Capitolo Primo
Nuova
Orleans, Louisiana, , Anno 1822, sera di Martedì Grasso
-E’ tardi, Masina. E’ già
quasi buio. Sarà il caso di darsi da fare a cercare una carrozza.
-Io mi sto divertendo, Madeleine.
-Col buio è pericoloso.
Era pericoloso, già, come
dappertutto. A Carnevale giravano certi tipacci che approfittavano delle
maschere per combinarne di cotte e di crude, non diversamente da quanto
capitasse a Venezia e in qualsivoglia luogo del mondo quella ricorrenza pagana
e sfrenata venisse festeggiata con particolare solennità. Ma non era
poi così tardi, né casa loro tanto lontana: stesso palazzo, un
appartamento sontuoso, un modesto abbaino, a due passi dal Teatro dell’Opera
dove lavoravano entrambe, acclamata stella del bel canto l’una, modesta corista
che tira a stento a campare l’altra.
-Non ho intenzione di
rinchiudermi dentro una carrozza. Fa
freddo, ma la serata è bella. Camminiamo a piedi e godiamoci lo
spettacolo. Domani incomincerà la Quaresima e non mancherà il tempo di
annoiarci.
-Voi. Io sarò impegnata a tirare la
cinghia e ad arrangiarmi in qualche maniera per cercare di sbarcare il lunario.
Madeleine
si strinse di più nel vecchio scialletto di cachemire che le riparava le spalle
ossute dal freddo della serata invernale. Marrone lo scialle, marrone il
vestito di lana liso sui gomiti e intorno al colletto e infeltrito a forza di
bucati. Marroni i polacchini sformati, dai tacchi consunti, vecchi di chi
sa quanto. Sembrava una vecchia, con
quegli occhi cerchiati , i capelli legati stretti e aveva ventisette anni
soltanto. Il teatro paga poco le coriste, pensava Masina. Questa disgraziata mi
fa pena, così povera, così sola e così orgogliosa. Mangia male, e s’ammazza di
lavoro. Se va avanti così, finirà per ammalarsi di tisi. Una ragazza ammodo, di
buona famiglia, e aveva ricevuto un’ottima educazione. Ma l’essere ammodo, di
buona famiglia e aver ricevuto un’ottima educazione non si può certo
considerare un vantaggio, quando la fortuna ti volta le spalle. E Madeleine
Giraud, che pure avrebbe meritato una sorte migliore, era costretta a spaccare
il centesimo, a risparmiare tutto quanto all’osso, a dover assistere, dopo
essere tornata stanca morta dalle prove, quella povera donna di sua madre, che
una grave malattia costringeva all’immobilità. Con quel che le passava il
Teatro e con quanto riusciva a racimolare dando qualche lezione di musica,
riusciva a malapena ad arrivare a fine mese, a pagare la pigione della soffitta
e l’incomodo alla vecchia negra che si occupava della madre in sua assenza. Non
aveva tempo per tutto il resto, alla sua età poteva considerarsi a pieno titolo
una zitella destinata alla povertà e alla solitudine, di quelle che le donne
compatiscono e gli uomini deridono. E sì che ce n’era voluta, per convincerla a
uscire in strada, almeno l’ultima sera di Carnevale! Masina le aveva donato una
delle sue belle maschere, era gentile, le faceva spesso dei regali, un abito
smesso, una scatola di dolcetti per la mamma, non vi offendete, tanto... E lei
accettava, tacitando l’orgoglio. Proveniva da una famiglia della piccola
aristocrazia terriera, aveva studiato. A tempo debito, avrebbe trovato il buon
partito che l’avrebbe portata all’altare, ma suo padre aveva il vizio del gioco
e l’orgoglio di un demonio. All’ennesimo, definitivo tracollo finanziario,
s’era tirato un colpo di pistola, lasciando la moglie e l’unica figliola nella miseria più nera. Non
era stato facile, rimboccarsi le maniche e cercare di andare avanti.
Buttatelo a mare, il vostro orgoglio. Sciogliete i capelli, sono molto belli, sapete, cercate di valorizzarvi, e provate a fare gli occhi dolci a qualcuno. Molte cantanti e danzatrici l’hanno fatto e le più fortunate non si debbono neppure accontentare degli agi mercenari di una mantenuta. I tempi sono cambiati, sposare una teatrante non è più un disonore...Ma sarebbe stato inutile parlarle in quel modo, Madeleine era troppo diversa da lei. Troppo perbene e troppo poco furba per sperare di riuscire ad irretire un uomo usando le armi dell’astuzia. Forse m’invidia, pensava Masina mentre la guardava assestarsi sul volto la maschera, unico lusso del suo modesto abbigliamento, un’autentica maschera veneziana tempestata di lustrini come il paramento di un prete, un lusso per te, un niente per me che ne ho quante ne voglio. Forse m’invidi, forse...Sei così strana, Madeleine.
Un
monello lanciò loro una manciata di coriandoli e Masina rise di gusto,
disinvolta come chi sa di avere il mondo ai piedi e donna dalla punta dei
capelli biondi al calcagno dei piedi, troppo grossi e tozzi per la sua taglia
minuta, ma elegantemente calzati di morbido capretto, gli occhi grigi sgranati
attraverso i fori della maschera, le labbra sottili e decise, il volto largo da
contadina nascosto a metà dalla maschera e incorniciato da una cascata di
riccioli biondo pallido, piumosi e più corti di quanto comunemente se ne
vedessero. Li portava così, lunghi appena alle spalle, perché non la
impicciassero sotto le parrucche che era costretta a indossare sulla scena.
Masina Zanetta, la Veneziana. O, per i suoi molti ammiratori, Luna Valmarin di
San Servolo. Luna. Le si addiceva. Bionda lo era sempre stata, il pallore se lo
era guadagnato a forza d’impiastri che dovevano servire a nascondere le lentiggini e le guance troppo colorite.
Chissà quali danni avrebbe potuto arrecarle, il sole di quella città, ma non ne
aveva ancora visto un raggio, nonostante quello che le avevano detto. Tuttavia
non le dispiaceva proprio, Nuova Orleans, godereccia e allegra come la Venezia
dei bei tempi che furono, pensava lisciandosi la ricca gonna viola del vestito.
Amava l’eleganza ostentata e vistosa, come tutti i teatranti e come chi è stato
povero. E portava con disinvoltura quel colore, solitamente inviso a chi calca
le scene: non era superstiziosa, e poi il viola le donava. Anche il domino orlato di sontuosa pelliccia
era viola. E viola era la maschera di seta, un autentico capolavoro di perizia
artigianale, ricamata a fili d’argento e ornata da ciuffi morbidi d’aigrette.
Faceva freddo, in quella sera di febbraio. Un freddo gelido, che mai si sarebbe aspettata in quella città. Le avevano detto di caldo umido, di nebbia, di zanzare, di acqua dappertutto, un po’ come a Venezia. Ma l’inverno era inverno. Dura poco, l’avevano informata, un mese ancora e farà di nuovo caldo. E le avevano detto di miasmi, di topi e di febbre gialla. Anche a Venezia c’erano i topi. E la puzza che s’esalava dai canali e che si diffondeva nelle calli, nei campielli e dentro le case, d’estate diventava insopportabile. E c’era il colera. Epidemie ricorrenti, che non risparmiavano nessuno. Era stata quella malattia a uccidere sua madre, così le era stato detto. Ed era stato fatto credere a tutti che il colera avesse ucciso anche la buonanima del suo marito per modo di dire, il patrizio Alvise Valmarin, anche se tutti sapevano che era morto d’un colpo nel letto di un garzone di fornaio, tale Lorenzino Ongaro, col quale se la intendeva a dispetto del suo buon nome e delle chiacchiere della gente. Rabbrividì e si strinse ancora di più dentro il mantello foderato di pelliccia. Zibellino. La pagavano profumatamente, lei sì. E poi non era schizzinosa, di fronte alla prospettiva di un bel regalo per un piccolo favore, mica era stupida come quella grigia, incolore Madeleine: la vita non è di chi, per paura di soffrire o di compromettersi, non osa rischiare niente.
La folla
chiassosa del Carnevale scemava nella notte, angeli, diavoli, uccelli, fate e
cavalieri, i mantelli spiegazzati, le ali rotte, gli elmi ammaccati, le
maschere sghimbesce. Qualche ubriaco sgattaiolava, malfermo sulle gambe,
indirizzando oscenità alle baldracche affacciate dalle balconate dei casini
pronte a ricevere i clienti, presumibilmente numerosi, prima della forzata
austerità quaresimale. Ce n’erano parecchie, perfino più che a Venezia.
La folla
l’aveva trascinata via da Madeleine, ma che poteva aver da temere, Masina, la
notte di Carnevale? Forse, elegante ed ingioiellata com’era, avrebbe potuto
attirare su di sé le sgradite attenzioni di qualche borsaiolo, ma non sarebbe mancato chi l’avrebbe difesa. Oltre che
di topi, acqua marcia, gente di colore e puttane, quella città pullulava di
compiti e cavallereschi gentiluomini pronti a intervenire in aiuto di una dama
in difficoltà. E qualora così non fosse stato...Sarebbe stata in grado di
difendersi da sola: a urla, a calci, a gomitate. Sapeva perfettamente dove
andare a colpire un uomo per fargli sentire molto male.
Si guardò intorno, cercando con gli occhi
lo spolverino fuori moda di Madeleine, il suo scialletto tarlato. Niente. Era
già buio. Forse si era persa, e non la conosceva bene, quella città. Fosse
passata una carrozza...Si strinse nel mantello. Faceva freddo. D’inverno,
l’acqua delle paludi che circondavano la città gelava, le avevano detto. E l’inverno,
anche se durava poco, si faceva sentire.
Capitolo secondo
Il
bagliore delle torce illuminava la poca luce del crepuscolo che si sarebbe
fatta presto buio e le facce della gente, disegnando sui volti coperti dalle
maschere, ombre scure che le rendevano sinistre e demoniache. I tamburi della
Compagnia di Comus battevano, lugubri come prima di un’esecuzione e il vento
freddo le faceva accapponare la pelle. Madeleine era scomparsa, e lei era sola,
in mezzo a un mare di sconosciuti. Le sarebbe potuta capitare qualsiasi cosa:
che la derubassero. Che la violentassero. Fors’anche che la uccidessero. Chi se
ne sarebbe accorto? Dov’erano finiti, i tanto decantati gentiluomini della
città, sempre pronti a mettere il loro braccio e la loro spada al servizio di
una donna in pericolo? Si nascondevano dietro le maschere, faccia a
faccia, gomito a gomito, con la marmaglia vomitata dai quartieri del
lungofiume, con i negri che picchiavano forte sui tamburi cantando canzoni
roche e sconce. E le gentildonne non si distinguevano dalle puttane, perché
anche a Nuova Orleans, come a Venezia, il Carnevale aveva il potere di
rimescolare le carte, di confondere i ruoli.
Un uomo
tutto vestito di nero s’inchinò al suo passaggio, forse le sorrise appena,
sotto la maschera o che gli copriva completamente il volto, ombreggiata dalla
luce delle torce e dalle pieghe del cappuccio. Una maschera d’oro,
incredibilmente bella. Venezia, prima ancora che lei nascesse, era vissuta in
funzione delle sue maschere. Colombine, morette, grottesche bautte dalle fronti
bozzute e dai nasi enormi, atte a celare il volto e ad alterare la voce anche
di chi , adultero o assassino, avesse qualcosa da nascondere. Poi le autorità
di polizia l’avevano proibito, e le maschere uscivano dai bauli soltanto a
Carnevale, per ritornarvi subito dopo. Gli uomini avevano sempre preferito le
bautte. Solo quelli vecchi e coloro il cui viso era stato sfigurato dal vaiolo
o da una ferita portavano maschere belle come quella, nel tentativo di
riacciuffare, almeno a Carnevale, un poco
della giovinezza e della bellezza dileguate per sempre. Chissà se era
così anche a Nuova Orleans e anche per l’uomo dalla maschera d’oro. Peccato,
così alto e dritto, con quelle spalle che si delineavano larghe e potenti tra i
drappeggi del mantello.
Occhi a
mandorla, arcate sopraccigliari marcate e zigomi alti, labbra spesse,
splendidamente disegnate. Una faccia dagli ammalianti tratti esotici, la faccia
di un principe africano impressa nell’oro, o magari era soltanto cartapesta
verniciata, la faccia di Otello, il moro impazzito per gelosia del quale le
aveva raccontato George, la cui vicenda aveva ispirato al grande Shakespeare
una delle sue tragedie più belle.
Quelle
fantasticherie avevano il potere di affossare lo squallore della realtà, le
maschere dietro le quali forse si nascondevano individui poco raccomandabili,
il picchiare monotono dei tamburi di Comus, le risate gracchianti dei negri, i
pericoli che, forse, la minacciavano. Aveva sempre avuto molta immaginazione, e
sognare le piaceva. Le suore della Pietà le rimproveravano aspramente la
fantasia come un peccato che t’estrania dalla vita vera e dai tuoi doveri di
cristiano, ma era così bello, abbandonarsi... S’abbandonò, e non s’accorse che
qualcuno la urtava di proposito. Vacillò, ma riuscì a tenersi in piedi,
borbottò tra i denti un’insolenza all’indirizzo del cafone privo di qualsiasi
uso di mondo che neppure s’era degnato di chiederle scusa, e solo allora notò
la piccola sagoma mascherata che fuggiva con le ali ai piedi e la sua borsetta
stretta in pugno. Un borsaiolo. Aveva fatto male a non prevedere l’evenienza. E
adesso, come l’avrebbe pagata, la carrozza che la riaccompagnasse a casa? Era
più che certa che i vetturini non facessero credito, esattamente come i
gondolieri a Venezia. Ma i gentiluomini non erano tutti quanti dileguati nel
nulla, l’ultima notte di Carnevale.
Senza
scomporsi troppo, l’uomo dalla maschera d’oro afferrò per un braccio la piccola
canaglia, la costrinse a mollare la refurtiva quindi le porse, con una lunga
mano guantata di camoscio nero e un presumibile sorriso, la sua borsettina di
maglia d’argento e seta viola.
-Siete
straniera, immagino. Una persona del posto sarebbe stata più prudente di voi,
in una serata come questa: luccicate troppo, e i borsaioli sono perfettamente
in grado di distinguere l’oro e l’argento veri dalla paccottiglia di Carnevale.
Aveva una
voce profonda, musicale, appena incupita dalla maschera che gli copriva anche
le labbra. Il suo francese era perfetto, ma l’accento straniero: le
sillabe gli scivolavano sensuali tra i
denti e sulla lingua, come succede agli spagnoli. Doveva essere spagnolo, in
città ce n’erano parecchi, così le era stato detto.
-Vi sono
debitrice, signore, anche se qui dentro tengo soltanto gli spiccioli per
noleggiare una carrozza che mi riporti a casa. Ero con un’amica, ma la folla mi
ha spinto via e ci siamo perse di vista. Avete ragione, sono straniera, ma non
immaginavo che... In ogni caso, anche voi luccicate, a quanto vedo, e l’oro è
più prezioso dell’argento.
-Alludete
alla maschera? E’ solo cartapesta verniciata. Nessuno che abbia un po’ di
buonsenso uscirebbe con dell’oro vero addosso la notte di Martedì Grasso.
Masina
sorrise. Grande e grosso com’era, quell’uomo non si sarebbe lasciato
borseggiare com’era capitato a lei da una qualsiasi canaglia dei bassifondi. La
incuriosiva. Chissà cosa si celava, sotto gli splendidi, impassibili lineamenti
d’oro falso che nascondevano la sua vera identità. La faccia grinzosa di un
vecchio? Poco probabile, alto, dritto, forte e sicuro com’era. Forse uno
sfregio, la cicatrice deturpante di un’antica ferita. O i buchi del vaiolo. O
più semplicemente una bruttezza senza remissione che, almeno a Carnevale,
voleva fare a meno di portarsi appresso. L’avesse gettata via...Un gentiluomo
non nasconde il suo volto alla donna con cui sta parlando. E poi, ormai, non
mancavano che poche ore alla Mezzanotte, al Mercoledì della Penitenza: perché
non la gettava nel fango della strada, quella maledetta maschera d’oro falso?
Non gli interessava sapere chi era lei? Se avesse gettato via quella maschera,
Masina avrebbe gettato la sua, e lui l’avrebbe riconosciuta: Luna Valmarin di
San Servolo, dalla voce d’usignolo, Luna la grande, che aveva cantato nel “Don
Giovanni” e fatto crollare il teatro per gli applausi. Luna, nel cui camerino
venivano recapitati mazzi di rose rosse che nascondevano gioielli preziosi,
Luna che avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa e l’avrebbe ottenuta. E lui chi
era? Il diavolo? Un fantasma?
-Perché
non avete chiamato le guardie, invece di lasciarlo scappare?
-Il
ladruncolo che vi ha derubata l’ha fatto per fame. Era soltanto un bambino, non
ve ne siete accorta? Un bambino nero, forse. O irlandese. O magari italiano. Non c’è solo gioia, a Nuova
Orleans, parate, tamburi e musica. C’è molta miseria. E molta ingiustizia: più
di quanto non riusciate a immaginare. E le autorità sono terribilmente severe,
con chi ruba per fame: come dappertutto.
Una
tristezza quasi palpabile gli aveva incupito la voce di velluto, mentre le
lunghe dita della mano sinistra si gingillavano nervosamente con la grossa
catena che gli chiudeva il mantello. Sul dorso del guanto di camoscio nero, un
curioso ricamo dorato, forse un simbolo esoterico: Nuova Orleans era una città
imbevuta d’acqua, di nebbia e di magia.
-Ditemi
il vostro nome, almeno saprò chi dover ringraziare.
Aveva un
buon odore di sapone al sandalo, non era uno qualunque, un povero. Quelli
puzzano. Capace che ci fosse anche lui, ad applaudirla, la sera della prima. “Là
ci darem la mano...Tu mi dirai di sì...” “Vorrei e non vorrei...Mi trema
un poco il cor...”
-Il mio
nome? Javier, perdonate la scortesia.
Nella poca luce delle torce, balenarono
per un attimo i fili dorati intessuti nello scialle marrone di Madeleine, le
pietre false della sua maschera veneziana. La chiamava con un cenno della mano,
e Masina s’affrettò a raggiungerla.
Capitolo terzo
-Ve
l’avevo detto che vi sareste cacciata nei guai.
-Quali
guai?
-Avete
rischiato di perdervi e di finire chissà dove. In questa città, è certo che non
sono tutti santi.
-Forse.
Ma ho trovato un gentiluomo che mi ha
tolta dai guai che dite. Noo, non spaventatevi, Madeleine, non mi è capitato
niente di grave. Una mascherina ha tentato di portarmi via la borsa e il
gentiluomo di cui vi dicevo ha messo le cose a posto. Capace che lo conoscete.
-La città
è grande ed io conosco poca gente.
-Portava
un mantello nero col cappuccio sulla testa e aveva la faccia nascosta dalla
maschera più bella che mi sia mai capitato di vedere. M’ha detto di chiamarsi
Javier.
-Javier
Almeida.
-Forse.
Lo conoscete?
-Conosco
la sua fama, come tutti quanti. Javier Almeida, la Pantera.
-Un
soprannome affascinante.
-Il soprannome affascinante d’un fior di
mascalzone che campa facendo il maestro d’armi e, oltre che un temibile spadaccino, pare sia anche uno stregone
vudù. Ma io non ci credo, nelle diavolerie dei negri.
-Pensate
che possa essere venuto a sentirmi cantare?
-Ne
dubito: quelli come lui frequentano Place Congo, non il Teatro dell’Opera.
-Un uomo
interessante...L’avete mai visto in faccia?
-No, e
non ci tengo.Non sono curiosa come voi. In ogni caso, pare sia l’uomo più bello
di Nuova Orleans e che la maschera che gli avete visto riproduca esattamente le
sue fattezze.
-A
Venezia sono gli uomini vecchi e brutti, a nascondere il viso dietro una bella
maschera.
-Qui non
siamo a Venezia, cara.
Masina
sorrise, maliziosa.
-Farò di
tutto per incontrarlo un’altra volta. Non girerà mascherato anche in Quaresima.
-L’ho
sempre pensato, che siete un’incosciente, Masina.Non ve ne importa proprio
nulla della vostra reputazione? E poi...
E poi,
benedetta Madeleine talmente perbene da sembrare quasi finta, mi dirai che gli
uomini di bell’aspetto sono tutti quanti degli egoisti pieni di sé e il più
delle volte neanche troppo intelligenti. Che conviene girare alla larga da
loro. Luoghi comuni. Inoltre, con quello che ho passato, non credo che
m’importi più della mia reputazione che della mia curiosità, anche se tu stessa
m’insegni che è stata proprio la curiosità ad ammazzare il gatto.
-Non sarà
un poco di buono, un delinquente...
-Peggio.
E’ un negro.
E si
scapicollò per le scale. Era tardi, sicuramente sua madre l’aspettava ancora
sveglia.
Un negro. Madeleine aveva cercato di farglielo capire in tutti i modi ma lei, nuova della città, non sapeva ancora niente di Place Congo o di che cosa fosse quel vudù del quale tutti quanti parlavano. Era tanto terribile, essere negri a Nuova Orleans? In città ce n’erano parecchi. Alcuni liberi, molti schiavi. E negro era un termine quantomeno assai generico, perché di neri sul serio se ne vedevano in verità abbastanza pochi. I più avevano carnagioni che andavano dal color pulce all’appena abbronzato comunissimo perfino a Venezia, soprattutto tra la gente di mare. Certi avevano lineamenti abbozzati e grossolani, con labbra sporgenti e nasi appiattiti, ma parecchi erano decisamente attraenti. E quasi tutti avevano andature flessuose e splendidi corpi. Negro...Forse l’avrebbe immaginato, se solo avesse saputo che la sua famosa maschera d’oro gli riproduceva a perfezione i lineamenti della faccia, bellissimi lineamenti esotici, da principe delle Mille e Una Notte. Libero. O schiavo? Chi la pagava profumatamente perché dilettasse la città con i suoi gorgheggi, aveva pensato bene di provvedere casa sua di due schiave: una cuoca sulla cinquantina, tale Calpurnia, magra come un chiodo, nera come un tizzo di carbone e timida come un coniglio e una cameriera, una ragazzetta, Emma, che l’aiutava a vestirsi e a pettinarsi, appena olivastra, bella come una bambola e lei pure timida come un coniglio. Niente a che vedere coi servitori veneziani delle dimore patrizie e borghesi, disinvolti, petulanti e furbi di tre cotte, esperti come nessuno nell’arte di far ballare “il sior” e “la siora” sulla punta di un dito, proprio come i servi padroni che imperversavano nelle farse improvvisate degli attori girovaghi e nelle commedie di Carlo Goldoni. Schiave, come ai tempi di Roma antica. Quelle due creature impaurite, che parlavano a stento un francese appena comprensibile, le facevano pena. “Credete che in Africa starebbero meglio?” era il commento inevitabile alla sua compassione di straniera catapultata in un mondo a lei sconosciuto da un altro dove, in nome della libertà, ci si faceva imprigionare e ammazzare. Il bianco è superiore, il nero è nato per servirlo. O per insegnargli a maneggiare le armi con cui sbudellare i suoi simili in duello. Nuova Orleans era ammalata di febbre gialla, di miasmi palustri e di duelli, le avevano detto anche quello. Nuova Orleans puzzava di muffa, di fango e di pregiudizi. Javier Almeida...L’avrebbe guardato in faccia. E senza la maschera, questa volta.
Capitolo quarto
Ho
bisogno di qualcuna delle vostre lezioni. Sono nuovo della città, ma mi hanno
detto che siete il migliore. Domani alle quattro sarò da voi.
Tomas V.
Forse era
la prima volta in vita sua che Masina malediceva la morbidezza della sua figura, in particolare il seno
prosperoso che tanto valorizzava le sue scollature e tanto piaceva ai suoi
ammiratori ma che, in una circostanza come quella, rischiava di mandare a gambe
all’aria i suoi piani accuratamente studiati. Se l’era fasciato così stretto
che faticava a respirare, ma doveva resistere. Meglio non si sapesse che era
una donna. A Nuova Orleans, e non solo lì, le signore perbene se se stavano in
casa a ricamare, tutt’al più si scambiavano visite tra amiche nel corso delle
quali raccontavano pettegolezzi
sorseggiando cioccolata, non avevano per il capo i grilli che ci aveva lei e
per nulla al mondo sarebbero andate a cercare giovanotti negri di bell’aspetto
e di dubbia reputazione dai quali farsi insegnare a tirar di scherma.
Indossò
camicia, calzoni, farsetto di velluto, se li lisciò addosso domandandosi se le
stavano bene, ma sì, uno come George l’avrebbe trovata incantevole, e il nero
le donava. E soprattutto se, chi l’avesse incontrata per strada avrebbe potuto
prenderla per quello che non era. Magari per un uomo fatto no, era troppo
piccola, ma per un adolescente minuto e un po’ effeminato beh, forse sì. C’era
qualcosa che non andava? Si domandò osservandosi nello specchio. Le
sopracciglia depilate? Non erano troppo sottili, e se le avesse tenute
aggrottate, nessuno se ne sarebbe accorto. I buchi nelle orecchie? I capelli?
Nessun uomo, ormai, li portava così lunghi. Per essere credibile nel suo
travestimento, avrebbe dovuto tagliarli, ma il gioco non valeva un sacrificio
del genere. Li raccolse a coda sulla nuca e tutt’al più l’avrebbero scambiata
per un eccentrico, un nostalgico del passato o un finocchietto come quel
Lorenzino Ongaro tra le cui braccia era spirato suo marito per modo di dire, il patrizio Alvise Valmarin, il
Signore avesse pietà della sua anima peccatrice. Le ciglia? Maledettamente
lunghe. Ma aveva conosciuto parecchi
uomini con le ciglia anche più lunghe delle sue.
Tomas.
Alla luce e senza la maschera, lui non l’avrebbe riconosciuta. Alterare la
voce, per una cantante, era facile come bere un bicchier d’acqua. E poi gli
adolescenti in crescita hanno voci curiose, ora roche e gracchianti, ora acute
e stridule. Non più Luna di San Servolo, la Divina, e neppure Masina Zanetta. Tomas V. Quindici anni. Arrivato
chissà da dove. Ci avrebbe pensato in carrozza, lungo il tragitto.
Almeida
stava dalle parti dei Bastioni, le avevano detto, in un rione abitato quasi
esclusivamente da uomini di colore liberi e dalle mantenute mulatte dei ricchi
signori bianchi della città: un posto dove un’autentica gentildonna non si
sarebbe mai lasciata sorprendere, ma lei non lo era né lo sarebbe mai stata,
una gentildonna, grazie al cielo era solo una cantante di dubbia reputazione e
di modeste origini.
Il
travaglio di sua madre, una merlettaia di Burano senza marito, era coinciso con
uno dei più laboriosi travagli della Storia: 14 Luglio 1789. Lei e i Tempi
Nuovi erano venuti al mondo nello stesso giorno. Della donna che l’aveva
partorita, morta di colera l’anno in cui la Francia rivoluzionaria aveva
consumato il regicidio, non ricordava quasi niente. Si chiamava Rosina Zanetta
e le aveva lasciato, come unica eredità, un gran brutto nome che, per tutto il
corso dell’infanzia e dell’adolescenza, lei s’era tirata appresso come una
maledizione. Poteva averla chiamata Anna, o Caterina, o Maria? No: Tommasa. Un
nome maschile malamente adattato, forse quello del suo seduttore. Un espediente
per commuoverlo e indurlo a fare il suo dovere e che in ogni caso non era
servito a niente, visto come se l’era svignata: doveva trattarsi di un
forestiero, magari era pure sposato.
Nessuno invidierebbe la sorte di una bambina di tre anni, orfana e povera. Ma Venezia non era una città come tutte quante le altre, dove c’era il brefotrofio e una vita ricca di stenti e avara d’amore, per quelle come lei. C’era un posto, fianco a fianco con la chiesa di santa Maria, sulla Riva degli Schiavoni. Un posto che la gente chiamava Ospedale della Pietà, dove le suore impartivano alle sventurate fanciulle un’educazione completa e alle più dotate veniva insegnato a cantare, a suonare e a leggere la musica sotto la guida di eccellenti maestri. Perfino, a suo tempo, del grande Vivaldi, il Prete Rosso.
Chissà se
la meta era ancora lontana, e quanto. Chissà se avrebbe dovuto mettersi quel
ridicolo cilindro in testa, per risultare credibile come giovanotto agli occhi
di Javier Almeida. E chissà come sarebbe andata a finire, una volta che
l’inganno fosse caduto. Un bel gioco. Un gioco senz’alto divertente ed
eccitante quanto bastava. Javier Almeida, la Pantera. Il Principe nero e
tenebroso dei bassifondi, spadaccino e stregone. Una figura affascinante,
checché ne dicesse quella Madeleine. I negri sono dei selvaggi. E puzzano. “Ils
fautent de mieux” ,diceva così. Oltre alla musica, Masina aveva imparato
anche un discreto francese, all’Ospedale della Pietà.
“Vorrei
e non vorrei...” La carrozza andava verso la meta, e lei cantava nella
mente, godendosi il ricordo degli applausi, alla sua interpretazione e a quella
musica. Quando Mozart era morto, lei era ancora molto piccola. Aveva poco più
di trent’anni, le avevano detto, era malato e povero. Gli erano state tributate
le esequie degli indigenti e si diceva
che soltanto il suo vecchio cane avesse seguito il feretro fino in cimitero.
Era morto come un mendicante, e aveva composto le musiche più belle che mai
fossero state scritte. “Felice è ver sarei, ma puoi burlarmi ancor...”
Era morto con il suo secolo, il Settecento dei cantori castrati, dei minuetti,
dei fronzoli e delle parrucche, che il ciclone rivoluzionario aveva spazzato
via, e non solo in Francia. Ma la musica ha potere sul tempo. Gli uomini
muoiono, i tempi muoiono, e male come Don Giovanni, puttaniere per vocazione,
quando un Convitato di Pietra* si presenta a chiedere i conti. La musica
restava, a dispetto delle rivoluzioni, della Serenissima che non esisteva più,
delle parrucche che ammuffivano nelle soffitte.
“Presto,
non son più forte...” La musica, la sua vita. Aveva iniziato a studiarla
nel 97, l’anno in cui Napoleone, col
vergognoso trattato di Campoformio, aveva venduto all’Austria la millenaria
libertà di Venezia. Ha una bella vocina intonata, avevano sentenziato le maestre.
Una voce magari meno estesa di altre, ma limpida come cristallo. E una
gestualità espressiva ed aggraziata, da Colombina della Commedia dell’Arte.
Sarebbe stata perfetta per il melodramma, se solo le monache non avessero
sempre disapprovato lo spregiudicato, ambiguo e peccaminoso ambiente del
teatro. Le ragazze della Pietà potevano diventare maestre di musica, cantare in
chiesa o nelle riunioni private, le più fortunate potevano fare ottimi
matrimoni, chi aveva la vocazione religiosa poteva consacrarsi a Dio, ma a
nessuna sarebbe stato permesso di rischiare la dannazione calcando le tavole di
un palcoscenico. La vita, guarda caso, che lei invece sognava: gli applausi, la
fama e l’ammirazione, il denaro e la ricchezza...Un osso duro anche per le
suore, quella ragazzina non bella ma graziosa, dall’innegabile talento e dalla
testa dura come il ferro. Debuttando, a sedici anni appena compiuti, si era
dovuta scegliere un nome d’arte, secondo le tradizioni dell’istituto. E aveva
scelto di chiamarsi la Luna della Pietà, nonostante la generale disapprovazione
per quel nome che sapeva troppo di pagano. Maestra di musica, solista del coro
di Santa Maria... Qualsiasi orfana
avrebbe sottoscritto ad occhi chiusi un destino del genere, ma a lei
quelle condizioni andavano strette come un paio di scarpe della misura
sbagliata. Masina sognava il palcoscenico, sognava gli applausi e li avrebbe
avuti. A costo di dire addio alle sue certezze, di rassegnarsi a non tornare
indietro per mendicare il perdono, se avesse fallito, perché il portone nero
dell’ospizio sulla Riva degli Schiavoni, per lei sarebbe rimasto chiuso. Per
sempre. Ma il mondo sarebbe stato suo.
I Bastioni non dovevano essere lontani. Sì, era diventato suo, il mondo, poteva chiuderlo in un pugno, pensava sorridendo tra sé e contorcendosi per resistere al fastidio del seno fasciato. Era scappata dall’Ospedale, era stata imbrogliata, irretita, ingannata da figuri squallidi, da avventurieri di mezza tacca, da pseudointellettuali da strapazzo, da vecchi sporcaccioni nell’immediato futuro dei quali non c’era un Convitato di Pietra deputato alla vendetta. I primi anni erano stati duri. Era stata sul punto di arrendersi e si era arresa, quando la precarietà delle sue condizioni l’aveva spinta ad accettare un matrimonio di comodo con quel vecchio schifoso. Era il Novembre del Quattordici, e i rappresentanti delle Grandi Potenze si erano riuniti a Vienna per riportare in Europa l’ordine che Napoleone aveva sconvolto. Alvise Valmarin avrebbe potuto comodamente esserle nonno, era un debosciato della peggiore specie, non aveva bisogno di un erede che c’era già, ed era ricco da far paura. Sposandolo, Masina si sarebbe garantita un futuro meno precario e lui avrebbe trovato in quella cantante fallita la moglie di comodo che gli sarebbe servita per creare un alibi alle sue abitudini scandalose: se era arrivato scapolo al traguardo dei sessant’anni, era perchè le donne non gli erano mai piaciute, meglio i gondolieri, o gli operai dell’Arsenale, o i biondi soldatacci austriaci. La pensassero come volevano, le malelingue della città: Valmarin, la vecchia checca, sposa una che ha un terzo dei suoi anni, una puttanella che canta all’Opera e lo riempirà di corna, magari tenterà pure di gabellare per suo il figlio che chissà chi le metterà dentro. Ma si sa, la sposa per salvare la faccia e continuare a fare come ha sempre fatto, perché la Venezia di adesso non è più quella gaudente e scapestrata dei suoi anni migliori, le autorità austriache le hanno a dispetto, certe stravaganze, e mica scherzano, quelli...In quanto a lei, avrebbe trovato chi la consolasse, di lì al momento, presumibilmente breve, in cui Valmarin avrebbe tolto il disturbo: un bell’ufficiale, il tenore con cui aveva fatto coppia sulla scena prima di sposarsi, o il Milord inglese con la gamba cionca, quello bello e mezzo matto, che scriveva poesie e c’aveva più donne lui del Sultano di Costantinopoli.
Un
sontuoso palazzo che s’affacciava sul Canal Grande. Una villa palladiana sulle
rive del Brenta, circondata da un parco con le fontane, i salici e i pavoni.
Abiti all’ultima moda. Gioielli da Mille e Una Notte. E tutta la libertà che
voleva. George Byron le aveva insegnato
a cavalcare, durando una certa fatica a vincere la paura istintiva che gli
animali le incutevano da sempre; le aveva insegnato il nuoto e i primi
rudimenti della scherma. E altri giochi, non meno divertenti. Aveva dovuto
dividerlo con altre donne, ma se non c’è amore non può esserci gelosia. E
quando lui l’aveva lasciata per correre appresso alle sottane della piccola
Teresa Gamba Guiccioli, Masina non ne aveva fatto una tragedia.
La
carrozza imboccò Jackson Street. Le case dai patii fioriti e dalle grate
panciute diventavano, con il procedere del cammino, più piccole, più vecchie e
più modeste, quando non addirittura fatiscenti; e le facce della gente più
scure, dall’olivastro pallido degli ispanici al caffelatte dei meticci, al nero
ebano degli schiavi giunti di contrabbando dall’Africa. Gli uomini avevano
capelli corti, neri lucidi e riccioluti come la lana degli agnelli di Persia; le
donne, tutte, dall’età dei primi mestrui alla decrepitezza senile, teste
coperte da fazzolettoni colorati: era la legge a vietar loro di uscire a capo
scoperto, gliel’aveva detto Emma, la bella ragazzina di colore che l’aiutava a
vestirsi e a pettinarsi. Legge strana per uno strano paese. Se sta bene a loro,
si trovò a pensare, sta bene anche a me.
Alvise
Valmarin l’aveva lasciata vedova dopo un paio d’anni, morendo, per l’opinione
pubblica a causa di un improbabile
attacco fulminante di colera e per chi sapeva la verità, ossia tutta Venezia,
d’un colpo apoplettico, mentre fornicava contronatura con quel Lorenzino
Ongaro, garzone di fornaio con cui se la intendeva in quel momento. I parenti
ed eredi legittimi del defunto se l’erano levata dai piedi senza troppi
tentennamenti ma abbastanza ricca da mantenersi decorosamente. E, quando la
sirena del palcoscenico aveva ripreso a tentarla, anche la ruota della fortuna
si era messa a girare dalla sua parte. Un abile impresario la faceva esibire
nei teatri più prestigiosi d’Italia e, ben presto, anche Parigi, Vienna,
Madrid, Londra si erano inginocchiate ai suoi piedi. Rossini, il Grande
Maestro, l’erede incontrastato dei fasti mozartiani, era entusiasta della sua
voce. Presto avrebbe cantato nella sua nuova opera, il “Barbiere di Siviglia”.
Un capolavoro. Napoli, Firenze, Genova. Quindi, di trionfo in trionfo, Parigi,
Madrid, Vienna. Cavalcate all’alba, brillanti tra le rose. Amanti di tutti i
generi, da sgranocchiare alla stregua di dolcetti. Ricchi e attempati, soltanto
decorativi, pazzi da legare come Ugo il
Greco**, che adorava sentirla cantare, era matto quanto Byron, una dannata
creatura come tutti quanti i poeti, brutto per giunta, con quella zazzera rossa
che gli spuntava a due dita dalle sopracciglia e il corpo smilzo e peloso. Poteva scegliere, Luna la Divina. E, ancora
una volta, aveva scelto male. Andrea. Conte Andrea Asquer. Un sardo trapiantato
a Genova, basso di statura, magro e con gli occhi ardenti. Ufficiale del Regio
Esercito Sabaudo. Affiliato alla Carboneria. Poeta a tempo perso. Come se non
bastasse, sposato. Avesse avuto un po’ di buonsenso... Sarebbe stata un’altra e
non lei. E sicuramente non sarebbe scappata a Nuova Orleans come una ladra dopo
che il suo amante era stato preso dagli agenti del Governo, processato per
tradimento e fucilato. In America vanno pazzi per i cantanti italiani e anche se di musica non ne capiscono un
granché, hanno un sacco di soldi e pagano bene. Nuova Orleans ti piacerà,
laggiù è sempre primavera, e poi un anno fa in fretta a passare. Il suo
impresario le aveva imbottito la testa di mezze bugie e mezze verità. La
pagavano bene, questo sì. Quasi la veneravano. Ma a Nuova Orleans non era
sempre primavera. D’inverno, anzi, ci faceva un freddo cane.
Si
gingillò con quel ridicolo cilindro, domandandosi se era il caso di metterlo,
chissà come le stava male. E ripensò alle donne di colore e ai loro fazzoletti
imposti dall’autorità. Forse aveva ragione Andrea, quando le parlava della
libertà e della lotta, gli occhi accesi d’orgoglio, il viso aguzzo alterato
dall’ira. Era stato un magnifico amante, nonostante i guai che le aveva fatto
passare. Come tutti i poeti. E come tutti i fanatici.
Emma. Era
bellissima, più di lei, nonostante il fazzolettone scolorito con cui era
costretta a nascondere i ricci vaporosi come un’aureola, prima di uscire in
strada. Sembrava una gazzella, con
quegli occhi grandi umidi e scuri, e camminando muoveva le anche con una
grazia tutta speciale. Chissà se ce l’aveva, da qualche parte, un fidanzato con
cui faceva all’amore, se era una donna come tutte quante le altre o solo un
mite, rassegnato animale domestico senza volontà e senza carattere. E anche
Javier Almeida, chissà...Ma le pantere sono predatori solitari, non animali
domestici.
-Rampart,
Monsieur.
Era
arrivata a destinazione.
*La
statua che nel “Don Giovanni” di Mozart , magicamente si anima per punire i
misfatti del protagonista.
**Ugo
Foscolo.
Capitolo quinto
I
Bastioni avevano il colore grigiastro della pietra vecchia, e nelle case che
s’addossavano ai loro piedi come cucciolate di gatti neonati nella cesta ci
stavano i negri, anzi le negre: le mantenute mulatte, meticcie e quarterone1
dei ricchi signori della città. E le loro famiglie clandestine. Una consuetudine
che non scandalizzava nessuno, a Nuova Orleans, e che chiamavano plaçage.
Nasceva dall’usanza continentale dei matrimoni di convenienza, ed era
tranquillamente accettata perfino dalle mogli legittime, perché le liberava
dalle assillanti pretese sessuali dei mariti che non amavano e dal peso di una
gravidanza all’anno. E poiché nessun gentiluomo avrebbe negato alla sua
mantenuta e agli eventuali figli nati dalla loro unione casa e sicurezza, una
sistemazione del genere era quanto di meglio una bella ragazza con sangue nero
dentro le vene potesse aspettarsi dalla vita.
Tutto si
poteva vendere e comprare, in quella città: anche una donna. Anche l’amore. O
non c’era, né lì né altrove, niente che non fosse in vendita. Masina
rabbrividì, nel corto mantello nero. Faceva freddo, anche quel giorno. Quanto
ci metteva, la primavera che le avevano promesso, ad arrivare?
La casa
che cercava era un po’ isolata rispetto alle altre, vecchia, quasi fatiscente,
con un portone borchiato macchiato d’umido e di muffa e ciuffi rigogliosi
d’ortica tra i lastroni del vialetto d’accesso. Picchiò l’anello con tutta la
sua forza e aspettò dieci minuti buoni, sopportando il vento freddo che
soffiava dal lago Pontchartrain.
-Beh, ragazzino?
Era un
pezzo d’uomo sul metro e novanta, un gigante accanto al quale lei si sentiva
una nana. Un gigante dalla corporatura snella ed elastica, senza niente di
pesante o grossolano, e la sua bellissima figura era esaltata
dall’abbigliamento semplice e di buon taglio che indossava: brache attillate,
stivali al ginocchio, camicia ampia di seta nera come il resto, dello stesso
genere di quelle che stavano tanto bene addosso a George Byron. Ma lui,
nonostante il buio dell’andito senza finestre nascondesse parecchio della sua
fisionomia, era anche meglio del lord inglese mezzo matto che scriveva poesie.
-Mi chiamo Tomas. E non sono un ragazzino.
Lui
ridacchiò, posandole sulla spalla la sua grande mano affusolata. E Masina si
sentì rimescolare il sangue dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi:
doveva essere diventata rossa come un pomodoro fradicio e, senza la complicità
del buio, il gioco a nascondersi dietro quella identità fittizia sarebbe
senz’altro durato molto poco.
-E che
saresti, sentiamo? Avrai quattordici, quindici anni al massimo. Tomas...Un nome
curioso. Straniero? Do you speak English? No, non sei né americano né
inglese. Habla Usted Espanol? Neanche, figuriamoci se non avrei
conosciuto al volo uno che dovrebbe parlare la mia stessa lingua. Parlez vous Français?
-Piantala di blaterare e
fammi entrare dentro, negro.
Tutti i bianchi della città si rivolgevano così a quelli di colore, se voleva recitare credibilmente la parte del bellimbusto Masina doveva adattarsi alle usanze locali che, del resto, i negri sembrava avessero digerito e assimilato senza problemi. Ma quello era diverso.
-Pensaci cento volte, prima di usare questo tono con me; - aveva sibilato stringendole la parte alta del braccio con certe dita che sembravano d’acciaio - altrimenti ti rispedisco in strada a forza di calci nel culo, hai capito, moccioso?
Dio, che
male! Spogliandosi, avrebbe sicuramente trovato sopra la pelle il segno delle
sue dita, un bel livido nero e paonazzo che si sarebbe dovuta portare appresso
per chissà quanto. Però...Che quello non fosse un negro come tutti gli altri,
era fuori da ogni ragionevole dubbio.
-Scusatemi, io...
-Così va bene.
Il
moccioso era straniero, da poco in città, ma ne aveva assimilato a meraviglia
le costumanze: unico suo errore, andare a stuzzicare l’orgoglio smisurato di
Javier Almeida, un uomo libero, mica un qualsiasi schiavo umiliato e avvilito
dalla sua condizione.
-Non sei francese.
-Come lo avete capito?
-Dall’accento. E dagli strafalcioni sulla
tua lettera. Dovresti studiare di più.
-Sembrate il mio tutore.
-Il tuo tutore, già. Perché non è venuto
ad accompagnarti, invece di mandarti qui da solo?
-E’
vecchio e malato. E poi so sbrigarmela da me. In ogni caso, sa dove sono,
perché e con chi. Mi lascia fare quello che voglio.
-Mi
sembra che dalle tue parti abbiano strane idee a proposito dell’educazione dei
ragazzini...Non mi hai ancora detto da dove vieni.
-Dalla...Dalla Slovenia, signore: una
provincia dell’Impero, nell’Europa centrale.
-Conosco la geografia, cucciolo. E adesso
seguimi dentro, almeno potremo parlare guardandoci in faccia.
Aldilà
dell’androne, oltre una porticina nera lunga e stretta, il primo piano della
casa era occupato per intero da uno stanzone col pavimento d’assi di legno
lucidato, quasi completamente privo d’arredamento, salvo un paio di sagome
umane a grandezza naturale, alcune panoplie appese alle pareti e tre o quattro
pancacci su cui accomodarsi. La luce che entrava da enormi porte-finestre era
tanta e tale da non nascondere più nulla agli occhi di Masina, men che meno
l’incredibile bellezza del padrone di casa. Mai visto, e ne aveva conosciuti
tanti, un uomo simile: sembrava l’incrocio tra un angelo e un demonio. Non
dimostrava più di venticinque anni, anche se azzeccarci con l’età dei neri era
una delle imprese più disperate in cui
uno straniero nuovo di quei posti potesse imbarcarsi. Dovrebbe avere una
bella manciata d’anni in meno di me, pensava Masina. Dicono che una donna si complichi la vita, a mettersi con uno più
giovane di lei...Sto correndo, Dio quanto corro. In fondo, neppure lo conosco,
e lui crede che io sia un ragazzino…
Ma era
decisamente piacevole stare a
guardarlo. Non un particolare fuori posto: fisico scolpito, lineamenti
perfetti. In più, il dettaglio inquietante e fascinoso del sangue nero. Le
avevano detto che quelli della sua razza erano amanti superbi, e chissà se era
verità o leggenda.
Piantato
sulle lunghe gambe muscolose inguainate di pelle scamosciata, le braccia
conserte, la guardava fisso, e un sorriso enigmatico gli aleggiava sulle
labbra. Aveva la carnagione color della cioccolata e occhi, sopracciglia e
capelli di un nero bluastro. Il viso, incorniciato da una barba corta e
sottile, era proprio quello della maschera: arcate sopraccigliari ampie, occhi
a mandorla, zigomi rilevati, naso largo alla radice, dritto e regolare, labbra
prepotenti che si aprivano, nel sorriso, su una doppia chiostra di grossi denti
dal biancore abbagliante. Portava i capelli molto lunghi, fin quasi a metà
schiena, e acconciati in una maniera curiosa, a bioccoli a treccioline… Quando
li mandò indietro passandoci in mezzo la mano, Masina notò vistosi cerchi d’oro
ad entrambe le orecchie. Un altro cerchietto, più piccolo, gli trafiggeva la
narice sinistra, come ai selvaggi. Un particolare, al tempo stesso,
tremendamente atroce e tremendamente eccitante, pensava la donna, rabbrividendo
all’idea del dolore che Javier Almeida aveva sicuramente provato la prima volta
che si era infilato quell’anello nel naso.
-Beh?
-Il
vostro...naso, signore.
-Credo
che il senso estetico di noialtri negri sia completamente diverso da quello dei
bianchi: per questo ci piace infilarci cose che luccicano da tutte le parti. E
poi scommetto che ti avrei deluso, se non mi fossi presentato a un giovane
gentiluomo tuo pari con l’aspetto di un selvaggio mangiatore di carne umana:
non ti pare, ragazzino?
Masina
aveva annuito, storcendo la bocca e allargando gli occhi chiari sulla splendida
faccia del suo interlocutore. E’ molto bello, pensava. E anche molto sicuro del
fatto suo. Me li facevo tutti ignoranti, superstiziosi e impastati di paura,
quelli come lui, invece... E’ perspicace, la verità non gli sfugge. Non ci
metterà molto a notare i segni agli angoli dei miei occhi, a capire che ho
trentatré anni e non quindici. E a
capire che sono una donna, non un
ragazzino. Javier Almeida, spadaccino e stregone...Maledetta la mia curiosità,
può essere che mi sia cacciata in un guaio.
-Perché
vuoi imparare a tirare di scherma?
Aveva
sguainato una sciabola dal fodero e la osservava soppesandola mentre le
parlava, franco, diretto, brutale, come se avesse avuto veramente a che fare
con un uomo, e non con un uomo bianco.
-Perché
dite? Perché sono un gentiluomo, che diamine!
Già, era un gentiluomo. Uno della razza di coloro che, sempre più numerosi, finivano a concimare con i loro resti i rigogliosi cespi d’ortiche del cimitero di Saint Louis. “Caduto sul campo dell’onore”. Forse una bella passeggiata tra le lapidi del camposanto avrebbe insegnato cosa significa vivere, a quel piccolo moccioso biondo pieno di boria. Quattordici anni, quindici al massimo. Un paio ancora, e sarebbe stato bell’e pronto a farsi ammazzare pure lui per un qualche stupido puntiglio truccato da questione d’onore. E avrebbe avuto la sua brava tomba coperta di ortiche a Saint Louis, o in Slovenia, o da qualche altra parte.
-E perché
sei venuto a cercare me e non qualcun altro? Bastille Croquere,* o...
La
sciabola che stringeva in pugno sibilò fendendo l’aria, poi finì nuovamente nel
fodero. E gli occhi color pece di Javier Almeida s’accesero di pagliuzze d’oro,
proprio come quelle di una pantera.
-So che
non vale quanto voi. Né lui né nessuno.
-Ha un
aspetto rassicurante, i modi di un gentiluomo, non porta l’anello al naso e
sembra un bianco.
-Io sono
abituato a pretendere il meglio: senza farne una questione di colore.
-Sei in
gamba, per un moccioso della tua età.- Rise, con tutti quanti quei suoi
formidabili denti bianchi, e le battè la mano sulla spalla, facendola
sussultare per il dolore- Vedi, io non mi sono mai sentito inferiore a nessuno e sono orgoglioso di quello che sono.
Ma non critico chi non la pensa come me: è difficile vivere bene in un posto
come questo se si ha sangue nero nelle vene. Beh, perché storci il muso,
ragazzino? Quando mi hai fatto perdere le staffe, devo averti fatto male.
Scusami, ero parecchio arrabbiato e non sono stato capace di controllarmi.
-Non è
niente, signore. Le busse dei miei istitutori quando non studio la lezione sono
molto più dolorose.
-E devi
averne prese parecchie, considerato come scrivi. Ho dell’unguento, se
vuoi...
Non
voleva, lo dicevano gli occhi per lui: pudico fino al ridicolo, una ragazzina.
-Guarda
che non ti mangio. E non credere di avere a che fare con un finocchio, perché
ti sbagli di grosso: a Javier Almeida piacciono le donne, mica i mocciosi come
te.
-Non è per
quello, signore. E’ che...
-Ho
capito, lasciamo perdere. Anzi, passiamo ai fatti. Spada...No, la spada no, sei
ancora troppo piccolo, meglio che cresci.
La
squadrava coi suoi grandi occhi neri lustri come pietre levigate che
inghiottono nella loro profondità la luce del giorno, la studiava con aria
seria. Ma non doveva essersi accorto di niente
-Beh
effettivamente sei minutino per davvero. Delicato, immagino: i signorini
bianchi come te lo sono quasi sempre. Quanti anni hai?
-Vado per
i quindici, signore.
Che gli
passava per la testa, in quel momento? Alla tua età ero molto più alto e più
grosso, forse voleva dirle quello. Avevo cambiato voce e cominciava a spuntarmi
la barba. E non avevo tutto quel grasso che hai tu sulle cosce e sulle natiche,
come i bambini. E come le donne.
-Fammi
vedere la mano.
Gliela osservava
con attenzione, tenendogliela delicatamente sulle sue, lunghe scure e
bellissime. Masina si era sempre vergognata delle sue mani, piccole e tozze.
-Sembrano
le mani di una ragazza.
Lo sguardo
gli lampeggiò, la bocca gli sorrise. Dio,
era fantastico: un pozzo di tentazione.
-Cominciamo?
-Cominciamo.
Le porse
il fioretto spuntato degli allenamenti. Un’arma flessibile, leggera. Inciso
sull’elsa ossidata, lo stesso segno misterioso che gli aveva notato, ricamato
sul guanto, l’ultima sera di Carnevale: Sole e Luna. Il suo sigillo, l’Eclissi,
ricamato sul guanto, inciso sul guardamano del fioretto, perfino tatuato sopra
il polso.
-Hai un
buon gioco di gambe, anche se sei piccolo e magro. Chi ti ha insegnato?
-Un lord
inglese, a Venezia.
George, il mio amante. Un uomo difficile e pieno di fascino, bello come una donna e crudele come un gatto. Un uomo che non credo di avere amato, e che mi attraeva, come una calamita attrae la limatura di ferro. Forse sono incapace di amare, ma mi piace il gioco dell’amore. Come i giochi con le carte, con i dadi e con la pantalena**. E non sai quanto vorrei giocare con te, Javier Almeida.
*Si tratta di un personaggio realmente esistito.
**Gioco d’azzardo basato su una trottola con incisi
sulle sue facciate numeri o segni, sui quali si scommetteva.
Capitolo sesto
-Eh...Attento, ragazzino:stavi quasi per infilzarmi.
La punta
del fioretto gli aveva segnato un graffio sanguinante, abbastanza profondo,
sulla parte alta del torace, lasciata scoperta dallo scollo della camicia di
seta.
-Scu...Scusatemi.
Stava per
dimenticarsi d’aggrottare le sopracciglia depilate, di alterare la sua voce
acuta di soprano. Stava per farsi scoprire. E non riusciva a scollare gli occhi
da quella sottile stria rossa sopra la pelle scura, ombreggiata da una peluria
lieve, corta e ricciuta. Pensare che era sempre stata convinta che le armi in
uso nelle scuole di scherma fossero spuntate.
Avrebbe potuto ammazzarlo, si diceva da sé sola. O fargli male sul
serio, non fosse stato per i suoi riflessi felini. Perché diamine aveva messo
un’arma vera nelle sue mani inesperte?
-Bel
colpo, ragazzino. Stoccata d’arresto e colpo al petto, partendo dal basso . E’
proprio così che si deve fare quando ci si trova a fronteggiare un avversario
molto più alto. Quel lord inglese ti ha insegnato bene.
Le gambe
le pesavano, la fasciatura con cui
s’era appiattita il seno cominciava a darle parecchio fastidio. Il livido sulla
spalla le faceva male. E il gioco stava tirando troppo alle lunghe per essere
ancora divertente. Perché non mi dici chiaro e tondo che hai scoperto tutto e
la facciamo finita? Non ho quindici anni, ma più del doppio, non sono sloveno e
non sono neppure un maschio: sono una donna, una femmina curiosa che s’è
combinata in questa maniera ridicola solo perché bruciava dalla voglia di
vedere in faccia il famoso Javier Almeida senza rischiare quel poco di
reputazione che le è rimasto. Tu non mi conosci. O forse non ti ricordi di me:
era la notte del Martedì Grasso, stavo uscendo dal teatro dove avevo appena
finito di cantare, la folla mi ha spinto via, allontanandomi dall’amica che era
con me. Io sono Luna Valmarin di San Servolo, mai sentita nominare? La Zerlina
del “Don Giovanni”. Ma forse a quelli come te non importa un fico secco della
musica dei bianchi. Eravamo mascherati, tutti e due, e se mi hai dimenticata,
io non ho dimenticato te. Mi hai difesa da un ladruncolo che voleva derubarmi,
non ricordi? E io ti ho ringraziato. Tutto qui. Solo, mi era rimasta la
curiosità di vedere cosa si nascondesse dietro quella maschera così bella che
portavi sulla faccia. Qualcuno mi ha poi
detto chi eri. E che eri l’uomo più bello della città: aveva ragione.
Quindi, storcendo la bocca, ha aggiunto che eri nero. Che i neri sono poco più
che animali. E puzzano. Ils fautent de mieux. Ma Javier Almeida non era
certo poco più che una bestia. I suoi abiti erano puliti e la sua pelle odorava
gradevolmente di sapone al sandalo.
-Che ti
prende, cucciolo? Ti sei incantato?
-Ni...Niente,
signore. E’ che...Non vorrei avervi fatto male, ecco.
-Colpa
mia, sono stato un imbecille: dovevo stare più attento. Abbassi la guardia e
capita, anche con un novellino come te. Comunque - e si passò la mano sul petto
- è solo un graffio, una cosa da niente. Mi è successo di peggio.
Gli era
rimasta qualche gocciolina di sangue sulla punta delle dita, sulle unghie
larghe e bianche.
-Davvero, io non...
Era mortificata e avrebbe pianto, se non avesse rischiato di compromettere tutto. Ma che importava, essere smascherata? Checché dicesse Madeleine, quello splendido nero coi capelli da Medusa e l’anello infilato nella narice sembrava un gentiluomo. La poco di buono era lei, che non era riuscita a trattenersi dall’accarezzargli il petto ferito, sentendosi stordire dal desiderio al contatto con la sua pelle morbida e stentando a nasconderlo. A fondo, stoccata di prima, parata d’arresto. Era stata brava. Brava come quando faceva l’amore. Le cantanti lo erano tutte, forse perché erano delle poco di buono, abituate ad esibirsi nei teatri interpretando personaggi immorali, indossando vesti impalpabili e scollacciate e lasciandosi brancicare dal tenore o dal baritono di turno di fronte a centinaia di persone. Le cantanti non avevano pudore, avevano ragione le suore della Pietà. Non molti anni prima, nemmeno la morte aveva compassione della gente come lei, che veniva sepolta in terra sconsacrata, come i suicidi, gli ebrei, i miscredenti e i neonati morti senza battesimo.
-Stai
facendo una tragedia di una cosa da niente, Tomas. Ti garantisco che le unghie
di certe donne graffiano più a fondo della punta del tuo fioretto. Lascia
passare un paio d’anni e te ne accorgerai pure tu: mi gioco l’osso del collo
che sei ancora vergine, cucciolo.
Un
sorriso enigmatico, a labbra chiuse, gli aveva sollevato gli angoli della
bocca. Aveva gli occhi lucidi e profondi, due opali del nero più intenso,
frangiati da ciglia così lunghe, folte e ricurve che Masina ebbe quasi
l’impressione che dovessero dargli fastidio.
-Non l’ho
fatto apposta. Non volevo farvi male, credetemi.
-Beh, io
ti ho fatto un danno e tu me l’hai reso. Siamo pari.
-Ma
io...Io voglio che facciate di me uno spadaccino, non un macellaio.
-Quanto
sei ingenuo...Credi che ci sia poi quella gran differenza? Ammazza l’uno, e
ammazza pure l’altro. Con grazia, con stile, quasi danzando. Ma ammazza. Sei
mai stato a visitare il cimitero di Saint Louis?
-No.
-Un giorno ti ci porto. I
giovani maschi bianchi, qui a Nuova Orleans, o muoiono di febbre gialla, o
ammazzati in duello. “Caduto sul campo dell’onore”. Non leggi altro, sopra le
lapidi.
-E...e
voi...
-E voialtri negri, volevi
dire? Qualcuno dice che siamo immuni dalla febbre gialla. In quanto all’onore,
quello non è roba per noi e non me ne sono mai fatto un problema, che tu ci
creda o no. Ma adesso vieni qui, sediamoci un po’, che sarai stanco.
S’era accoccolato sul piancito di legno, le lunghe gambe
piegate ad angolo, le trecce che gli spiovevano giù per le spalle, e continuava
a studiarla con l’attenzione di un ritrattista, con quegli occhi come tizzoni e
l’aria assorta. Un grosso gatto nero aveva preso a strusciarglisi contro
ronfando e Masina sussultò di paura, afferrandogli il braccio.
-Non avrai paura di un gattino, Tomas. Che razza d’uomo sei?
In realtà, Masina era sempre stata terrorizzata dai cani e dai
gatti. A Venezia, ancora bambina, aveva visto un cane arrabbiato mordere un
uomo e le urla di quel disgraziato avevano ossessionato i suoi sogni per un bel
pezzo.
-Siamo tutti quanti un po’uomini, un po’ animali, un po’ angeli
e un po’ diavoli, Tomas. Non ha senso avere paura di tutto. Anzi, le nostre
paure bisogna imparare a dominarle e a vincerle.
-Non direste così se aveste visto quel che ho visto io e se
aveste sentito come urlava, quel poveraccio. Le suor...Il mio tutore mi ha
tirato dentro e si è fatto il segno della Croce. Ha detto che quell’uomo urlava
perché sapeva che sarebbe morto, di lì a una settimana, un mese, forse un anno.
E che non se ne sarebbe andato senza accorgersene.
-Lo so...Tomas. E’ difficile non aver paura di ciò che sfugge
al nostro controllo.
Le aveva cinto il braccio intorno alla spalla, attirandola a sé
con forza e delicatezza, e lei aveva sentito la carezza delle sue treccioline
sul viso e sul collo. Sembravano piccoli serpenti, cordicelle di seta. La sua
pelle, unta di olio profumato, brillava al sole come la lama d’acciaio delle
sciabole appese alle pareti. Se la stringeva contro come avrebbe stretto una
donna. O era come Alvise Valmarin e il suo ganzo, o aveva scoperto tutto.
-Tomas...Sei strano, lo sai?
Masina rabbrividì, di fronte al fuoco freddo del suo sguardo
che la indagava. Lui le prese il mento tra le dita, il suo piccolo mento
rotondo e un po’sfuggente. Un mento liscio,
infantile,senza l’ombra di quella peluria che dovrebbe cominciare a
spuntare, sopra la faccia d’ un ragazzo di quindici anni. Poi le sfiorò le
labbra, con la sua grande bocca morbida, e lei credette d’impazzire.
-Tomas...- scosse la testa, le sorrise - Sapete raccontarle bene, le bugie, ma non è ancora nato chi può farla in barba a Javier Almeida. Comunque...Benvenuta nella Città della Mezzaluna, Madame.
Capitolo settimo
-...Nessuno l’ha mai fatta in barba a
Javier Almeida... Nemmeno per un momento?
-Ho voluto lasciarvi l’illusione che voi
foste stata la prima.
Molto
gentile da parte tua, pensava Masina. Tanta fatica per niente, ma il gioco
l’aveva divertita. Avrebbe giocato
ancora, se avesse potuto. E se la posta in palio fosse stata un altro bacio,
tanto di guadagnato
-Spiegatemi almeno come...
-Nessun
uomo che io conosca si depila le sopracciglia. E i fori nei lobi delle orecchie
li hanno soltanto i marinai, gli zingari, i poco di buono e le donne, non certo
i ragazzini di buona famiglia.
-C’è
dell’altro?
-Un vero
uomo si farebbe spellare, piuttosto che ammettere d’aver paura di un gatto.
Gli occhi
erano intensi, il sorriso ironico. Non correva pericoli, ma ci aveva guadagnato
il ridicolo, pensava Masina. Sicuramente, Javier doveva essersi domandato il
perché, dal primo momento in cui era riuscito a smascherare il suo inganno. Ed
era abbastanza intelligente da arrivare a capirlo da solo: le signore perbene,
a Nuova Orleans, non lo cercavano alla luce del sole, un uomo come lui, un poco
di buono con la pelle scura e gli orecchini, ma terribilmente attraente: non
doveva essere la prima volta che gli capitava. Ma lei aveva un vantaggio su
quelle gentildonne di cui non aveva mai invidiato la sorte: quello di essere
padrona della sua vita e di non avere una reputazione da difendere.
-Posso
farvela io una domanda, Madame?
Poteva
chiederle due cose soltanto: perché, o il suo nome. Non l’aveva riconosciuta.
-Il mio
nome è Masina. O Luna, se preferite.
-Luna
Valmarin? La Zerlina del “Don Giovanni”?
-Siete
venuto a sentirmi...E non mi avete riconosciuta.
-Non
prendetela come una scortesia, Madame. I negri non possono sedere in platea, e
anche se ho una vista molto buona , da una distanza del genere non avrei potuto
riconoscere neppure mia madre. In ogni caso, cantate molto bene.
-Grazie.
Non credevo che amaste la musica.
-Si vede
che siete nuova di questa città: tutti quelli come me amano la musica.
Doveva
passarne ancora parecchia, di acqua sotto i ponti, prima che potesse capirla,
una città come Nuova Orleans. In un anno che le era stato dato da trascorrerci,
sicuramente avrebbe combinato poco. Ma un uomo come Javier Almeida, la Pantera,
non lo avrebbe dimenticato, questo era sicuro.
-Adesso
vorrei porvi un’altra domanda, Masina: mi fareste la cortesia di spiegarmi
perché?
-Perché
l’ho fatto? La curiosità è donna, dalle mie parti come dalle vostre...Javier.
Volevo vedere la vostra faccia senza quella maschera d’oro falso che portavate l’ultima sera di Carnevale.
-Ecco dove vi ho vista...Siete quella dama straniera che era stata borseggiata da un ragazzino travestito da diavolo, la notte di Martedì Grasso. Dentro la borsa tenevate gli spiccioli per la carrozza. Una bella borsettina me la ricordo bene: seta viola, e maglia d’argento. Non fosse perché portavo i guanti, me la sarei ricordata anche meglio: il contatto con l’argento mi scatena una terribile allergia, come a qualcuno le fragole, il pelo dei gatti o i gusci dei gamberi.
Mai
sentita un’assurdità del genere. Forse Javier Almeida, la Pantera, spadaccino e
stregone, aveva voglia di scherzare, come un bambino discolo . E proprio a
quelli di un bambino facevano pensare i suoi occhi dalle lunghe ciglia, la
bocca carnosa e imbronciata, il profilo delicato e quel suo ridere di gusto
gettando la testa all’indietro e scoprendo i denti fino ai molari.
-Beh, se
la verità volete ascoltarvela tutta, vi dirò che, appena vi ho vista, nel buio
dell’androne, vi ho presa sul serio per un ragazzino maleducato. Certo, se solo
avessi immaginato che eravate una donna...Sono mortificato, credetemi. Ma sono
ancora in tempo per rimediare.
Le
carezzava le guance, con piccoli gesti
lenti e delicati delle sue lunghe dita. Le sbottonò quindi la camicia, e le
scoprì la spalla. Lei sentì le sue labbra calde, sopra il livido dolorante, il
tocco morbido e umido della sua lingua, e il dolore che svaniva.
-Il tuo
pudore, Masina... Come avresti potuto ingannarmi? E il modo in cui mi guardavi.
Una donna non guarda un uomo come lo guarderebbe un altro uomo.
Mi hai fraintesa, Javier. Forse farei bene a prenderti a schiaffi. Adesso mi credi quella che non sono, e c’è luce, qui dentro. Sono una cantante, non una...Sei un mago per davvero? E perché ti chiamano la Pantera? Quanti anni hai? Mi sembri molto giovane. Più di me. Non...Non sta bene che io e te...
Non sentiva più dolore. E il desiderio di prenderlo a schiaffi si era disciolto in un’ondata di piacere mai provata prima. Gli posò le mani sul petto: era solido, muscoloso, la pelle morbida appena spruzzata di pelo scuro. E senza nessuna traccia del segno sanguinante con cui lei l’aveva scalfito, prima di rendersi conto d’impugnare un’arma vera. Come se fossero trascorsi almeno cinque o sei giorni da quel momento, invece che un quarto d’ora soltanto.
Capitolo
ottavo
-Scacco matto, De Conteneau.
Abile con
gli scacchi altrettanto che con la spada e con la pistola. E quanto doveva
esserlo con le donne, a guardarlo, bello come un angelo e agile e forte come
una pantera. Non gli era mai riuscito di batterlo, pensava il Marchese,
nonostante scegliesse sempre, di proposito e per chissà quale misteriosa
ragione, lo svantaggio del nero. Torre nera. Cavallo nero. Re nero. Come lui.
-Volete la rivincita?
-Un’altra
volta. Magari quando sarò diventato abbastanza bravo da umiliarvi, Almeida.
Ma non
c’era scherno, né invidia, e neppure rabbia, nelle parole del Marchese.
Rispetto, questo sì. E curiosità. Era diverso dai suoi congeneri, Javier
Almeida. Diverso dai braccianti che sfacchinavano come bestie nelle proprietà
dei latifondisti bianchi, e che tremavano come cani di fronte ai sorveglianti
armati di frusta. Un Re Nero dal profilo nobile e dagli occhi acuti, nei
quali la luce sembrava sprofondasse,
frantumandosi in una miriade di bagliori dorati. Nero e oro: il nero degli
abiti, degli occhi, della capigliatura divisa in lunghe trecce come tanti
serpenti. L’oro dei gioielli che gli luccicavano alle orecchie e alla narice. E
di quei bagliori improvvisi che, al calare delle ombre, sembravano
scintillargli dentro gli occhi. Chissà da dove veniva. In proposito, se ne
dicevano tante: che fosse figlio di una donna di colore libera, sicuramente una
prostituta, e di qualche marinaio arrivato chissà da dove. Che fosse cresciuto
in un rione malfamato, il peggiore della città, che tutti quanti chiamavano “la
Fogna”: un posto dove l’acqua lambiva la strada, c’era sempre puzza di marcio,
e i topi erano molto più grossi dei gatti.
O addirittura che fosse il frutto dell’amore proibito di una gentildonna bianca
per il suo schiavo, e anche questo
poteva essere verità. Ma ogni volta che
aveva tentato di chiederglielo, il Marchese aveva ricevuto in cambio solo
risposte evasive. Sono un uomo libero. Come dire, ti basti questo, il resto non
è affar tuo. Forse era davvero quel che gli era stato detto, uno stregone.
-Mano
alle spade, Almeida?
-E sia.
Aveva i
modi di un gentiluomo, non di chi sia cresciuto tra marinai ubriachi e puttane
da quattro soldi in un posto dove i bambini sono pieni di moccio e croste e i
topi molto più grossi dei gatti. E la grazia selvaggia di quelli del suo
sangue. Chissà dove aveva imparato a tirare di scherma: di certo, nel suo campo
nessuno lo batteva, nemmeno Bastille Croquere, il meticcio.
-Già
stanco?
-Ho dieci
anni in più di voi, Almeida.
Trentacinque anni. Quasi trentasei, contro i venticinque che quell’altro
doveva avere, a guardarlo. Passa, il tempo.
E in vita mia non sono riuscito a combinare quasi niente. Mia madre
insiste, povera donna, perché mi decida a prender moglie. La signorina Lemoine.
La figliola del conte De Neuzieres. La signorina d’Amboise... E’ ora di mettere
la testa a partito. Di piantarla con la bella vita. Le avrebbe dato ascolto,
prima o poi. Sposato o scapolo, tanto, la sua vita non sarebbe cambiata di una
virgola.
Javier
Almeida s’era sfilato dalla testa la camicia sudata. Aveva un fisico perfetto,
grossi muscoli e neppure mezza oncia di grasso sullo stomaco e sui fianchi. Ma
non era la prima volta, si disse, che ammirava un corpo del genere in un
giovane negro. Hanno corpi splendidi, accidenti a loro. Forse era vero quel che
si diceva, parecchie supposte dame di qualità, a Nuova Orleans, andavano a letto
con i loro schiavi. Lo avrebbe fatto anche la signorina Lemoine, avendone
l’occasione. O la figlia del conte De Neuzieres. O mademoiselle D’Amboise.
Chissà quante rispettabili signore bianche, in città, sapevano descrivere con
esattezza l’aspetto e la collocazione d’un paio di tatuaggi e altrettante
cicatrici che deturpavano la lucida pelle bruna di Javier Almeida, la Pantera.
Le donne sono tutte quante puttane, diceva qualcuno. O forse no, forse
somigliano alle rose, gli avevano insegnato. E lui diffidava dalle rose, perché
erano piene di spine. Prenditi una brava ragazza, modesta, timida e perbene, di
quelle che non alzano gli occhi né la voce... Siete ingenua, madre mia. Non
esistono ragazze perbene, e non è la modestia a far tenere loro gli occhi bassi.
Neppure la timidezza. Ci credereste? E’
il desiderio di sbirciare la patta dei calzoni di un uomo. Ma non avrebbe mai
parlato così a sua madre, e una donna, una rosa piena di spine, se la sarebbe
presa, prima o poi: mademoiselle D’Amboise; o Mademoiselle Lemoine; o la
contessina De Neuzieres. A casaccio, tanto una valeva l’altra. Avrebbe chiesto
la sua mano, le avrebbe infilato al dito l’anello di famiglia, mentre il futuro
suocero sorrideva compiaciuto e la moglie s’asciugava una lacrima col
fazzolettino di bisso. E di lì a un paio di mesi, la città li avrebbe
festeggiati, all’uscita della cattedrale di Saint Louis, finalmente sposi.
Peccato che né la contessina De Neuzieres, né Mademoiselle D’Amboise, né
mademoiselle Lemoine valessero l’unghia del dito mignolo di Meg la Rossa, del
casino di Madame Edmée, il più lussuoso e rinomato della Rue Dumaine, con le
tende di velluto marezzato, gli stucchi sui soffitti, i migliori tavoli da
gioco della città e puttane di tutti i colori e per tutti i gusti. Catherine
D’Amboise era la più giovane, solo sedici anni. Bella dote e brutta faccia
grossolana e paffuta, con le pustoline sulla fronte e sul mento, ignara di
tutto come può esserlo una mocciosa appena uscita dal convento delle monache.
Della contessina De Neuzieres si diceva che avesse caviglie grosse e pelose,
mentre la signorina Lemoine era una zitella inacidita di ventotto anni che,
fosse dipeso da lei invece che da suo padre, si sarebbe fatta suora e sarebbe
stato meglio per tutti. Al diavolo, una valeva l’altra. Ricche, erano ricche
tutte e tre, contava quello. Il tabacco rende, ma impoverisce maledettamente il
terreno su cui cresce. La terra costa. Gli schiavi costano. E i vizi costano:
perché non sarebbe stato certo un anello al dito a impedire al Marchese De
Conteneau di fare quel che aveva sempre fatto.
Chissà se
aveva una donna da qualche parte, Javier Almeida. Pettegolezzi in proposito ne
aveva sentiti tanti. In ogni caso, non viveva con lui. Con lui ci stavano
invece un’intera tribù di gatti tutti neri e un vecchio servitore dall’occhio
guasto, al quale lui si rivolgeva in gombo, il francese bastardo e quasi
incomprensibile dei negri di Nuova Orleans e che, un po’ per l’età, un po’ per
chissà che d’altro, non faceva niente tutto il santo giorno: diversamente,
avrebbe cacciato dal cortile quei fetidi animali e strappato via le erbacce che
lo infestavano, rigogliose come una giungla anche durante la brutta stagione.
L’inverno
era stato duro, quell’anno. Le acque del Bayou * St. Jean,
appena fuori dalla città, si erano ghiacciate. Il freddo avrebbe finito col
danneggiare le delicate piantine di tabacco. Gli schiavi si sarebbero ammalati,
qualche capo sarebbe andato perduto, era inevitabile, perché il freddo non si
confaceva ai negri. Chi sembrava non patirlo affatto era Javier Almeida, la
Pantera, ma quello era strano. L’aveva visto con i suoi occhi sciacquarsi via
il sudore tirandosi addosso secchiate d’acqua con uno strato brinoso sopra,
girare per quella casa piena di spifferi gelidi dove stava a torso nudo come se
fosse estate. Curioso, tutti i neri che aveva conosciuto in vita sua d’inverno
non facevano che lamentarsi, e menomale che durava poco. Ma lui era diverso.
Era strano. E che non patisse il freddo era solo una delle tante sue stranezze.
Quando si batteva, non portava mai né la maschera né il giustacuore di cuoio.
Eppure i brutti incidenti capitavano anche in allenamento, e anche agli
spadaccini abili come lui. L’erede del duca di Marsaillach, una delle più
temibili lame di tutta la Louisiana, non si era forse fatto ammazzare da un
qualsiasi sprovveduto che in allenamento, per caso o per sfortuna, era finito
sotto la sua guardia e gli aveva cacciato quindici centimetri d’acciaio nel petto scoperto? A lui era
andata sempre decisamente meglio, e più di qualche graffio non aveva mai
rimediato. E lo strano era che, di lì a un paio d’ore, di quei graffi non gli
restava nemmeno la crosta. Ma era un mago, dicevano, forse conosceva qualche
intruglio a base di erbe capace di cicatrizzare con rapidità le piccole ferite.
Invece, il semplice contatto con una moneta o con un bottone d’argento gli
provocava insopportabili sofferenze. “Una brutta allergia. Del resto, conosco
uomini grandi e grossi che tossiscono e starnutiscono se solo un gatto gli
passa vicino”: si giustificava così, quando capitava, con quel suo francese
perfetto, ammorbidito dal sensuale accento spagnolo, e il suo bel sorriso. Già.
Io stesso, pensava il Marchese, mi gratto per tre giorni se cedo alla
tentazione di assaggiare una fragola. E i fiori provocano a mia madre e a mia
sorella interminabili crisi di starnuti. Aveva conosciuto persone che non
tolleravano il contatto con la lana, che non potevano bere latte o mangiare
gamberi. Niente di strano, non lo avesse visto con i suoi occhi rovistare a
mani nude in mezzo a un cespo di ortiche ostentando la più completa delle
indifferenze.
Un
gentiluomo dev’essere sempre pronto a difendere l’onore con le armi in pugno e
il Marchese, nei suoi trentacinque anni di vita, era rimasto coinvolto in diversi
duelli, nessuno dei quali all’ultimo sangue, ma quello era un dettaglio. Ottima
lama ed eccellente tiratore, era solito mantenersi in allenamento fin dalla
prima adolescenza, perché non aveva mai creduto che riportare a casa la
pellaccia dopo un duello potesse essere semplicemente una questione di fortuna:
più che sfortunati, i molti sconfitti le cui carcasse ingrassavano i vermi nel
cimitero di Saint Louis, bisognava chiamarli gradassi, imbecilli o incapaci.
L’unico sistema che un gentiluomo provveduto avesse a disposizione per evitare
di mettere a repentaglio la sua vita e il suo onore, era quello di mantenersi
costantemente allenato e di farsi seguire da un maestro che ci sapesse fare per
davvero. Come Javier Almeida, la Pantera. Da uno capace di combattere anche a
mani nude e di usare il coltello senza vergognarsene, e che non avesse per la
testa le fisime dei maestri francesi, con le loro regole dei tempi in cui Berta
filava. Perché non era più il tempo dei tornei cavallereschi e di certe regole quei
cafoni degli americani, che ormai
avevano infestato la città, se ne infischiavano. Com’era capitato a De
Marigny,** il gentiluomo più irascibile del Vieux Carré, quando aveva commesso
l’imprudenza di sfidare a duello, per una questione di baldracche e di soldi
persi alle carte, un orso calato dal
Kentucky. “A voi la scelta delle armi”; il bestione aveva optato per le clave,
alla maniera irlandese, immersi in un metro e mezzo d’acqua del Bayou St.Jean,
e De Marigny era alto solo un metro e settanta... Accomodare pacificamente la
questione senza che l’onore ne risultasse compromesso non era stato facile:
meglio premunirsi.
Aveva
sempre saputo che Javier Almeida era un negro, ma la faccenda non gli creava
problemi. Bravo, questo sì. Forse un po’ troppo giovane, però, per essere
davvero esperto. E vanitoso come una donna, con quell’acconciatura a trecce che
doveva richiedere parecchie ore di lavoro e quel curioso gioiello che gli
luccicava alla narice. Ma quando si batteva, facendo mulinare la sua spada come
un fuscello e i capelli gli sciabolavano intorno alla faccia era uno
spettacolo. E poi conosceva i colpi proibiti della lotta e del pugilato, il
taglio della mano che va a colpire il collo spezzando la carotide, il pugno
vibrato di forza sopra il plesso solare, l’indice puntato che penetra dentro
l’occhio e finisce nel cervello.
Un
autentico diavolo, con la spada in pugno. O la statua di san Michele che si
fosse all’improvviso animata e tinta di nero. Non ci sarebbe stato duello che
non avesse vinto, con la potenza dei suoi polmoni e l’agilità delle sue gambe.
Noi schermidori siamo anche ballerini, diceva sempre. Era uno stregone, così
gli avevano riferito. E non c’era, in tutta la città, un uomo che potesse
eguagliare la sua perfezione: una bellezza che non era solo prestanza fisica o
regolarità di lineamenti. Una bellezza eccitante come la polvere di cantaride,
soggiogante come la sua magia.
Una sera
l’aveva portato al casino con lui, da Madame Edmée. E Javier Almeida, la
Pantera, aveva accennato a un sorriso, come dire lo so che i negri lì dentro
non li fanno entrare. Ma il Marchese era convinto del contrario. “Pecunia
non olent”***, aveva detto quel certo imperatore romano (Nerone? Tito?
Vespasiano? Con la storia antica non era mai andato troppo d’accordo) e i soldi
non puzzavano nemmeno per la vecchia Edmée dalla parrucca gialla e dalle dita
adunche stracariche di ori e
pietre rigorosamente autentici.
Specialmente se il negro in questione ce l’avesse portato lui, cliente abituale
ed affezionato, e avesse pagato tariffa doppia perché potesse godersi la più
bella puttana bianca della casa: Meg, di sangue irlandese, che aveva capelli
rosso fuoco e una pelle perfetta, senza neanche l’ombra di una lentiggine o di
un pelo superfluo che la deturpassero.
Tariffa
doppia. Per il solito, significava una prestazione particolare o quantomeno un
cliente sgradevole per età, aspetto, abitudini, pulizia della persona: gli
imprevisti che Meg, come tutte quelle del suo mestiere, aveva imparato ad
accettare con fatalistica rassegnazione. Ma un negro no. Aveva imprecato come
un carrettiere, e Madame Edmée era stata costretta ad usare gli schiaffi. Dopo, però, lei era stata felice di
rotolarsi nel letto con l’uomo più bello di Nuova Orleans e, attraverso uno specchio
cieco, il Marchese si era potuto godere uno spettacolo quantomai eccitante.
“Portatemelo ancora”. Ma non c’erano state altre volte.
Se ne stava accoccolato sul pancaccio, le ginocchia divaricate, l’acqua fredda che gli sgocciolava giù per i capelli intrecciati e gli bagnava il petto e le braccia. Era impassibile, nonostante lì dentro ci facesse un freddo cane. Aveva una splendida pelle del colore del bronzo, liscia e compatta, segnata sul polso destro, sulla spalla e intorno al muscolo bicipite da alcuni bizzarri tatuaggi. Sul fianco, a filo con l’orlo dei calzoni, gli s’intravedeva di ciò che restava dei bordi di una ferita di quelle che, per il solito, dovrebbero spedire dritti dritti all’altro mondo. Un incidente? Il ricordo di una rissa, di un marito geloso, di un bianco che aveva voluto insegnargli con le dovute maniere quale fosse il suo posto? E perché non l’aveva ammazzato, un colpo del genere? Ma Javier Almeida, la pantera, era reticente a raccontare di sé. “Roba vecchia”, diceva con un tono che non ammetteva repliche. “Roba vecchia”. E anche il Marchese De Conteneau doveva accontentarsi di quella spiegazione.
* Acquitrino
**Sia il personaggio che l’aneddoto attribuitogli sono
autentici.
***” I soldi non puzzano”.La frase è attribuita all’imperatore
Vespasiano, quando promulgò un editto col quale si tassava l’uso dei gabinetti
pubblici, suscitando lo scandalo del principe ereditario Tito e di qualche
senatore schizzinoso.
Capitolo
nono
A domani,
De Conteneau. Saldava i conti alla svelta e senza fare troppe storie, il
Marchese, diversamente da parecchi altri bellimbusti che andavano da lui per
allenarsi nell’uso delle armi. E lo
trattava con rispetto, molto diversamente da come, per il solito, un bianco
trattava un nero, schiavo o libero che fosse, a Nuova Orleans. E accettava
senza adombrarsene la sua scarsa deferenza. De Conteneau. Non Signore, e
neppure Marchese. Nessuno sapeva da dove venisse, ma certo non era il tipo da
umiliarsi dinnanzi a chicchessia. Del resto, se quella fosse stata la Francia e
il tempo si fosse fermato a venticinque anni prima, Javier sarebbe stato il
più acceso, fanatico e intransigente
dei rivoluzionari,e quell’altro l’avrebbe rischiata, la sua grossa testa dalla folta
capigliatura e dal profilo di caprone.
-A
domani, Almeida.
Tre monete d’oro, sul pancaccio, accanto alla sua spada col segno dell’eclissi inciso sul guardamano e alla sua camicia fradicia di sudore e d’acqua fredda. Sollecito nei pagamenti, molto corretto. Una mia parola e salverà la testa. E’ un amico, anche se il sangue che gli scorre dentro le vene è nobile. E’un mio amico, non rappresenta un pericolo per la causa. E l’avrebbe salvata perdavvero, quella grossa testa di becco che si ritrovava. No, il presente non era il passato, e non era tempo di sogni. Il marchese pagava con puntualità il dovuto ed era sempre gentile ed affabile, quando gli diceva di lui o, addirittura, quando arrivava a portarselo appresso nei posti dove, di solito, i negri non li facevano entrare. Doveva invidiare la sua bellezza, o forse provava per lui un desiderio che andava contronatura. Erano in tanti quelli così, anche se per il solito preferivano nasconderlo. Certo, poteva essere che fosse un invertito, malgrado gli avesse confidato che si sarebbe sposato presto, e che la sua fidanzata era Mademoiselle D’Amboise. Ha solo sedici anni, gli aveva detto. Ma più sono giovani meglio è. No, non era un invertito, le donne gli piacevano eccome. Le puttane più delle signore, ma in quella città, forse anche altrove, nei matrimoni tra ricchi e potenti, l’amore e l’attrazione non erano che dettagli del tutto trascurabili e le signore, nella maggior parte dei casi creature anemiche, scialbe e bigotte, non erano tali da indurre in pensieri peccaminosi. Ma che poteva importarne, a lui, un negro, se non importava niente al Marchese e a quelli della sua specie? Forse avrebbe potuto definirlo un amico, se avesse creduto nell’amicizia, pensava guardandolo allontanarsi, avvolto nel lungo mantello, il bastone in mano e il cilindro sulla testa, mentre la nebbia fredda della sera lo inghiottiva.
Capitolo decimo
-Hai sbagliato, e adesso paghi pegno,
Valentine.
Non le
capitava quasi mai, era agile, e le sue gambe lunghe abbastanza da consentirle
di saltare come una cavalletta, senza che i piedi sfiorassero le strisce
segnate col gesso sull’acciottolato del cortile. Sbagliare era brutto. Era
umiliante. Specialmente quando non si sbaglia mai, anche se si sta solo
giocando alla campana, come tutti i bambini di questo mondo. Specialmente
davanti a un pubblico di mocciose di sette, otto anni, che hanno sempre
guardato a te, signorina di undici, con un misto d’ammirazione e di deferenza,
ma che non saranno più le stesse, quando si renderanno conto che anche tu sbagli, che non sei
infallibile: ti prenderanno in giro. Odierai quando rideranno di te, e farai
fatica a dimenticare.
-Paghi
pegno, paghi pegno, paghi pegno!
Insistevano, Tite con le sue treccine ispide come fil di ferro e la
faccia nera, Annette dai grandi occhi globosi, Lise dai denti sporgenti come
quelli di un coniglio.
-Paghi
pegno, paghi pegno...
-Torno a
casa. Ho freddo, e non mi sento bene.
Scuse,
invenzioni di comodo per non pagare pegno, lei che rideva sempre quando a
pagare pegno erano le altre, Lise, Annette, Tite. La cavalletta non era più
quella di prima e le seccava ammetterlo.
«Non hai
più l’età per certe scemenze», avrebbe sentenziato zia Celeste. Già, zia
Celeste l’avrebbe voluta sempre dentro casa per aiutarla a piegare e a stirare
le camicie e ascoltarla brontolare: con tutti gli schiavi che c’erano, il
lavoro per i negri liberi scarseggiava, i soldi non bastavano, il padrone di
casa aveva deciso d’aumentare la pigione, lei stava crescendo a vista d’occhio,
la sottana le si era accorciata da rasentare l’indecenza e presto avrebbe
avuto bisogno d’un paio di scarpe nuove, Dio, quanto costa mantenere
una ragazzina di undici anni... Brontolava sempre, zia Celeste, sembrava che il
Padreterno l’avesse collocata nel mondo esclusivamente per quello. Forse perché era brutta, o perché era sola. Le
donne brutte e sole finiscono col diventare acide come limoni, chissà perché.
Io non farò la fine di zia Celeste. Non resterò zitella. A sedici anni mi
sposerò, con un uomo bello...Bello come monsieur Almeida, il maestro d’armi.
«E io ti
impedirò di fare una fesseria del genere, dovessi chiuderti nello sgabuzzino e
buttare via la chiave. Che ti sei messa in testa, di fare la stessa fine di tua
madre?»
Sua
madre. di lei non sapeva niente che non fosse quanto le aveva detto zia
Celeste. Era molto bella. Di sicuro non
le rassomigliava, anche se erano sorelle: non era nata col piede girato in
fuori e rattrappito, lei, né, bambina, si era ammalata del vaiolo che a zia
Celeste aveva risparmiato la vita per miracolo e rovinato tutta quanta la
pelle.
«Tu non
lo sposerai, un sudicio negro. Tu diventerai la plaçée di un signore bianco,
che lo voglia o no. Non farai di sicuro la fine di quella stupida di tua madre,
Dio l’abbia in gloria, perché io te lo impedirò in tutti i modi.»
Una sera
in cui aveva voglia di parlare, mentre si scaldava davanti alla stufa le mani
sformate dai geloni, le aveva raccontato chi erano i Louvois. «Gente di colore
libera, cristiana e rispettabile. Niente a che spartire con la marmaglia che,
la domenica, va a ballare in Place Congo e crede nella magia». E Valentine
aveva appreso che suo nonno era un bianco, «un musicista con la testa piena di
sogni e le tasche vuote, un bel ragazzo
che aveva messo su famiglia con una ottavo sangue». Dall’unione erano nate sua
madre e zia Celeste, che avevano nelle vene un sedicesimo soltanto di sangue
negro e sembravano, in tutto e per tutto, due bianche. Lei, nata storpia e
devastata in seguito dal vaiolo no, ma sua sorella Mireille era stata bellissima. «Bella come te, ma molto
più chiara. Avrebbe potuto fare grandi cose, nella vita, se solo fosse stata un po’ meno stupida». A
sedici anni, invece di approfittare del suo fascino per irretire un signore bianco e accasarsi con lui,
Mireille Luovois aveva sposato uno schiavo affrancato, un taglialegna che aveva il doppio dei suoi anni, era nero
come il carbone, e l’aveva portata a vivere in mezzo ai boschi come una
selvaggia, lei che avrebbe potuto avere una comoda e bella casa nella zona dei
Bastioni, denaro abiti e gioielli. E quando lui era morto, ucciso dal tronco
che gli era rovinato addosso, la sua donna non gli era sopravvissuta che un
paio di mesi. In eredità a Celeste Louvois era toccato l’unico tesoro che
Mireille avesse mai posseduto: una bambola dalle guance paffute e dagli
occhi grandi, bella come sua madre ma che aveva disgraziatamente ereditato dal
padre africano la pelle scura e i capelli crespi.
-Ti stai
facendo bella. Prima o poi, un signore bianco se ne accorgerà, e farà di te la
sua donna. Vivrai come una principessa, e mi ringrazierai.
La
obbligava a lavarsi con strani intrugli che le avrebbero schiarito la pelle e
ammorbidito i capelli, e le ripeteva continuamente che si stava facendo bella,
ma a lei non sembrava proprio. Anzi, il suo corpo che cambiava la imbarazzava.
E la tradiva, quando giocava con le altre, sperando d’ essere agile come era sempre stata, di
vincere ancora. Ma la zia continuava a non capirla e a parlarle di
matrimoni che non erano matrimoni con ricchi signori bianchi come quelli che
Monsieur Almeida allenava a battersi con la spada e d’ un vestito di seta color pastello che le avrebbe cucito quando,
di lì a qualche anno, avrebbe
partecipato al Ballo delle Quarterone* e tutta la città avrebbe potuto
vedere quanto si fosse fatta bella.
-Buona
sera, piccola.
Lo
incontrava nell’andito quasi tutti i giorni, il gentiluomo bianco dai capelli
arruffati e dalla cicatrice che gli spaccava il sopracciglio. Un paio di volte,
le aveva regalato alcune zollette di zucchero d’orzo, ma di solito si limitava
a sorriderle e ad accarezzarle i capelli. Se tutti i signori bianchi erano come
quello, come faceva zia Celeste a parlarne con tanto entusiasmo? A lei quel
tizio non piaceva per niente, meglio Monsieur Almeida, che era nero come lei e
non la guardava in quel modo, come se... Come chissà, ma non le piaceva
proprio.
Salì piano le scale. Non si sentiva affatto bene, era come quando le pigliava la febbre. Le stava venendo mal di pancia, come se avesse mangiato troppi dolci. Eppoi le fitte: al basso ventre, ai reni. Un’altra, e un’altra ancora. Qualche goccia di sangue scuro, proprio tra i piedi. Il momento di cui le aveva detto zia Celeste era arrivato. Era una donna, adesso. Avrebbe sanguinato tutti i mesi. Non sarebbe più stato tempo di giochi; prima di uscire, avrebbe dovuto nascondere i capelli sotto il fazzoletto. Gli uomini l’avrebbero guardata... Un groppo le chiuse la gola, e scoppiò a piangere.
*Meticcie.
Capitolo undicesimo
L’aveva
guardata furtivo arrampicarsi svelta per la scala, una bella bambina che aveva
la carnagione del colore di un dattero maturo e qualche ricciolo fitto, nero
come l’inchiostro, che scappava fuori dal fazzolettone giallo legato dietro la
nuca. Era già una donna, si ritrovò a pensare De Conteneau, altrimenti avrebbe
potuto continuare ad andare a testa nuda, come l’ultima volta che l’aveva
vista, quando aveva riportato a Javier Almeida le sue camicie lavate e stirate.
Gli aveva chiesto se fosse la sua schiava, e s’era adombrato, lui, a sentire
quelle parole. Non fosse stato quello che era, forse lo avrebbe preso a
schiaffi. O sfidato a duello.
-E’ la
nipote della mia casigliana. Stanno al piano di sopra. Portano la mia roba
sporca al lavatoio, me la stirano e quando non ne ho voglia di farlo io, mi
preparano il pranzo. Le pago, non sono schiave.
Non ho
detto niente che non vada Almeida. Solo, ti avrei invidiato, fosse stata la tua
schiavetta. E’ molto bella, né bambina né donna. E, senza dubbio, è affascinata
da te. E’ a quell’età che si comincia a sognare l’amore. Ma avevano cambiato
discorso prima che potesse dirglielo, per disgrazia o per fortuna. Le aveva
dovute lavare e stirare la bambina, le
camicie di seta di Javier Almeida. A zia Celeste fa male la gamba malata. Le fa
sempre male quando cambia il tempo. Scusatemi se non sono venute bene come
quando ve le stira lei.
Una donna
bisbetica, zia Celeste. Bisbetica come una vecchia, a poco più di trent’anni,
ma c’era da capirla , nelle condizioni in cui si trovava, storpia, sciancata,
zitella e con una nipotina orfana da tirare su.
-Tieni,
piccola: è un unguento per massaggi, roba che viene da Place Congo. Fa
miracoli. E non farti problemi con me, capito?
-C’è
qualche piega, ma non ho bruciato niente..
-Ho detto
di non farti problemi, Valentine. Manda i miei saluti a tua zia e dille che, se
vuole che le massaggi il piede...
No, non
si sarebbe mai fatta toccare neppure i piedi da un uomo simile, Celeste
Louvois, da uno stregone che, la domenica, danzava a petto nudo in Place Congo,
insieme con gli schiavi deportati di recente dall’Africa. Lei era una persona
perbene, una buona cattolica e detestava tutto ciò che proveniva da un posto
come quello, covo di fattucchiere e di magia. Faceva male, pensava De
Conteneau: nelle mani di Javier Almeida c’erano virtù da guaritore, lui stesso
le aveva provate. Forse aveva paura più di se stessa che di quell’uomo bello e
misterioso, con l’anello al naso e la luna tatuata sui polsi, Celeste Louvois.
-Tua
zia...Sta bene, adesso?
Un
accenno di assenso rapido e breve, senza guardarlo dentro gli occhi, come se si
vergognasse di lui. Aveva solo undici
anni, e il tocco delle sue dita sopra le guance l’avrebbe fatta arrossire, se fosse stata bianca,
pensava De Conteneau. Ma non era più una bambina, come l’ultima volta che
l’aveva vista. L’avrebbe conosciuto presto, l’amore, come tutte quelle della
sua razza.
Capitolo dodicesimo
Un
gioiello per un bacio. A quanto chiederai il saldo del mio debito? Sei stato
scortese, caro Signor Sconosciuto. Almeno il tuo biglietto da visita, in mezzo
a tutte quelle belle arance rosse e perfettamente uguali tra di loro avresti dovuto infilarcelo. Ma è
come se ti conoscessi, lo sai? Uno dei tanti, uno che porta camicie di seta e
che odora di tabacco, olio di Macassar e cuoio di sella. Uno che frequenta il
Teatro dell’Opera ed è convinto che una cantante si possa comprare in cambio
d’un cesto di arance e d’un ciondolo di smalto appeso ad una catena d’oro. Non
sei andato lontano dalla verità, Signor Sconosciuto.
Masina
sorrise, rigirandosi il ciondolo tra le mani: un oggetto di buon gusto,
sicuramente prezioso. Tre diamanti, e neanche piccoli, incastonati sul
coperchio. Sul retro, il punzone della gioielleria Niverdoux. Dentro... Esitava
a far scattare il piccolo coperchio, quasi che temesse la rivelazione di un
segreto che doveva restare tale. Eppure, non era la prima volta che le
capitava. Capita a tutte le artiste che calcano le scene. Possono essere mele o
arance, di solito sono rose, viole, orchidee. I fiori seccano e si buttano via,
l’oro no, l’oro è eterno. Ed è prezioso.
Sei
ricco, Signor Sconosciuto. Un ricco vecchio dalla bocca sdentata e le mani che
tremano. Un vecchio ricco e brutto che non può avere una donna a meno di
comprarla con i bagliori dell’oro e dei
diamanti, un vecchio che non dormirà, questa notte, pensando al suo ciondolo
posato sopra il grosso seno bianco di una donna giovane e attraente, di una
cantante che si esibisce sul palcoscenico e che chiunque potrebbe comprare,
quasi fosse un terreno, una cavalla o una schiava. Non è il primo che vedo né
l’ultimo che mi capiterà di vedere. Ho scrigni pieni di gioielli: bracciali,
collane, diademi. Ricordi d’amore che non era amore (ti eri illuso di essere
l’unico?) né ha mai preteso di esserlo. Quando sarò vecchia e povera, li
venderò tutti quanti per comprarmi da mangiare, o magari non ne avrò bisogno, e
allora li offrirò alla Madonna della Pietà per salvarmi l’anima dall’inferno.
Comunque grazie, Signor Sconosciuto. Grazie del gioiello e anche delle arance:
non mi è capitato molto spesso di mangiarne così buone.
Masina s’allacciò il gioiello al
collo, rigirò il pendente fra le mani. Esitava a far scattare il minuscolo
coperchio, che poteva nascondere qualsiasi cosa: la miniatura di un amorino,
d’un viso sognante di fanciulla. Una Madonna o una croce. O un amuleto contro
la malasorte. Un ricciolo di capelli morti e polverosi, la reliquia di un santo
o di qualcuno che era stato inghiottito dal nulla, un anno, dieci, cento anni
prima. Un frammento d’osso, o qualcosa di peggio. Avrebbe vomitato, se avesse
visto roba del genere, ne era sicura.
La luna,
nell’azzurro pieno e metallico della smaltatura. La luna sul sole. Luna, come
me. Un pensiero gentile. Sorrise. Non poteva essere altri che lui, l’autore di
quell’omaggio: la miniatura all’interno del ciondolo era identica ai tatuaggi
sopra i suoi polsi. E c’erano le sue iniziali, incise di lato: J A. Javier
Almeida.
Ti sei illuso di essere l’unico? Non hai sbagliato, Javier Almeida. Quasi non ti conosco, ma quello che sento per te non l’ho sentito mai per nessuno. Quando George, Andrea e tutti quanti gli altri sono usciti dalla mia vita, non ho provato niente di niente. Eppure George ha preferito un’altra, e Andrea me l’hanno ammazzato. Ma quando sarà a te che dovrò dire addio, sarà come morire, lo so. Finirà, perché non c’è niente che non finisca, e... Vorrei un figlio tuo, Javier. Mi dirai che sono pazza. Che nessuno me lo perdonerebbe. Ma io affronterei anche i diavoli dell’inferno, per te: e questo è amore.
Capitolo tredicesimo
Era
amore, non potevano esserci dubbi. Lo avrebbe cercato, glielo avrebbe detto. E
si sarebbe preparata al loro incontro facendosi bella, questa volta non si
sarebbe nascosta dietro un ridicolo travestimento per sembrare quello che non
era, per nascondere a se stessa e agli altri ciò che sentiva e che non aveva
sentito mai. Dopo aver vissuto la sua vita sino in fondo, senza negarsi niente.
A trentatré anni: lui ne aveva sì e no venticinque.
In
carrozza, Masina non faceva che gingillarsi col ciondolo d’oro e di smalto che
lui le aveva regalato. Doveva essergli costato una fortuna, almeno, fatte le
debite proporzioni con quello che era: già, chi era? Un mago, uno stregone?
Semplicemente un negro libero, uno dei tanti, uno con cui, di certo, una donna
perbene non si sarebbe mai abbassata? Stupida, non sa quel che perde.
Il
vialetto d’accesso era infestato di muschio e d’erbacce mezze bruciate dal
freddo di febbraio, le tegole della tettoia sconnesse come i denti in bocca a
una vecchia: la brutta casa di un uomo povero, di un negro che tira a campare
insegnando ai rampolli delle famiglie nobili a tirar di scherma e con la
pistola, nella speranza, in caso di duello, di riportare indietro la pellaccia
invece che finire al cimitero di Saint Louis. Un giorno ti ci porto. Le aveva
detto, quando ancora credeva, o faceva finta di credere, che fosse un maschio.
Chissà se avrebbe mantenuto la sua promessa.
-Benvenuta nella mia casa, Masina.
Non
aspettava nessuno, nemmeno lei. Era bello, elegante, radioso, come la prima
volta. Il buon taglio e la buona qualità della stoffa degli abiti che portava,
l’oro che aveva addosso, contraddicevano la sua condizione. I negri erano
creature sporche e ignoranti, le diceva Madeleine, le dicevano tutti quanti:
Javier Almeida aveva i modi di un gran signore.
-Là, in fondo alla tettoia, Javier...
-La
gabbia dici? Avevo un cane, fino all’anno passato, un grosso cane da presa
tutto nero, una cagna, anzi. Spes. Buona come il pane e stupida come la
luna, non avrebbe fatto male a una mosca. Avevo anche una donna, e dei cani
aveva paura. Come te. Quando veniva qua di nascosto dal suo uomo, Spes
dovevo rinchiuderla nella gabbia...Sembrava che se ne avesse a male, povera
bestia, ma si accoccolava in un angolo e se ne stava lì tranquilla, aspettando
che tutto finisse. Aveva dieci anni, quando è morta: una bella età, per un cane
così grosso. Ma i cani vivono troppo poco: siamo costretti a vederli morire.
Non ne ho più voluti altri.
-E
lei...La tua donna, intendo dire?
-Nemmeno
l’amore è eterno, Masina. Ma entra dentro, che hai freddo.
-Qualcuno
potrebbe vederci. Nuova Orleans non era Venezia, l’America non era l’Europa: un
negro e una bianca assieme sarebbero stati uno scandalo. Bello com’era, Javier
doveva aver avuto altre donne, e non solo donne nere: sicuramente, se ce
n’erano state, le aveva sempre incontrate di nascosto, per la sua sicurezza e il
loro buon nome. C’era la morte, le avevano detto, per un negro che osasse
intrattenersi carnalmente con una bianca. E per lei tonnellate di fango. Ma io
non sono una qualunque. Sono un’artista. Una creatura di magia: Zerlina,
Astrifiammante, Regina della Notte*. Il fango è per le altre, non per quelle
come me.
La casa
di Javier era piccola, due stanze appena. Piccola e accogliente, non il grande
salone semivuoto dove allenava al tiro e alla scherma i suoi clienti. Cuscini di damasco, drappeggi pesanti,
sofà alla turca, tappeti orientali, come nella tenda di uno sceicco beduino. Il
fumo aromatico dell’incenso e del legno di sandalo, diffuso da bruciatori
d’ottone istoriato. All’argento sono allergico, le aveva detto. Lo tocco e sto
male. Mai sentita un’assurdità del genere.
Le offrì
da bere dentro un calice di cristallo. Vino francese. Lui sorseggiò qualcosa,
un infuso verdastro, sembrava tè. Strano, che un uomo non bevesse vino: a
Venezia bevevano, e parecchio, tutti quanti, perfino quel finocchio di Alvise
Valmarin, Dio avesse pietà di lui.
-Ti
chiederei di uscire, se non facesse così freddo.
-Il mio
domino è foderato di pelliccia. Se non hai freddo tu...
-Lo
sopporto benissimo.
S’era
gettato sulle spalle il mantello di panno col cappuccio, quello che gli
conosceva. Non gli piacevano le pellicce, le aveva detto. E trovava
orribile il suo manicotto in pelle di leopardo. Amava gli animali,
contrariamente a lei. Li amava come si amerebbe un essere umano, non aveva
paura di loro. Tutti avevano diritto di vivere e niente e nessuno poteva
negarglielo: lupi, leopardi. Buoni al più per diventare pellicce, che
aggiungessero bellezza a bellezza e tenessero lo stesso caldo d’uno scialle di
lana. Ma Javier era strano. Capace che avesse pianto, quando il suo vecchio
cane era morto.
Il
freddo di febbraio le pungeva la pelle del viso, come a Venezia. Le avevano
detto che non era mai inverno, a Nuova Orleans, e le avevano raccontato delle
bugie. Ma le piaceva quella città, i vecchi quartieri francesi, il vociare del
mercato, il caffè forte corretto con schizzi di rhum, le voci rauche dei negri
che cantavano canzoni sconce in un vernacolo a malapena comprensibile.
Lui le
cingeva la spalla, indifferente agli sguardi degli altri. La sua pelle aveva un
aroma sottile di erba, come un prato in aprile dopo la fienagione. Uomo nero, donna bianca. Non era accettato
da nessuno. Ed era pericoloso. Quella città che tanto l’affascinava non era che
un letamaio, le diceva Javier: un letamaio che sorgeva sopra un acquitrino
puzzolente, e non c’era altro che fango, sotto il selciato delle strade, sotto
le fondamenta dei palazzi. Fango e putridume, lezzo di cose morte, come in un
cimitero.
“Caduto a
trent’anni, sul campo dell’onore”. Ce l’aveva portata, a passeggiare tra le
lapidi di Saint Louis, come le aveva promesso la prima volta che l’aveva
incontrata, quando era ancora convinto che fosse un ragazzo e non una donna.
Caduto a diciotto. A venti. A quaranta. Per i begli occhi d’una ragazza di malaffare,
per quattro soldi persi alle carte. L’onore è come la raffinatezza che tutti
vantano di questa città: una vernice dorata che maschera strati d’ignoranza,
come la biacca che nasconde le rughe sopra la faccia d’una vecchia puttana. Non
credere alle apparenze, Masina. E non temere per me: io non ho paura di niente.
Nastri di
bava giallognola e filacciosa penzolavano dalle fauci semiaperte del grosso cane, gli imbrattavano il muso fin
sotto gli occhi dementi. Un cane
pazzo, non c’era alcun dubbio. Un cane idrofobo. Accidenti, non era stagione di
cani arrabbiati, luglio, agosto, eppure...Non c’era nessuno, nel vicolo dietro
il cimitero, e la bestia caracollava verso di loro, col suo passo sbilenco e la
testa che ciondolava. Javier non era armato, non avrebbero avuto scampo.
Sarebbe morta di spavento, pensava Masina rivedendo con gli occhi della mente
Venezia, lei bambina e l’uomo che urlava, dopo essere stato morso da un cane
come quello.
-Nasconditi dietro di me, e non aver paura.
Il mostro
era a un paio di metri da loro, pronto a balzare in avanti, spinto dalla forza
della sua pazzia. Javier gli conficcò gli occhi negli occhi dementi, il cane crollò a terra senza neppure tentare
di attaccarli, morto come un ramo secco, morto come una foglia d’autunno, come
una vecchia gallina stecchita dal gelo
dell’inverno. E Masina s’accasciò tra le sue braccia.
-Torniamo
a casa.
Avrebbe
cercato d’ammazzare la sua paura offrendole del rhum o dell’acqua fresca,
magari tenendola tra le braccia, come stava facendo. La paura del cane
rabbioso. E la paura dei suoi poteri:
perché Javier Almeida poteva uccidere, con la semplice forza del suo sguardo, e
gliel’aveva provato.
L’orologio del campanile aveva appena battuto quattro tocchi. Sei
terrorizzata, tremi tutta, non ti lascio andar via. Il mio letto è comodo, e se
non vuoi non ti tocco...
Poteva
uccidere con lo sguardo e far sciogliere di disarmante tenerezza, Javier
Almeida, la Pantera. Non era che un ragazzo, ventiquattro, venticinque anni al
massimo, un ragazzo dagli occhi dolci e dal broncio scontroso. La sua pelle
sapeva curiosamente d’erba pestata. E anche la sua saliva e il suo sudore
avevano quell’aroma fresco e salato. Masina non aveva mai visto un corpo così
grande come il suo, e altrettanto perfetto: spalle larghe e muscolose, natiche
esili, il membro grosso di cui aveva sentito favoleggiare, a proposito di
quelli come lui. Nudo, non era ridicolo come tutti quanti gli altri uomini, era
bello come un dio.
Se non
vuoi non ti tocco. Sorrise da sé sola. E chi t’ha detto che non voglio? Mi
piacerebbe un figlio tuo, prima che per me diventi troppo tardi: un figlio che
ti somigli tale e quale...Adesso non dirmi che è una pazzia, Javier Almeida, e
lasciati andare: se non hai paura di niente, non c’è ragione perché tu tema
l’amore...Anche se hai detto di non crederci.
Era
proprio un ragazzo che amava ancora giocare, indugiare a lungo nei preliminari
e nelle carezze, lasciarsi coinvolgere
nei giochi della sua compagna, quasi che la donna fosse per lui un universo ancora da scoprire, un
segreto mai completamente disvelato. Gli uomini in età non si comportavano così, era stata l’esperienza
ad insegnarlo a Masina.
L’uomo aveva una pelle morbida e scura, deturpata da
alcune cicatrici e segnata da un paio di vistosi tatuaggi. Una pelle
estremamente piacevole da accarezzare, pensava Masina lasciandovi scorrere
sopra i palmi aperti, tracciandogli lenti cerchi con l’indice intorno ai capezzoli lividi.
-Togliti via quell’argento dal
dito.
L’allergia all’argento, già. Scusami, non ricordavo. E si sfilò dall’anulare la vera consunta, il suo portafortuna, l’unico ricordo che le restasse di sua madre, morta prima che lei fosse abbastanza grande da ricordarsela. Non senti il freddo di questa sera d’inverno, ma se un filo d’argento ti sfiora la pelle stai male. Sei proprio strano, lo sai? Hai più paura di uno stupido anello che dei denti d’un cane arrabbiato. E quella cicatrice che hai sul ginocchio? Una ferita del genere dovrebbe averti azzoppato senza rimedio. Perché, quella sul fianco? Dovresti essere morto. Sì, sei strano davvero. A noi donne piace molto questa parola che significa tutto e non significa nulla.