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Autore: Aleena    07/06/2013    1 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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VIII - CITTÀ

 
 
  Il potere delle streghe si affievolì man mano che la voce dell’incantesimo si faceva più debole, ma Shasta sapeva come evocarlo nuovamente: conosceva il segreto della parola e dei segni, ed era in gradi di vedere le sottili trame che si dipanavano attraverso l’aria e la terra. C’erano perfino lì, dove il marmo bianco sembrava aver inghiottito ogni cosa, perfino chi l’abitava: gente dalla carnagione scura e gli occhi bassi, sfiancati dal vento arido che soffiava dal deserto e dalle notti glaciali.
Soham cresceva attorno al braccio minore di un corso d’acqua, che scorreva lungo un basso argine, simile a una ferita sulla pelle liscia di una vergine, dividendo la città in due. La Cydho era l’unica cosa irregolare in quella Città Bianca: i palazzi svettavano a meno di sette metri dalle acque, innalzandosi con geometrica precisione verso il cielo, talmente alti che Shasta si chiese come potessero sostenere il loro stesso peso – se ne sentiva intimorito e, per la prima volta nella sua vita, rimpianse la bassa statura tipica della sua razza, utile nei tunnel ma che, ora, lo faceva sentire come un bambino in un mondo di adulti. Strade e vicoli sormontati da archi offrivano un passaggio attraverso quelle tombe per vivi – vene attraverso la quale la gente fluiva come gocce di sangue in un’arteria – senza tuttavia interrompere la simmetria, anzi, contribuendo ad aumentare l’austerità di Soham, che a Shasta parve da subito una città dura e un miracolo, il paradiso bianco in mezzo alla desolazione gialla.
Non ebbe che una mezza giornata per vederla: attraversò archi e colonnati, passeggiando attraverso i fori della politica e le strette piazze coperte dei mercanti, in cui l’odore del cibo e quello del sudore facevano un contrasto amaro coi profumi e le spezie. Una mescolanza di suoni, linguaggi e colori che lo sconvolse, costringendolo a deviare da quella massa di corpi indifferenti e affrettati verso altri vicoli, altra ombra, altre vite. In una piazza, una donna con la parte inferiore del corpo ricoperta di peli e le gambe arcuate discuteva con un mercante senza un braccio, contrattando il prezzo di un qualche tessuto leggero; altrove, nella notte, uno spirito dell’aria danzava nudo al ritmo di violino con un nastro in mano, che gli si avvolgeva intorno al corpo semivestito come un serpente. Shasta rimase a guardarlo, sentendo l’eco di qualcosa che credeva sopito da tempo, fino a che il soldato non gli afferrò la mano e lo costrinse a voltarsi.
«Vel´uss nota´man rraun?1» sussurrò Shasta nel sibilante, fluido dialetto del sottosuolo, cercando di liberarsi con uno strattone dalla presa del maschio, un incubo dalla pelle chiara quasi quanto le iridi, in strano contrasto con la chioma scura, fasciato in una divisa dal taglio militare tinta d’azzurro. D’istinto, la mano dell’albino scese verso la cintura, dove un tempo usava tenere il coltello. Non lo trovò: le streghe avevano preso anche quello, donandogli in cambio una tunica grigia e un mantello zafferano.
«Se fossi nei tuoi panni, starei calmo.» disse l’incubo vestito da guardia, lanciando a Shasta un’occhiata carica di minaccia. Non aveva armi in mano, ma pareva non ne avesse bisogno: la sua stazza era maggiore di quella di qualunque schiavo l’albino avesse mai visto; lo sormontava di quasi tutto il tronco, imponendo su di lui.
«Cos’hai trovato?» attraverso la folla di gente attorniata al danzatore si fece strada un uomo grasso e calvo, ricoperto di rame e argento tanto da parere un lampadario e alto poco più di un metro e mezzo, ossia quasi come Shasta. Era seguito da tre guardie, avvolte nella stessa divisa color azzurro.
«Qualcosa di strano. Vieni qui.» rispose l’incubo, serrando ancora più la presa sul polso sottile di Shasta, che rimase immobile, studiando la situazione. Aveva appena aperto le labbra in un preambolo d’ira quando l’uomo grasso si fermò davanti a lui, osservandolo con sguardo critico.
«Chi sei?» domandò, nel tono di chi fosse abituato a dare ordini. Emanava uno strano odore, un miscuglio di sangue e cenere che Shasta attribuì alla via sudicia senza pensarci troppo; aveva problemi più gravi, al momento.
«Vith dos. Vel´bol xun dos ssinssrin whol uns´aa?2» rispose l’albino nella lingua natia, mettendoci tutta la rabbia che cominciava a montare. Si era reso conto di essere ad un passo da una nuova schiavitù e di non poter far nulla per evitarlo: poteva capire quasi ogni parola di quello che gli veniva detto, ma non era più abituato ad usare la Lingua Comune dai tempi di Kania. Nel sottosuolo, la maggior parte dei prigionieri erano costretti ad usare la lingua ilythiiri.
«Questa l’ho già sentita, se non sbaglio. Ramoth?» chiamò l’uomo grasso, voltandosi verso il basso palchetto di legno e gli individui che l’attorniavano. Uno di loro si sporse, uscì dalla fila: un maschio di bassa statura con lunghi capelli di un bianco sporco, fuligginoso, che poteva essere solamente causato dalla sporcizia – indossava una lunga tunica viola e dei calzoni del medesimo colore, scelto apposta per nascondere le macchie marroni di quello che odorava come sangue e terriccio. La pelle scura, i movimenti fluidi e le iridi rosso acceso non lasciavano dubbi sulla sua natura di jaluk tuttavia, se a Shasta fosse servita una conferma, sarebbe bastata l’espressione carica di disprezzo che il maschio indossò a suo beneficio.
«Un maledetto.» disse lo jaluk, e sputò in terra, come se volesse lavarsi la bocca da quelle parole. Si era fermato a una cera distanza dal gruppo e squadrava ora l’uomo grasso, ora l’incubo vestito d’azzurro.
«Cosa sarebbe?» domandò il carceriere di Shasta, dando una scrollata al polso come per sottolineare la domanda.
«Qualcosa che difficilmente si trova vivo.» rispose lo jaluk, lo sguardo che passava dall’uno all’altro maschio della sua compagnia. Aveva un forte accento del sottosuolo che lo portava a storpiare le effe e le elle, allungandole in basse note sibilanti.
«Il che vuol dire merce rara. O sbaglio?» gli occhi dell’uomo grasso si erano accesi di interesse; scrutava ora Shasta con nuova energia, come se davanti a lui si fossero aperte un mare di allettanti possibilità.
«Avariata, direi.» fu il commento dello jaluk, ma stavolta con meno convinzione. Deve aver capito, pensò Shasta. Il guaio è che l’unico a non capire sono io, per la Dea!
«Questione di punti di vista, immagino. Cosa possiamo farne?» domandò l’incubo, ma già annuiva.
«Lui cerca sempre nuovi esemplari per il suo vivaio.» lo jaluk sorrise; una smorfia feroce e ostile, che spinse Shasta a cercare di nuovo la fuga. Invano.
Avrebbe potuto raccogliere il potere da poco ricevuto, ma non ne ebbe il tempo. Qualcuno calò un colpo sulla sua nuca e la musica, il danzatore e la folla scomparvero nel buio dell’oblio.


 


 

1 “Chi diavolo sei?”
2 “Fottiti. Che cosa volete da me?

  
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