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Autore: Jooles    13/06/2013    2 recensioni
Ogni giorno Esme Nichols, da quando la madre è morta lasciandola in balia dei maltrattamenti dello zio, evade da quella sua camera soffocante per recarsi nel bosco che si estende infinito di fronte casa sua. Dopo dieci anni il tempo non sembra scalfire quella radura in mezzo alla foresta dove era solita recarsi con la madre, tranne forse per qualche erbaccia in più. Eppure sembra che una persona misteriosa e dalle dubbie intenzioni abbia iniziato ad abitare quel luogo…
[1^ classificata al contest "Cappuccetto Rosso" indetto da Gely_9_5 sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 4
Wolf

 




 

Ventisei anni prima
 

«È davvero bella, tesoro.»
Il signor Nicolaj Sokolòv cinse con un braccio il sottile fianco della moglie, sorridendo al suo indirizzo, mentre la signora Vera Sokolòv guardava raggiante la villa al limitare del bosco che avevano appena acquistato.
«Credi che ci ambienteremo, qui?» domandò con un velo di preoccupazione la signora.
In signor Nicolaj si voltò a guardarla.
«Stai tranquilla, cara. Siamo venuti qui in Irlanda proprio perché nessuno ci conosce. Vedrai che staremo bene, Dan soprattutto. Il dottore ha detto che un po’ di aria pulita avrebbe fatto bene alla sua salute mentale.»
Gli era stata venduta davvero per poco, tanto che la signora Vera si preoccupava che non ci fossero importanti ristrutturazioni da fare, poiché a dir suo non aveva voglia di passare attraverso lavoratori che le infestavano la dimora, polvere da pulire ad ogni angolo e rumori di trapani, martelli e qualsiasi cosa le turbasse la pace interiore. E non solo la sua.
Il motivo principale per cui avevano deciso di trasferirsi dalla frenetica vita di città in un luogo più etereo e tranquillo quale la foresta era il loro primogenito.
 
Dan era sempre stato l’orgoglio della famiglia: bello e fresco nei suoi ventiquattro anni appena compiuti, una bellezza fuori dal comune tipica della stirpe dei Sokolòv. La signora Vera si vantava di come i suoi due figli avessero ripreso i suoi occhi grigio cenere e i suoi lineamenti fini, mentre il signor Nicolaj era fiero di sbandierare a chiunque glielo domandasse circa il sottile ingegno dei due fratelli, “Degni della famiglia dei Solokòv”, era solito concludere qualunque elogio con quella frase.
I Sokolòv si portavano dietro secoli di storia, in quanto già dalle origini erano stati una delle famiglie più ricche e influenti dell’esteso paese e le leggende narravano di un vecchio barbone, il burbero Ivanov Sokolòv, che attorno al 1700 aveva avuto l’ardire di recarsi nelle Americhe, facendo ritorno decenni più tardi con un’immensa fortuna. Da lì, la loro stirpe conseguì meriti uno dietro l’altro, membri importanti che fecero la loro piccola o media parte nella storia vennero forgiati da quella famiglia; non un solo membro non era diventato importante per qualcosa, seppur nel suo piccolo.
I Sokolòv erano i migliori nel lavoro, che si trattasse di primi ministri o muratori, i migliori a scuola e con i più alti meriti nelle università, coloro che in società venivano sempre trattati con un occhio di riguardo e venerazione.
Eppure, maggiore è la fama, maggiore è l’impatto che consegue alla sua distruzione.
 
Era iniziato tutto nel giorno della laurea di Dan, appena nove mesi prima.
Era uscito ovviamente con il massimo dei voti. Di lì a pochi giorni si sarebbe organizzata una sfarzosa festa nella villa padronale, alla quale sarebbero stati invitati tutti i membri della famiglia in aggiunta a personalità di rilievo. Il signor Sokolòv riteneva che quella potesse essere un’opportunità importante per far finalmente entrare in contatto il suo adorato figlio con il mondo del futuro e dei grandi.
Così, mentre il dì successivo la signora Sokolòv a pranzo discuteva con il marito circa le migliori porcellane da esibire, Dan parlava eccitato al fratello.
«… e poi papà mi ha detto che ci sarà il signor Hughes, quel simpatico viceministro degli Affari Esteri inglesi. Ti immagini se mi portasse con sé a Londra? Ovviamente metterò una buona parola anche per te» disse energico, sfregando amorevolmente una mano sui capelli del fratello.
Lev osservava con stupore il suo maggiore, pensando che tra non molto sarebbe potuto diventare come lui, ottenere il rispetto dei genitori e della società.
«Mi intimorisce la prospettiva di questa festa, fratello» e Lev notò come la sua espressione si fosse incupita.
«Di cosa ti angosci? Sei brillante, Dan, non devi temere alcun pomposo maresciallo con i baffoni, e tantomeno nessuna di quelle vecchie megere con i decolté strizzati fino alla giugulare. Ti noteranno tutti.» E, dannazione pensò, che sarebbe davvero stato così.
Dan gli sorrise, ringraziandolo con lo sguardo.
«Dan, Lev, vi ho fatto stirare i vestiti da cerimonia da Svetlana, quelli nuovi!» trillò allegra la madre: aveva spedito inviti con largo anticipo, dato che la festa avrebbe avuto luogo solamente due settimane dopo, eppure aveva già fatto preparare con cura maniacale ciò che avrebbero indossato la sera del gran dì di festa.
«Padre, posso far venire Fedor, quel mio amico di corso?”» domandò Dan, poggiando sul tavolo la forchetta con cui aveva appena terminato di mangiare.
«Fedor Stavrogin?» e di norma suo padre non avrebbe mai risposto ad una domanda con un’altra domanda, ma se si trattava di indagare su chi avrebbe compromesso la riuscita della festa se non fosse stato del rango che si conveniva, allora poteva anche concedersi quel piccolo strappo alla regola.
«Sì» rispose Dan, i muscoli facciali lasciavano intendere che avesse serrato con forza la mascella, infastidito dalla superficialità del padre.
«La sua famiglia non è quella che qualche anno fa ci invitò nella loro casa estiva in Francia?» si intromise la signora Vera.
«Sì, ricordo di come il signor Stavrogin avesse un’invidiabile collezione di tabacchi provenienti da ogni angolo della Terra» rimembrò il signor Nicolaj.
«Beh, sono una famiglia alquanto rispettabile, se è per questo, oltretutto Fedor è uno dei pochi insieme a Dan che si è laureato con il massimo. Quel ragazzo è davvero in gamba, almeno riesce a stare al passo con Dan, e con la sua parlantina diverrebbe un abile avvocato» iniziò Vera.
Dan, che odiava quando i genitori lo innalzavano su un piedistallo, specialmente di fronte al fratello, si alzò dalla sedia, spingendola indietro con un po’ troppa violenza. Scusandosi che avrebbe dovuto terminare di corrispondere a delle lettere per l’università si ritirò in camera sua. Lev lo seguì non appena ebbe finito di mangiare.
Bussò alla porta prima di aprirla. Quando entrò vide che Dan fosse davvero impegnato a scrivere una lettera.
«A chi scrivi?» domandò curioso Lev.
«A Fedor, lo invito alla serata di mercoledì prossimo» rispose Dan noncurante, troppo intento a scegliere le parole adeguate per riempire il foglio.
Lev diede uno sguardo alla stanza: i numerosi volumi che prima riempivano gli scaffali erano stati in buona parte posizionati accuratamente in delle scatole.
«Sicuro di volertene andare?» domandò Lev, sperando che il fratello potesse cambiare idea in quei cinque secondi che richiedevano per formulare la risposta.
Dan guardò affettuosamente il fratellino.
«Sbrigati a sceglierti una buona università, così quando ti laureerai e io sarò ormai ai vertici dell’ambasciata potrò mettere una buona parola su di te» e sorridendo gli scompigliò i capelli.
Lev sbuffò, ormai rassegnato al fatto che avrebbe dovuto vivere per cinque anni, almeno, solo in quell’enorme casa. Lo rattristava il pensiero di rimanere senza il fratello; i genitori non avevano occhi che per Dan, perciò gli si profilava davanti l’aspettativa di una vita universitaria all’ombra delle glorie del fratello. Già immaginava sua madre che lo pressava affinché ottenesse buoni voti come quelli di Dan, o il padre che lo puniva con lo sguardo ogni qualvolta entrasse in una camera dove c’era lui, solo perché non era Dan.
Ormai era assodato: Lev passava in secondo piano quando c’era Dan. Non che avesse meno per cui essere lodato, anzi. Solamente i genitori erano ormai talmente abituati a crogiolarsi negli elogi per i figlio maggiore che non erano altrettanto abituati a fare lo stesso con Lev.
 
Nei giorni che avevano preceduto la grande soirée, Dan aveva trascorso la totalità del suo tempo libero insieme all’amico Fedor, ora che entrambi non dovevano trattenersi con lo studio. In alcune occasioni non era nemmeno rientrato a casa per dormire, rassicurando la madre, quando rientrata nell’ora della colazione con i vestiti della sera prima e i capelli scompigliati, che i signori Stavrogin erano stati così gentili da ospitarlo. Vera, contenta che il figlio trascorresse del tempo con un ragazzo tanto educato e colto, faceva sparire l’espressione di malcontento che aveva messo su non appena aveva visto il ragazzo varcare la soglia della sala dove venivano consumati i pasti.
Solamente Lev era a conoscenza del fatto che i genitori di Fedor non si trovassero a casa in quel periodo perché erano andati a portar sostegno alla madre morente della signora Stavrogin. Lev credeva che i due amici approfittassero della mancanza dei grandi per poter fare ciò che volevano a casa, come ad esempio invitare amici, indire festini e dormire con qualche ragazza dell’università.
In fondo avrebbe avuto ventiquattro anni ancora per poco, o almeno ancora per poco se li sarebbe goduti, dato che non più di un mese più tardi sarebbe partito per chissà dove a costruirsi un futuro.
E poi Dan in quel periodo aveva un’aria così serena e allegra che nessuno avrebbe potuto contraddirlo per qualche piccola scappatella di poco conto.
 
Il mercoledì di festa villa Sokolòv era stata arredata dei più sfarzosi lucernari per mettere in risalto ogni angolo del giardino curato e per fare in modo che questi creassero dei meravigliosi giochi di luce con i zampilli della fontana che si trovava a qualche metro dall’ingresso.
Il vialone era occupato dalle bellissime e costosissime auto degli invitati, dalle quali erano scesi illustri signori con madame, tutti in abito da cerimonia.
La signora Sokolòv era all’ingresso a dare il benvenuto come solo la padrona di casa poteva fare, ordinando conseguentemente alle collaboratrici domestiche di prendere i cappotti degli invitati per conservarli per la durata della festa nell’apposito appendiabiti.
Sull’enorme e ampia scalinata che si estendeva a partire dal centro del salone d’ingresso era stato fatto scivolare un lussuoso tappeto rosso, i due corrimani d’avorio lucidati fino a risplendere alla luce del lampadario d’ambra.
Il signor Sokolòv intratteneva i signori nella grande sala da biliardo, dove era consentito fumare e parlare di politica in lontananza dalle donne, le quali invece erano state accolte nella sala da tè. Dan era apparso per la prima ora della serata, ritirandosi di seguito in biblioteca con Fedor, altri due ragazzi, il viceministro Hughes e un suo amico.
«Lev, vieni anche tu» gli aveva detto il fratello, afferrandolo per il gomito e trascinandoselo dietro ovunque andasse.
Per quello che a Lev parve un tempo infinito aveva ascoltato i discorsi incomprensibili di quei quattro circa il futuro dei giovani, rimanendo orgoglioso quando il fratello rispondeva a un’argomentazione del vecchio politico in maniera adeguata, facendo una sublime figura.
Il signor Hughes stava iniziando ad intrattenere una conversazione con Fedor circa la collezione di tabacchi del padre, sulla quale appariva molto interessato, quando Dan si avvicinò all’amico, strizzandogli leggermente il braccio per ottenere la sua attenzione. Fedor si voltò a guardarlo e Dan si rivolse al vecchio signore.
«Mi scusi, viceministro, io e Fedor avremmo una faccenda da sbrigare, saremo da lei tra non molto. Intanto, se vuole raggiungere mio padre nella sala accanto c’è un ottimo Whisky invecchiato» e il signor Hughes si trovò molto contento di accettare.
«Questi inglesi, papà ha dovuto far pervenire del Whisky apposta per Hughes, era certo che non avrebbe gradito la nostra Russkij Standart [1]» convenne Dan.
Poi si rivolse a Lev. «Raggiungi i signori nell’altra sala, fratellino, devo far vedere a Fedor un progetto a cui stavo lavorando. Vi raggiungeremo tra poco» e avendo detto ciò si dileguò, trascinandosi dietro l’amico.
Lev vagabondò per tutte le sale intrattenendo fugaci discorsi con ognuno dei presenti; i signori si complimentavano di come fosse arguta la sua parlata e acuto il suo ingegno, le signore ammiravano un «giovanotto tanto bello» che avrebbero volentieri presentato alle loro figlie.
Giunta ormai quasi la mezzanotte, la signora Vera si avvicinò al figlio minore, che con aria cospiratrice gli chiese –
«Vai a cercare tuo fratello, tra poco è l’ora del brindisi.» Lev guardò la madre allontanarsi, preoccupata di scoprire dove si trovasse l’altro suo figlio.
Lev iniziò a setacciare ogni angolo del pianterreno della dimora, allungandosi persino in giardino. Ma poi un’idea gli balenò in mente: se Dan avesse voluto non essere disturbato si sarebbe recato di sicuro in camera sua, al primo piano, dove non era consentito l’accesso in occasione di feste come quella.
Intraprese così la volta delle scale, salendole due a due. Svoltò a sinistra non appena fu in cima e camminò fino in fondo al corridoio, per poi svoltare a destra, trovandosi di fronte l’enorme vetrata che affacciava sulla parte posteriore del giardino, mentre a sinistra la porta della stanza del fratello. Bussò un paio di volte, ma non udì alcuna risposta; provò a chiamare il nome dei due ragazzi, ma era come se nella stanza non ci fosse nessuno.
Così Lev aprì la porta un po’ titubante, affacciandosi col naso per poi lentamente introdursi nella stanza. Era completamente buia, le luci erano tutte spente e avrebbe detto che fosse vuota se non fosse stato per dei gemiti attutiti che provenivano da lì dentro.
«Dan?» chiamò Lev. Dopo che ebbe detto quel nome, i rumori cessarono improvvisamente, poi si udì un tonfo, come di qualcosa che cadeva. O qualcuno.
Lev, spaventato, accese immediatamente la luce e trovò il fratello.
Dan era disteso sul letto, completamente nudo; guardò Lev con terrore.
Fedor era in ginocchio per terra, si massaggiava il gomito per averlo strusciato sulla moquette dopo essere inciampato; avendo udito dei rumori si era precipitato giù dal letto, tentando di rivestirsi come poteva al buio.
«Ma cosa…». Lev iniziò a capire.
«Lev… non stavamo facendo niente, noi…» tentò di scusarsi Dan. Quella fu la prima volta che Lev vide suo fratello completamente preso dal panico, quando solitamente tratteneva l’ansia anche nei momenti peggiori.
Quando poi il maggiore dei due fratelli alzò lo sguardo oltre la soglia della porta, il panico tramutò in terrore.
«Madre…» sussurrò, mentre gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime.
Fedor si rivestì di fretta per poi correre fuori dalla stanza, ma fu trattenuto per un braccio dalla signora Sokolòv.
«Non credere che terrò la bocca cucita con i tuoi. Tu, hai rovinato mio figlio» sibilò Vera, negli occhi una scintilla omicida.
«Madre, non è stata colpa sua!» tentò di difenderlo Dan.
«Zitto!» lo ammonì e Dan non poté che ubbidire.
«Annuncerò che la festa è finita, inventerò che ti sei sentito male.» Vera guardò il minore dei suoi figli, facendogli cenno di uscire dalla stanza.
«Chiama tuo padre» gli disse mentre ormai le rivolgeva le spalle.
E Lev comprese allora quanto grave fosse la situazione e che per il suo adorato fratello si sarebbe messa proprio male.
 

**

 
Gli eventi di quella fatidica sera avevano cambiato per sempre il destino dei Sokolòv. Il signor Nicolaj aveva dapprima segregato in casa il figlio, impedendogli in alcun modo di potersi incontrare con Fedor, i cui genitori erano stati avvertiti dell’accaduto e la sua sorte non era stata certo migliore di quella che di lì a poco sarebbe toccata a Dan.
Nessuno seppe mai che fine fece il povero ragazzo dei Stavrogin; solamente molti anni più tardi arrivò la notizia sulle testate dei giornali di un uomo suicidatosi spiccando un volo dal decimo piano dell’ospedale psichiatrico in cui a suo tempo era stato rinchiuso. L’ospedale, dopo lo scandalo, dovette chiudere, indagato per negligenza nei confronti dei pazienti. La morte dello sciagurato Fedor Stavrogin era servita per lo meno a far chiudere i battenti a quel luogo macabro e malsano.
Il signor Nicolaj e la signora Vera, dal loro canto, non volevano ricorrere a misure tanto drastiche. Non negavano certo che in principio si fossero rivolti anche loro ad uno psichiatra, deducendo che l’orientamento del figlio fosse una malattia che necessitava immediatamente di profonde cure. Avendo però dato un’occhiata all’ambiente dove loro figlio avrebbe dovuto alloggiare assieme a Fedor, i signori Sokolòv riesumarono quel briciolo di umanità che si annidava nei meandri dei loro cuori, preferendo adottare una più radicale ma meno dolorosa soluzione per la loro reputazione: fingere di aver ottenuto un fortunato lavoro all’estero.
Solo tre settimane più tardi, la famiglia lasciò la lussuosa villa di Pietrogrado [2] per trasferirsi quanto più lontano gli fosse possibile.
Optarono per un tranquillissimo villaggio nella contea di Galway in Irlanda, chiamato Cong, ove si trovavano lontani parenti del famoso zio d’America Ivanov. Appena fuori del villaggio, vicino ai boschi, avevano subito adocchiato una villa che si avvicinava molto nello stile a quella che avevano lasciato in patria.
Marito e moglie fingevano che nulla fosse accaduto anzi, peggio ancora, ignoravano completamente anche Dan; se lui tentava di instaurare un dialogo quelli fingevano che non ci fosse nessuno; se Dan tentava di attirare l’attenzione in qualunque modo, rompendo un vaso, urlando, scrivendo sui muri, la signora Vera si armava di scopa e paletta e ripuliva i cocci, si chiudeva in camera per attutire le grida, pregava il marito di ridipingere i muri.
Di lì a poche settimane, Dan era come morto. Si stancò presto di cercare di attirare attenzioni, nemmeno parlava più con il fratello.
Lev d’altra parte era caduto nello stato confusionale più assoluto. Se da una parte infatti voleva tentare di aiutare il fratello a uscire dalla terribile situazione in cui ormai vivevano, dall’altra si sentiva per la prima volta preso in considerazione dai genitori, i quali lo lodavano per qualunque suo guadagno ottenuto, anche del più futile.
Questo provocò inconsapevolmente in Lev una profonda indifferenza nei confronti del fratello, il quale si chiuse sempre più in se stesso, arrivando a rimanere nella sua camera senza mangiare per giorni e giorni.
 
Un giorno la signora Vera domandò al suo nuovo figlio prediletto se poteva recarsi nei boschi per racimolare della legna: l’inverno era alle porte e avrebbero necessitato di un po’ di calore.
Lev accettò di buon grado e salì in camera sua per tirar fuori dall’armadio un giubbotto leggermente più pesante. Non era ancora piena stagione invernale, ma faceva comunque freddo.
Quando uscì dalla stanza armato di giacca, non poté fare a meno di buttare uno sguardo dall’altra parte del corridoio, dove poteva benissimo vedere la porta della camera di Dan chiusa, come al solito.
Un briciolo di pietà lo assalì, così si diresse verso quel punto e bussò ripetutamente.
«Dan, esci.» Sentì un rumore provenire da dentro, ma nessuna risposta. Evidentemente il fratello non voleva parlargli.
«Mi accompagni a cercare della legna?»
Sentì dei passi farsi più vicini, la riga di luce sotto la porta era spezzata da due ombre, segno che proprio lì dietro ci fosse qualcuno.
Lev alzò il pugno per bussare ancora, quando la porta si aprì. Il volto scarno e malnutrito di Dan lo squadrò dall’alto al basso, la pelle pura e liscia nascosta dietro uno spesso strato di barba, la luce degli occhi ormai spenta come l’estate che era molto lontana.
Sembrò incerto su ciò che volesse dire, poi trovò la forza di pronunciare alcune parole.
«Arrivo subito.»
Rientrò chiudendosi la porta alle spalle, per poi uscire ancora con una giacca pesante addosso.
Quando ebbero sceso le scale e raggiunto il portone d’ingresso, Lev alò la voce per far sentire alla madre che sarebbero usciti. Il plurale nel soggetto destò la curiosità della signora, che si affacciò dalla cucina per guardare la novità; quando vide Dan si limitò ad un cenno di assenso della testa.
 
Camminarono lentamente, attraversando un sentiero che sembrava essere stato battuto in precedenza. Videro un ruscello che si mantenne sempre alla loro destra mentre camminavano, finché alla fine questo si allontanò dal sentiero che stavano percorrendo. Dopo più di dieci minuti buoni di camminata, si aprì di fronte a loro uno spiazzo.
La radura pareva perfettamente concentrica, quasi nel suo centro esatto si ergeva un bellissimo olmo dal fogliame ormai rado per il freddo che in quei giorni si apprestava a incombere sempre più pungente.
Lev si avvicinò all’albero, raccogliendo alcuni grossi rami spezzati che giacevano ai suoi piedi.
«Mi dai una mano?» domandò gentilmente al fratello, tentando di instaurare un dialogo.
Dan non rispose e si limitò semplicemente a raccogliere i legni.
Lev lo osservava con la coda dell’occhio, piangendo nel cuore alla vista del fratello che lentamente, come un cane bastonato, si piegava a fatica per issarsi sulle ormai esili braccia quei ramoscelli che gli parevano fardelli, tanto era spossato dalla depressione in cui era caduto.
Prima che si mettesse a piangere sul serio, Lev gli si avvicinò, offrendosi di caricarsi lui la legna. In tutta risposta però ottenne una brusca spinta.
«Ce la faccio da solo, traditore» berciò Dan.
Lev non comprese minimamente a cosa si riferisse.
«Guarda che si ti riferisci a quel fatto, non sono mica stato io a chiamare mamma! E poi tu eri lì, hai visto quello che è successo. Deve essere venuta su per cercarti, è stata una stupida coincidenza!» tentò di difendersi, offeso che suo fratello potesse solamente azzardarsi a pensare che lo avesse venduto in quel modo.
«Non mi riferisco a quello» disse il maggiore.
Lev in tutta risposta lo degnò di sguardo inquisitore e Dan accettò di rispondere.
«Da quando è successo tutto questo fai lo stesso gioco di mamma e papà. Mi ignori, come se fossi feccia della peggior specie e so anche il perché.»
Fece cadere la legna che teneva tra le braccia, avvicinandosi al fratello con fare minaccioso, gli occhi ridotti a due fessure, un dito puntato contro di lui.
«Da quando mamma e papà mi hanno ripudiato sei tu al centro delle attenzioni.»
Lev non poté credere che lo avesse detto.
In tutta la sua vita non gli era mai importato niente di come si comportassero i genitori nei suoi confronti. Non gli facevano mancare niente e questo gli bastava, tanto più perché quello che non gli potevano dare lo otteneva dal fratello, che riteneva un modello da idolatrare. Aveva sempre guardato Dan come una divinità, lui il suo suddito privilegiato.
Amore, fiducia, complicità.
Dan era per Lev la miscela perfetta di queste componenti.
Un brivido provocato dall’ira lo scosse; non poteva permettere che Dan pensasse questo di lui.
«Non me ne faccio niente delle lodi di mà e pà se tu mi odi.»
Dan scosse la testa, come a voler far uscire quelle parole che si erano insinuate nel cervello.
«Bugiardo, sei un’opportunista come tutti!» La furia che si era annidata nelle ultime settimane nel cuore di Dan sembrò voler esplodere proprio in quel momento e Lev provò la vera paura per la prima volta.
Con uno scatto fulmineo Dan passò una mano sotto il giubbotto, tirandone fuori un qualcosa di lungo e appuntito.
Lev sgranò gli occhi mentre le sue gambe si incollarono al terreno.
Poi la confusione dei sensi.
Dolore, disperazione, rabbia, paura. E un liquido caldo che gli impregnava il maglione.
Abbassò lo sguardo, alzando al contempo le mani che previamente aveva portato al fianco e vide un liquido scuro impregnargliele.
Dan ritrasse il coltello che ancora fendeva le carni del fratello, spaventato lo fece cadere. Fece un passo indietro, poi un altro ancora. Alla fine si voltò di scatto e iniziò a correre, a fuggire lontano.
Lev intanto si accasciava a terra, spingendosi le dita dentro la ferita per creare una sorta di tappo all’emorragia che ormai non si sarebbe estinta. Voleva urlare, pregare il fratello di non lasciarlo lì da solo; lo avrebbe perdonato per averlo pugnalato, se solo fosse rimasto con lui. Ma tutto questo non glielo poté dire perché il dolore ormai gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Sarebbe morto in quel luogo, da solo.
Lev era sempre stato solo: abbandonato fin dal principio dai genitori che avevano puntato sempre tutto sul loro primogenito. L’unico suo sostegno era stato Dan; il loro amore reciproco era stato indissolubile. Ma quel brusco tradimento lo aveva fatto sentire più abbandonato che mai.
Infatti il Dan che aveva commesso quell’estremo e folle gesto non era il Dan che conosceva; quello era morto qualche mese prima, in quell’orribile sera dove tutto era iniziato.
Ormai caduto a terra, Lev si osservò il polso, scorgendo l’ora sull’orologio.
Mezzogiorno in punto.
In quell’ora moriva il giovane Lev Sokolòv, afflitto da ciò che lo spaventava di più: la solitudine.
In quell’ora precisa e in quello stesso punto dove era avvenuto il tragico epilogo, per l’eternità a venire, quel giovane sarebbe riapparso sotto una forma inumana, fantasma, per cercare un’anima che avrebbe accettato di fargli compagnia.




 

[1] Miglior marca di vodka russa
[2] In quegli anni San Pietroburgo era chiamata così




















Note
Ci ho messo davvero troppo a pubblicare quest'ultimo capitolo e non so nemmeno il perché, dato che era già bello scritto.
Che cosa ne pensate del finale? Ve lo aspettavate? Vi ha colpito? Non vi è piaciuto? Fatemelo sapere, questo era il mio primo tentativo con un'originale. :)
Ah, dimenticavo, il motivo della scelta del titolo del capitolo: il lupo, divenuto simbolo dell’inganno dalla funzione che ha avuto in diverse favole e racconti (basti pensare, oltre a “Cappuccetto Rosso”, anche a “I tre porcellini”, “Il lupo e l’agnello”, “Il lupo e i sette capretti”, “Pierino e il lupo”, oltre che in diverse favole di Esopo, ecc…).

E niente, spero lascerete un piccolo commentino. *-*
  
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