta
dell’ufficio si spalancò.
E ad Itachi
parve morire con Kagami e con la parte di Shisui che aveva sempre
amato.
11
ottobre 1851, Edo,
primo pomeriggio.
«Itachi…»,
continuava a ripetere Sasuke, incredulo di avercelo finalmente davanti
ed al
contempo dannatamente incazzato col suo nii-san.
«Mi
dispiace doverlo fare», li interruppe Naruto, «mi
rammarica dovervi
interrompere, ma io stesso devo chiederti, Itachi, cosa ti ha spinto
innanzi
tutto ad andare via, e poi a costituirti dopo ben quattro
anni».
«Me
ne rendo conto, Shogun-sama», sussurrò,
«sembra insensato, ma non credo
parlerò».
«A
cosa dobbiamo, almeno, il tuo ritorno?»
Shisui, pensò il
maggiore degli
Uchiha, ma non lasciò che quell’affermazione
sfuggisse dalle sue labbra.
«Era
arrivato il momento
di farlo», disse semplicemente.
E non
parlò più. Si chiuse in un silenzio carico di
sofferenza, qualcosa di
totalmente ineguagliabile, di molto più grande rispetto a
qualunque dolore che
in un’intera vita un uomo potesse provare.
«Credo
che voglia rimanere, Sas’ke», tentò il
biondo, mordendosi le labbra e
cercando di non lasciarsi andare alla sua emotività per
convincere Itachi a
parlare.
L’altro
tacque, gli occhi ancora fissi sulla sagoma del fratello maggiore.
Forse per lui era ancora troppo irreale
averlo lì, un’utopia amara che faceva solo sentire
peggio il minore,
illudendolo, forse era un miraggio, forse era lì davvero.
«Torneremo
a parlargli», lo rassicurò il biondo, cingendogli
le spalle da
dietro e baciandogli con dolcezza la nuca.
Il moro
semplicemente annuì e lasciò che le mani grandi,
calde, esperte, di
Naruto lo conducessero via da quel luogo, via dal dolore, via da
quell’Itachi
che sembrava aver perso persino se stesso.
11 ottobre 1851, Edo,
sera.
Usciti
dall’abashiri, Sasuke non aveva proferito parola per tutto il
tragitto
che condusse i due allo Shogunato, l’espressione
indecifrabile stampata sul
viso, lo sguardo duro, perso, imperscrutabile.
Naruto non
parlò, lo lasciò al suoi pensieri,
perché sapeva che doveva
riordinarli per poi lasciare che l’aiutasse a fronteggiarli.
Aveva visto
Sasuke piangere per la seconda volta in tutta la sua vita e sapeva
che ciò stava a significare che non era riuscito a tenere
erte le sue barriere
difensive, che erano solite proteggerlo egregiamente da tutti gli
altri, ad
eccezione di Naruto e Itachi.
Quando
giunsero al Palazzo, Namikaze si mostrò più
schivo e scontroso di quando
volesse davvero essere, così i samurai preferirono lasciare
in pace i due e
limitarsi ad un rispettoso cenno per salutarli ed accoglierli.
Consapevole
del fatto che non avrebbero osato disturbarli se non per casi
urgenti, come ad esempio l’accaduto di quella mattina stessa,
non lasciò che
Sasuke andasse nella sua stanza a crogiolarsi in se stesso,
bensì lo condusse
in camera propria.
Con dolcezza
iniziò a spogliarlo delle vesti, poi lo fece accomodare sul
letto,
lo stese e lo coprì con le lenzuola.
Uchiha taceva
e teneva lo sguardo ancora fisso dinanzi a sé.
Il biondo si
liberò dei suoi abiti e ben presto lo raggiunse, cingendogli
un
fianco da dietro e stringendo il suo corpo al proprio.
«Sasuke»,
lo chiamò.
L’altro
non parlò.
«Ascolta,
non è detta l’ultima parola»,
tentò di quietarlo, «è ancora presto,
ci sono delle ferite aperte nei cuori di entrambi ed assimilare tutto
ciò che
ha taciuto per anni in una sola mattina e dirla ad alta voce
è impossibile.
Posso capirlo».
«Ma
la vera decisione non spetterà solo a noi»,
sputò fuori sofferente il moro,
«sai bene che anche l’imperatore ha voce in
capitolo».
«Quello
non sarà un problema, lo sai
com’è», sorrise lievemente,
«può sembrare
bastardo, però in fondo ha un cuore tenero…
proprio come te».
«Mh».
Namikaze lo
mise a tacere, voltando il capo di Sasuke verso di sé ed
incrociando le sue labbra.
«Ora
dormi, Sas’kè», consigliò,
accoccolandosi all’altro e sospirando. «Oyasumi
nasai».
E lasciarono
che Morfeo s’impossessasse di loro.
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NB:
1. Il titolo Tsumi, con
annesso kanji, significa "errore", "colpa". Se il mio giappo-amico
avrà da ridire su questa traduzione, modificherò
queste note e il titolo;
2. La frase a inizio capitolo è una delle credenze della
religione Shintoista, la più diffusa in tutto il Giappone.
Note dell'autrice:
Salve! Eccomi qua con
il secondo capitolo di questa storia! Nemmeno immaginate quanto mi stia
piacendo scriverla e mettere tutto insieme! Però,
ovviamente, come temevo, sta iniziando a prendere la piega che vuole e
i personaggi litigano per poter rimanere nella fic. Intanto, mentre
loro litigano, io ho già deciso chi inserire e come
inserirlo... Come dicevo, la storia sta andando secondo il suo volere e
ormai credo che si aggirerà attorno ai venti capitoli. Per
la serie: solo un miracolo mi farà concludere questa storia
entro agosto. Confidate in me, ce la posso fare! (?)
Credo che conosciate tutti i personaggi che sono stati menzionati.
Comunque verrà chiarito tutto col tempo e, seppur non lo
sapete e vi siete solo fatti una vaga idea, tutto sarà
confermato o smentito in caso di pensiero errato.
Bien, come sempre ringrazio i miei accorti PunkDario e Chisana Kitsune
per il giappo-aiuto e per le correzioni.
Un grazie speciale a tutti i lettori che hanno inserito la storia tra
le preferite e le seguite e a quelli silenziosi.
*abbraccia*
tratrin: sapevo che tu mi avresti capita alla perfezione! Quella pagina è proprio il male, sì D: capisco le tue distrazioni dalla buona intenzione di sonnecchiare, parli con una che soffre d'insonnia e non fa altro che passare notti intere da sveglia *sospira* Mi fa piacere che sia riuscita a trasmettere tutto quello e a mostrare in codesto modo le situazioni e le atmosfere, era proprio il mio intento e sapere che ci sono riuscita mi colma il cuore di gioia! La risposta l'hai avuta in minima parte in questo capitolo, certe cose rispecchiano comunque l'Itachi di Kishimoto, sì. Ma non spoilero altro. Grazie per la recensione, cara!
Akiho87: oh, ma che piacere trovarti qui! Innanzi tutto ancora mi dispiace per non essere riuscita a consegnare per il contest, mi sarebbe davvero piaciuto completarla e fartela giudicare per il concorso, ma il tempo mi è stato sfavorevole :( Ti ringrazio tantissimo per i complimentoni che mi hai fatti! Anch'io amo da morire il Giappone (tra qualche anno mi avventurerò nei meandri di queste terre favolose, giuro ç_ç vuoi venire?) e ti confesso che inizialmente il mio progetto verteva sul Giappone feudale. Però poi ho constatato che sarebbe stato meglio non andare troppo lontano, dato che mi sarebbe costato molto più tempo per ricercare tutto il materiale! Comunque, come ho detto nelle NdA, sì, ormai la storia fa quello che vuole e andrà ben oltre il limite del contest! Ti ringrazio ancora tanto per la recensione e per i complimenti, spero che la storia continuerà a piacerti!