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Autore: Aleena    18/06/2013    1 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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IX - GABRIEL

 
 
  Sedeva su una dormeuse chiara come la sua pelle, avvolto solamente da una veste da camera beige che gli lasciava scoperto l’incavo del collo e le braccia, muscolose e asciutte. Lunghi capelli castani raccolti in una treccia a spina di pesce che gli cadeva su una spalla e occhi vermigli che scrutavano intorno, carichi di una noia mortale fin quando non s’erano posati su Shasta. Così Gabriel li accolse.
«Entrate» aveva intimato loro un ragazzotto vestito di giallo pallido, dall’aria servile, accennando un gesto con la mano a comprendere la stanza, un salottino che affacciava su un giardino invernale baciato dalla luna.
«Prego, prego, mio buon amico. È sempre un… piacere, rivedervi. E… ah, vedo che avete qualcosa per me» aveva detto l’uomo pallido, sollevando la schiena quel tanto che gli necessitava per afferrare un calice di cristallo da un tavolinetto di legno intarsiato. 
«Mio signore è un onore per me…» aveva detto il grassone, inchinandosi quanto il ventre gonfio glielo permetteva. L’incubo lo imitò, senza tuttavia costringere anche Shasta a tributare rispetto; sembrava anzi che volesse metterlo in mostra, lasciandolo a emergere oltre le schiene chinate, lacero e sporco di paglia.
L’uomo pallido bevve un sorso, dedicando meno di uno sguardo ai carcerieri: gli occhi erano fissi su Shasta, che resistette allo sguardo quanto la prudenza giudicò ragionevole, poi chinò la testa.
Con un gesto fluido, l’uomo si alzò e scivolò fino a lui; prese a girargli intorno, lentamente, studiandolo come un tempo le matrone avevano fatto con gli schiavi appena arrivati: gli prese una ciocca di capelli fra le mani, gli sollevò il mento e infine sorrise, una smorfia che era al confine fra l’orrore e la malia. Shasta trattenne il respiro: sentiva il suo odore e ciò che gli ricordava non era decisamente piacevole.
«Cos’è?» domandò l’uomo. Aveva un accento particolare, qualcosa d’ancestrale nella voce e in fondo agli occhi; e modi cortesi, certo. Modi da nobile.
«Un drow, mio signore. Albino. Ecco, guardate: l’altezza ridotta tipica della sua gente, la figura delicata, elfica quasi, i capelli candidi e gli occhi vermigli, l’agilità di fisico… una creatura molto rara. Il mio sottoposto drow mi ha assicurato che ce ne sono veramente pochi… tendono ad ucciderli non appena vengono alla luce, li considerano un segno dello scontento della loro divinità ragno.» il tono del grassone era deferente, ma non solo: c’era una vena di timore forse solo in parte reverenziale.
«Interessante.» commentò l’uomo, avvicinandosi ancora a Shasta – e poi fece la cosa più strana che l’albino avesse visto da quando aveva abbandonato il sottosuolo: chiuse gli occhi e gli annusò la gola, nell’incavo. «Non menti, anche se è appena percepibile.» disse poi, allontanandosi lentamente verso la sua seduta.
«Potrebbe perfino essere unico nel so genere. Il mio sottoposto mi ha assicurato che non ne sopravvivono mol…»
«Basta così, ho capito. Aliio?» l’uomo non si volse a guardare «Pagali.» disse, sbrigativo, fermandosi il minimo indispensabile. Poi, quasi con un ripensamento, volse il capo verso Shasta «Capisci quel che dico, Albino?» domandò, parlando lentamente. Lui annuì debolmente e l’uomo, con un mezzo sorriso compiaciuto, si girò verso il ragazzo «Aliio, provvedi a trovare qualcuno che possa spiegargli le regole della casa. E chiama Sharone: passerò la giornata con lei.» concluse, poi imboccò una porta e vi scomparve attraverso.
Lo vendettero per cinquantasette Saith mentre, trattenuto da una catena che gli strozzava il respiro all’altezza del pomo d’Adamo,  Shasta cercava di ingaggiare una lotta contro i suoi carcerieri. Mentre l’incubo porgeva con affettata deferenza la catena al ragazzino umano – studiandolo come un uomo farebbe con un pranzo lauto che non può gustare - l’albino scorse il sorriso compiaciuto sulla faccia dello schiavista e capì che avevano pagato bene per la sua vita. Non ne fu orgoglioso, tuttavia, almeno non subito: la sua mente si feriva attorno alle congetture, arrovellandosi su cosa l’avrebbe atteso.
Merce rara, l’aveva definito lo schiavista, e Shasta non poté fare a meno di pensarci mente lo conducevano attraverso il marmo e il velluto di stanze affrescate e poi su, fino ad una stanzetta priva di finestre, con un letto, un grande armadio e un tavolino su cui era poggiato un vassoio, che spargeva nella stanza odore di carne.
Mentre mangiava qualcuno gli disse che tutto ciò che doveva fare era compiacere il suo signore e in cambio ne avrebbe avuto il paradiso; disse che erano i prediletti, poi passò a parlare di cibo, di sangue e della strada – frasi sconnesse, parole che Shasta capiva a metà, concetti troppo difficili per le sue capacità linguistiche. Fece domande, ma il suo interlocutore non comprendeva, e ben presto lo lasciò solo nelle stanze da bagno, a riflettere sulle parole dell’uomo grasso.
 
Quello che Gabriel faceva con le sue prede più rare, Shasta lo scoprì quella notte.
Il ragazzetto venne a condurlo attraverso corridoi senza fine e lungo scalini rivestiti di tappeti ocra fino ad una grande stanza con solo un ampio letto al cento, nascosto dal baldacchino. Sulle coperte riposava l’uomo pallido, avvolto da una veste da camera color delle sabbie.
«Siediti» disse solamente e Shasta, che mai fino a quel momento aveva obbedito docilmente al comando di un maschio, di colpo sentì di poter fare tutto quello che l’uomo gli chiedeva.
Così venne avanti, catturato dalla malia della sua voce e dal fascino di quegli occhi a mandorla, il cui colore ricordava le braci morenti, simili ai suoi. «Non temere. Quel che voglio da te è solo vita, solo cibo. Non ti chiederò nulla più di quanto puoi darmi, e in cambio avrai il lusso, in cambio avrai le sete e il marmo, l’oro e il cristallo. In cambio avrai me.» sussurrò, soffiando l’ultima parola in una nuvola di fiato freddo che eccitò Shasta quanto non avrebbe creduto possibile. Gabriel passò una mano sul collo dell’albino, accarezzandoglielo piano: aveva dita gelide, come fosse fatto di pietra, e odorava di sangue e morte, ma Shasta non ci fece caso. Aveva gli occhi chiusi, il respiro che usciva mozzato. «Chiedi e ti sarà dato. È questo che vuoi in cambio?» domandò Gabriel, e le sue labbra scendevano lungo le guance e toccavano gli zigomi, la mascella, la bocca, senza mai fermarsi il tempo necessario da poterlo chiamare bacio, ma solo carezza. Shasta annuì, e Gabriel affondò le mani nei capelli candidi dell’albino, mentre la sua lingua fresca scorreva come una brezza piacevole sulla pelle infuocata dello jaluk. Poi, senza che Shasta fosse in gradi di dire come o perché, le mani di Gabriel avevano slacciato i nodi della tunica corta che gli avevano dato ed erano scese lungo il petto fino al suo sesso, eccitato e duro; e mentre lo toccava, la lingua continuava a disegnare arabeschi gelidi sul suo collo, sulle spalle, sul monte alla gola.
Poi la veste da camera scivolò via, liberando un corpo flessuoso e pallido quasi quanto quello di Shasta, e prima che potesse razionalmente accettarlo era dentro Gabriel, ansimando per sfogare quella passione che era montata come una marea improvvisa e che gli bruciava la pelle, rendendo il contatto con l’uomo pallido non solo desiderabile ma necessario, come un balsamo su un’ustione.
Mentre Shasta ansimava senza controllo, Gabriel prese a mordergli il collo: piano, dapprima, poi con maggior decisione, al ritmo della passione montante, fino a diventare doloroso – eppure era un male che aumentava l’eccitazione dell’albino, spingendolo a una foga maggiore, mentre gemiti di passione lasciavano le sue labbra. E poi, quando il sangue cominciò a scorrere attraverso il corpo riarso di Gabriel, donandogli nuova vita e vigore, l’orgasmo travolse Shasta, lasciandolo con un brivido lungo la schiena e privato delle energie, alla completa mercé del suo signore, che ne bevve la vita e poi, con un bacio, richiuse la ferita e si stese, ridendo, accanto all’albino.
 
«C’è chi vuole oro, chi desidera una vita agiata per i suoi figli o chi semplicemente vuole me. Io non nego nulla a nessuno: sono ricco e amo vedere le passioni di questo mondo. I loro desideri mi fanno sentire vivo, e più a seconda di quanto essi bramano. Per questo prima o poi tutti voi divenite miei amanti: perché solo nei coito i desideri sono spinti al limite e le passioni si esprimono, libere.» disse Gabriel una notte, mentre entrambi sedevano nel grande giardino d’inverno, circondati dal fiori autunnali. «In cambio chiedo solo che mi nutrano. Trovo che sia uno scambio più che vantaggioso per entrambi, no?»
«Ma tu… nobile. Tu… perché no… prendere… quello che vuoi. Perché… uccidere, no… non…» disse Shasta, cercando di districarsi attraverso le parole della lingua comune che gl’era imposto di conoscere. Si era sorpreso nel constatare che, nei lunghi anni trascorsi a morire pian piano nei tunnel, gran parte di quell’idioma era scomparso dalla sua gola.
«Perché non uccido, come tutti gli altri vampiri? Perché allevo le mie prede invece di cacciare?» domandò Gabriel, sollevando un poco la ninfa che teneva in grembo, attirandola a sé «Perché il mio cibo è selezionato. Colleziono solo esemplari rari, il cui sangue ha sapore gradevole o… strano. Come il tuo, mio caro: il sangue di un drow comune è corrosivo e doloroso, ma il tuo… il tuo è piccante e commestibile allo stesso tempo; diluito, eppure corposo. Un esemplare unico, questo tu sei! Come potrei toglierti la vita? Sarebbe un tale spreco. D’altronde il sangue si rigenera più o meno velocemente… e io posso attendere. Posso attendere tutta un’esistenza» concluse Gabriel e lo baciò, allungandosi sopra la spalla cioccolato della femmina che lo cingeva, smaniosa. Shasta lo lasciò fare, sebbene un tempo non avrebbe neanche contemplato l’idea – ma tutto era cambiato da allora: Shasta era in preda della malia del vampiro, il cui fascino l’aveva reso schiavo in una maniera che l’albino accettava con gioia.
Era come nella casetta, come con Kania, sebbene all’apparenza potesse non sembrare così: in fondo, il suo padrone era tale solo di fatto, giacché sotto le coperte era Shasta a prendere il potere, concedendo a Gabriel il lusso di essere il suo novo gioco. Eppure, nonostante la supremazia che Shasta sentiva di avere  sull’altro, lui continuava a viziarlo, donandogli qualunque cosa desiderasse e facendolo vivere nel lusso, permettendogli perfino di praticare la magia che aveva appreso e di studiarne le variabili in voga a Soham in quel momento. A poco valeva dirsi che così era anche per le altre settantacinque anime che componevano il suo serraglio: Shasta sapeva che quella situazione era solo temporanea. Era ben deciso ad ingraziarsi il padrone e divenire il solo beneficiario di ogni concessione.
non trovava difficile irretire Gabriel: era un essere pieno di passioni, sprofondato nel vizio senza possibilità di ritorno e nella noia tanto da trovare conforto al peso del tempo solo negli intrighi, o sotto le lenzuola. Prova ne erano i suoi gusti sessuali. A differenza sua, Gabriel non disdegnava l’abbraccio di una femmina: era insaziabile, bramoso di un contatto che non gli dava altro piacere se non quello di nutrirsi.
A Shasta andava benissimo. In cambio del suo sangue, Gabriel gli concedeva il dono di fare di lui quello che più desiderava – in fondo a Shasta cosa importava di essere nutrimento? Le ferite di uno jaluk si rigenerano in fretta, il sangue tornava a scorrere in breve tempo.
Dunque nelle notti si usavano a vicenda, esplorandosi come due predatori affamati, assaggiandosi, strappando ognuno qualcosa all’altro, convinti di avere la supremazia, mentre di giorno, immersi nell’oscurità congegnale dei corridoi, praticavano l’Arte nella sua forma più proibita, godendo del reciproco sapere, segretamente grati dei misteri che credevano di star strappando con l’astuzia l’uno all’altro.
Shasta stava perdendo la sua natura, ma non poteva farne a meno: nessuno mai gli aveva dato un piacere grande come quello che Gabriel sapeva donargli. Ogni sua carezza, ogni gemito, ogni tocco di quella pelle fredda e morta era inebriante come una droga, ogni suo morso piacevole come l’orgasmo e altrettanto distruttivo. 
Dopo i primi sei mesi, Shasta sognava di invertire i ruoli, facendo di quella reggia la sua casa e del suo padrone un servo. Dopo un anno smaniava di gelosia, vedendo femmine d’ogni razza e specie dividere il letto di Gabriel mentre lui, spossato e pallido, attendeva d’avere in corpo abbastanza plasma da soddisfare l’appetito sempre vivo del vampiro.
A due anni dal suo arrivo lasciò la casa per la prima volta, ma non gli venne neppure in mente di deviare verso la libertà tanto sognata; sbrigò le commissioni come un bravo servo, la pelle che fremeva dalla voglia di tornare in quella casa, alla voce inebriante di Gabriel.
Trascorso che fu il terzo anno, le vene di Shasta erano così piene della droga c’era il morso passionale di Gabriel che l’albino avrebbe fatto tutto pur di divenire l’unico, per lui.
Fu così che, quando il vampiro lo chiamò nelle sue stanze per affidargli un compito, non pensò neppure per un istante di tirarsi indietro. 

  
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