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Autore: Arisu95    21/06/2013    0 recensioni
Romano ed Antonio si sono lasciati bruscamente, mentre Feliciano sembra vivere un sogno.
... Ma la disperazione di Romano, porterà presto disordine anche nella vita del fratello, fino a stravolgere la sua vita sentimentale e quella di altre persone.
- Il Rating potrebbe alzarsi ad Arancione;
- Alcune coppie sono destinate a sciogliersi;
- Alcuni personaggi muoiono;
- Presenti coppie sia Hinted che Crack;
- Presenti scene sia romantiche che di sesso;
- Le scene di sesso non sono molto esplicite e tendono ad essere tagliate.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NOTE. Hello!! Arriva l'Estate e finalmente trovo il tempo di scrivere in santa pace! xD ... Sono stata davvero stressata ultimamente, non riuscivo quasi a pensare a nulla di diverso dalla scuola @-@;; .. Comunque sia! Eccoci con il 13° Capitolo ... Feliciano non sarà solo ancora per molto ... Forse eue. Spero vi piaccia ..
Buona lettura! C: 
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Capitolo 13

 

 



 

Feliciano era tornato alla sua scrivania.
Era passato giusto un week-end dall'ultima volta che aveva messo piede in ufficio, ma erano accadute così tante cose, che gli pareva fosse passata un'eternità.
Era cambiato tutto ...


Era incredibile quanto le vite delle persone potessero essere cambiate in un istante.
Gli uomini erano così fragili, che bastava un week-end per distruggerli o per farli rinascere.
Bastava un giorno per farli morire dentro.
Bastava un giorno per farli cadere dai cieli serafini al Cocito infernale.
Bastava un giorno per farli meditare, soffrire, ricredere e quasi perdonare.
Bastava un giorno per bruciarli come cenere, e dalla cenere farli risorgere.

L'italiano prese a dondolarsi sulla sedia.
Aveva sentito il cuore farsi appena meno pesante, quella mattina.
O, perlomeno, l'aveva sentito riempirsi di sentimenti diversi, mutati, seppur ancora feriti.

Aveva deciso che rimanere da Francis ancora, era semplicemente insensato.
Suo cugino aveva una vita (e, da quel che Feliciano ancora sapeva, piuttosto 'movimentata') e benché si fosse mostrato ben felice di accoglierlo tra le sue braccia, sapeva che per il biondo questo comportava un certo limite di libertà.
Così, quella mattina, alla domanda di Francis se avesse dovuto dargli le chiavi di casa sua per rientrare, l'italiano scosse la testa, affermando che avrebbe preso l'autobus e sarebbe tornato a casa.

A casa sua.
Sì ... Solo sua.
Gilbert non c'era ...
Gilbert non c'era più.
Non c'era più ... Per lui.

"Non preoccuparti per Romano. Lo riporto a casa io domani mattina ... Se sei d'accordo."


Fu l'ultima cosa che l'albino gli disse la sera prima, prima che Feliciano abbandonasse l'ospedale con Francis, lasciando Romano addormentato nel suo lettino, e Gilbert sulla sedia ad esso adiacente.

Non si era neppure premurato di chiedergli cosa avesse avuto intenzione di fare con il lavoro.
Riaccompagnare a casa Romano, sarebbe significato per lui non andare a lavorare.
Si sarebbe messo in malattia?
E se qualcuno lo avesse scoperto ...?
Un certo timore lo aveva pervaso, ma cercò di scrollarselo di dosso in un pigro movimento del capo.

Non era affar suo ...
Non più.
Realizzare tutto cio', assumere quella nota di sofferto egoismo, feriva più che mai il cuore benevolo dell'italiano, ma sapeva che era per il suo bene.
Sapeva che doveva dimenticarsi del loro rapporto.
Anche nel caso in cui non avesse cessato di vederlo (era forse quel maledetto Venerdì specchio della verità? Forse suo fratello e l'albino ... Si amavano?), sapeva che doveva a malincuore uccidere la parte di lui che ancora all'anima tedesca era disperatamente avvinghiata.
Era l'unico modo che aveva ...
Per provare a stare bene,
Per provare a tornare a stare bene.

Com'era la sua vita, prima che Gilbert la travolgesse?
Non lo ricordava molto bene, ma doveva riprendersela.
Doveva riprenderla ad ogni costo e ad ogni lacrima.

"Hellò!"


"...!" - Una voce femminile lo fece voltare sorpreso. - "... Ah, ciao Eliza."

La sua voce era dolce.
Feliciano non voleva dare nulla a vedere.
Neppure a chi già sapeva.

"Ciao Feli." - Sorrise l'ungherese, con la sua solita voce, insieme infantile e materna. - "Come va..?"

Il suo volto si fece all'improvviso serio e preoccupato.
Non voleva sembrare curiosa o invadente...
Ma, a sapere come l'Italiano si sentisse, ci teneva davvero.
Gli voleva bene ... E mai avrebbe smesso di volergliene.

"Bene ... Mmh, meglio." - D'un tratto, Feliciano si ricordò di quanto avvenuto due sere prima, quando per poco non baciò la donna, ed arrossì lievemente, abbassando lo sguardo come preso da vergogna.

"...? Feli? Qualcosa non va? Perché quella faccia?" - Anche Elizaveta si ricordava benissimo di quanto avvenuto, ma la noncuranza che Roderich aveva mostrato, l'aveva resa molto meno impacciata sulla questione. Decise di sorridere ed osare un tono quasi scherzoso. - "Ancora per quella storia del bacio?"

"... Mi dispiace." - Mormorò, senza osare guardarla negli occhi.

"Ma dai! Non preoccuparti! Non é nulla, te l'ho già detto!" - Gli accarezzò appena la spalla, mimando uno spintone, e sorrise di nuovo. - "Ti confesso di averlo detto a Roderich ..."

"...? Mi odia, vero?" - Già si immaginava la faccia adirata dell'austriaco, che sicuramente non gli avrebbe più permesso di vedere Eliza. Magari le avrebbe persino fatto cambiare posto di lavoro, pur di non farli incontrare!

"Macché! Non se l'é minimamente presa!" - Negò la ragazza, con la voce squillante e giocosa.

"A volte sembra così ... S-Severo..." - Pensò ad alta voce, senza nemmeno incrociare il suo sguardo.

"Severo..? Chi? Roddy?" - A quell'ultimo soprannome, fece una smorfia dolce da bambina. - "Mavà! E' tutto fumo e niente arrosto! Can che abbaia non morde!"

"...Sì, e rosso di sera bel tempo si spera."


Si intromise un altro collega di lavoro, con il suo solito volto inespressivo. - "Elizaveta, ti consiglio di stare poco in giro, oggi il capo è intrattabile, per poco non lo mandavo aff-"

"--Sì Lukas, ora vado ... Il tempo di dire a Feli il motivo per cui sono venuta qui!"

"D'accordo. Comunque, ho sistemato il tuo pc, ora dovrebbe funzionare."

"Ok, grazie!"

"E' il mio lavoro ..." - Lukas alzò le spalle, insieme calmo e nervoso come sempre, quasi come un lago ghiacciato dalle acque segretamente in tempesta, prima di allontanarsi.

Feliciano era rimasto con il sorriso sulle labbra per la scena.
Gli sembrava di non assistere a scambi di battute così spensierati ed umani da un'eternità, sebbene fossero piuttosto frequenti in quegli uffici.

"Oh beh, sono felice che tu abbia sorriso!" - Elizaveta sorrise a sua volta, prima di mostrare a Feliciano un foglio scritto a mano. - "Volevo mandartelo per mail, ma il mio computer non funzionava ... Dovresti chiamare questo numero e seguire le informazioni che ti ho scritto. Ci ho messo una vita a scrivere! Non sono più abituata ad usare la penna!"

"D'accordo ... Ora lo faccio."

"Grazie! Io non ho proprio tempo, sono davvero indietro sulla tabella di marcia! L'altro giorno non sono riuscita a portarmi avanti nemmeno con gli straordinari ... Sono proprio una scansafatiche!" - Ammise la donna, sempre con il segreto scopo di alleggerire il cuore dell'italiano. - "Ora sarà meglio che vada ... Ciao Feli!"

"Ciao ..."

"Ah! Se hai bisogno un passaggio, non esitare a chiedere!" - Gilbert non sarebbe passato a prenderlo quel giorno ... E nemmeno quelli a seguire.

"Va bene ... Ti faccio sapere." - Rispose dolce Feliciano, donandole uno stanco ma sincero sorriso.

No ... Il suo Gilbert non sarebbe tornato a casa.
Il suo Gilbert non lo avrebbe chiamato per sapere come stava.
Il suo Gilbert non era più suo.
Così come quella casa non era più loro.
Ora, era solo sua.

"... ... ..."


Di nuovo occupato.
Maledizione!
Roderich posò per l'ennesima volta la cornetta del telefono.
... In realtà era solo la seconda volta, ma gli sembrava di trovarsi in quell'ufficio da secoli.

Raivis Galante


Gli caddero gli occhi sul foglietto di carta sulla scrivania.
Un foglietto di carta strappata, scritto in fretta e furia, che qualche suo collega gli aveva passato come una bomba in procinto di esplodere, con poche ed affrettate spiegazioni ed una ben più elaborata scusa per fuggire.

A quanto pareva, quel ragazzo non si presentava a scuola da qualche giorno, ormai, e la scuola si era sentita in dovere di saperne il perché.
La scuola, certo.
Ma, quel giorno, pareva che nessuno avesse avuto la minima voglia di chiamare a casa la famiglia.
Così, ipocrita dopo ipocrita, dalla preside alla segretaria, tutti si erano passati quel foglietto di mano in mano, decantando falsamente l'importanza della scuola e la salute degli studenti, preoccupandosi poi ben più sentitamente del loro agognato tempo d'ozio.
Così, scusa dopo scusa, parola dopo parola, l'infausto compito di chiamare la famiglia, scritto come una condanna a morte invisibile su quel foglietto di carta, era toccato a lui.

Era toccato a lui, Roderich Edelstein, che di quel ragazzo sapeva a malapena il nome.
Non era un suo studente, non l'aveva forse mai visto, e di certo non gli importava sapere il perchè fosse a casa da ...
Da quanto?
Quattro giorni?
Cinque, forse?
Ecco, non sapeva nemmeno questo.

Non riusciva proprio a capire perchè la preside, in modo così ipocrita, se ne preoccupava.
C'era un sottile gusto tipicamente scolastico, nel voler mettere per forza il naso nelle questioni altrui.
Quella voglia di sapere tutto di tutti, ogni cosa su famiglia, genitori e compagnie, che era più per ossessione che per vero interessamento.

Infondo, la scuola era un obbligo.
Un obbligo  ...
Roderich odiava quella parola.
Per quanto severo e intransigente potesse sembrare, la filosofia del 'dovere prima del piacere' era a lui estranea.
Era uno dei motivi per cui aveva deciso di intraprendere la carriera musicale.
Qualsiasi professione, musicista o professore (no, quest'ultimo lavoro l'avrebbe lasciato presto ... Perlomeno avrebbe lasciato l'insegnamento nella scuola superiore, non avrebbe mai voluto ritrovarsi tra quelle mura ipocrite a vita), gli bastava avesse a che fare con la musica: così, si sarebbe potuto crogiolare almeno un po' nella sua passione anche mentre lavorava.
Non avrebbe mai sopportato di lavorare per qualcosa di diverso dalla musica, perchè allora l'avrebbe sentito solo come un dovere.
Altra parola che odiava.

Allora, poteva ben immaginare come la maggior parte degli studenti odiassero la scuola.
Era un dovere.
Nonostante i richiami, nonostante le note, nonostante i brutti voti che fioccavano sul registro come neve a Dicembre ...
Segretamente li compativa.
Fare qualcosa contro la propria volontà non ha senso.
Si rischia di farla svogliatamente e male.
Era inutile intestardirsi e cercare di insegnare a chi non aveva la minima intenzione di imparare.

"Se fossi loro padre, li ritirerei dalla scuola e li manderei a lavorare. Un diploma preso a forza vale meno di questo foglio di carta straccia."



Invece no.
Quei genitori perseveravano.
Anche dopo la soglia dei quindici anni, o dei sedici, continuavano ad insistere e mandare i loro figli a scuola, decantandoli come geni incompresi.
Non importava, poi, se il diploma ottenuto fosse stato come una bolla di sapone, un involucro fragile e sottile ad occultare il niente.
L'importante era averlo, elogiare i sei come se fossero dieci, occupare i figli con premi tecnologici e superficiali per ottenere risultati ancora peggiori.

"A mio figlio non--"

...!
'A mio figlio' ...?
Roderich non aveva figli.
Che gli era preso?
Non era padre di nessuno.
Non aveva nessun figlio.
E non stava nemmeno per averne.
... Già.
...?
Forse, in fondo, ne avrebbe voluti?

"Pensa se avessimo una bambina..."


Le parole di Eliza gli risuonarono nei timpani, come una melodia insieme dolce ed inquietante.
Non sapeva più dire se, tra le note che l'avevano inondato, distingueva più fiori timidi e teneri sbocciare nella rugiada tiepida sotto gli accordi più armoniosi, o rovi scuri senza more ammassarsi tra quelli più sinistri e dissonanti.

Gli cadde di nuovo lo sguardo sul foglio di carta.
Scosse la testa.
No ... Non era il momento per pensarci.

"Pronto...?" - Senza accorgersi, aveva digitato per la terza volta il numero e, finalmente, ebbe una risposta.

"Buongiorno." - Che stupido. Tutto quel tempo a pensare, e non si era neppure premurato di impostarsi un discorso. - "... E' la scuola."

"Oh...!" - L'altro ebbe un sussulto sorpreso e maldestro, ma la sua voce si fece subito più sicura. - "Ha chiamato per Raivis, vero? Mi dispiace ... Purtroppo non è stato molto bene ultimamente. Ma credo che potrà tornare a scuola domani, o al massimo dopo domani."

"... Bene." - Rispose freddo Roderich. Aveva quasi cercato di distrarsi per non ascoltare ... Di quelle giustificazioni, valide o meno, non se ne sarebbe mai fatto nulla.

"Mmh..." - L'altro rimase un po' incerto, in silenzio, prima di aggiungere un impacciato 'arrivederci' e concludere la chiamata.

L'austriaco posò di nuovo la cornetta, prese il foglietto e lo strinse nel pugno fino a stropicciarlo.
Si avvicinò al cestino, lo buttò ed uscì dalla segreteria.
Non aveva più voglia di pensare.
Aveva fatto il suo dovere, che l'avesse voluto o meno, ed ora non lo attendeva nient'altro che una noiosa ora di scuola in compagnia delle sue amate note.


Silenzio.
C'era solo silenzio.
In quella fresca mattina di sole, c'era solo silenzio.
C'era stato silenzio quando Gilbert aspettò Romano fuori dalla sua stanza.
C'era stato silenzio quando insieme ascoltarono le ultime raccomandazioni del medico.
C'era stato un silenzio imbarazzante sull'ascensore, quando i due scesero al pianterreno dell'ospedale insieme, in secondi scalati come ore.
C'era stato silenzio nel tragitto in auto, dove entrambi, passivamente, lasciarono che la radio penetrasse le loro tempie, fino a far tacere i loro pensieri.

Ora, sulla porta d'entrata di Vargas, c'era ancora silenzio.
Il passo di Gilbert si era fatto pesante, i suoi movimenti più maldestri, nella speranza di infrangere il tacito divieto di parlare.
Al contrario, Romano, si era fatto sempre più silenzioso ed attento, quasi impaurito all'idea di emettere un suono.
Si era fermato proprio davanti al suo salotto, a pochi passi dalla porta, ad osservare con occhi di vetro il divano, l'odioso teatro che scoprì la sua vera natura.
Era un bastardo ... Un grandissimo bastardo.
Quasi quanto lo Spagnolo.


"Stai bene? Hai bisogno di qualcosa..?" - Si premurò infine di chiedere l'albino sull'uscio, nel disperato bisogno di sentire l'altro parlare.

"No ..." - Rispose Romano senza neppure voltarsi, prima di chinare il collo bronzeo ed aggiungere, in un lieve sussurro. - "Grazie..."

Grazie.
Ecco, l'aveva detto di nuovo.
Non era più lui.
Non era tipo da ringraziare le persone.
Soprattutto ... Non a parole.
Che gli stava succedendo?!

Grazie.
Quella parola appena sussurrata gonfiò il cuore del tedesco di una strana e remota felicità.
Era la seconda volta che l'italiano lo ringraziava ... E sapeva quanto raro fosse sentire quella parola uscire dalla sua bocca.
Raramente l'aveva pronunciata per Feli, ancor meno per Antonio.
Eppure ... A lui, Gilbert Beilschmidt, aveva riservato l'onore dei suoi ringraziamenti.
Era la seconda volta che lo ringraziava, e il primo 'grazie' risaliva a meno di ventiquattr'ore prima.

Al contrario, il suo (suo..? No, non più) Feli ringraziava fin troppo spesso.
Fin troppo spesso un dolce sorriso colorava le sue labbra rosate, mentre i 'grazie' fiorivano tra i denti bianchi e le iridi ambrate.
Troppo spesso esprimeva gratitudine, sorridendo sereno e socchiudendo gli occhi, fino a coprire le guance candide di un'ombra plumbea.

Feli aveva un cuore prezioso.
Aveva un cuore d'oro, grande e benevolo.
E Gilbert ... Gilbert l'aveva rotto per sempre.
Gli aveva inferto un colpo insanabile.
Anche se, nelle parole del dolce italiano, aveva trasparito un vago senso di perdono ... Quel cuore di pane era stato per sempre violato.

"..." - Una risata nervosa, e Romano era ancora di spalle. - "Sono un bastardo, vero?"

"No ..." - Gilbert scosse appena la testa, azzardando un sorriso teso che nessuno avrebbe visto. - "Non lo sei ..."

L'albino stava mentendo.
La realtà era che sì, almeno per un secondo, giusto per un secondo, aveva pensato che Romano fosse un bastardo.
Il pensiero l'aveva colpito inevitabilmente, insieme a mille altri, nello stesso istante nel quale la sua storia d'amore con Feli si era sciolta, evaporata e dissolta nel calore pazzo ed ubriaco dell'italiano dagli occhi d'oliva che ansimava sopra di lui.
Era finito tutto.
Tutto era finito nel tacito consenso di Gilbert.
Tutto era finito sulla fronte scura e sudata di Romano.
Tutto era finito negli occhi ambrati e increduli di Feliciano.

Feliciano era come una colomba.
Romano era come un corvo.
Il primo volava libero e alto nel cielo azzurro e infinito, piume di bianca cera consacrata contro il sole splendente e dorato.
Il secondo ispezionava infastidito il suolo in cerca di cibo, beccando ovunque con il becco di catrame, nascondendosi sotto una gobba di piume d'ebano.
Eppure, il petto dello scontroso corvo era tanto soffice quanto quello della gentil colomba.
Le ali, il ventre, il cuore di entrambi si sarebbe ugualmente sfaldato sotto lo sparo egoista del cacciatore.
Il cacciatore, anzi, i cacciatori, erano lui e Antonio.

La colomba volava alta nel cielo.
Il corvo volava poco più in basso, guardandola con occhi scontrosi, amandola e invidiandola.
Il cacciatore spagnolo aveva già preso la mira.
Il cacciatore spagnolo aveva sparato.
Ferito ad un' ala, con l'ira funesta di chi vede la fine ma non la vuole, il corvo non usò le sue ultime forze per decantare il cielo e la terra, ma con foga si avventò sulla colomba, punendola per la sua troppa fortuna.

Io già volavo basso, stupida colomba. Io già stavo soffrendo. Perché io? Perché tu voli ancora più alto mentre io perdo quota? Ti odio troppo per amarti, colomba mia. Ti amo troppo per odiarti, colomba mia.


Fu allora che un altro cacciatore li stanò.
Il cacciatore tedesco sparò un colpo, un'unica pallottola, e lì colpì forse entrambi.
Il corvo e la colomba caddero insieme, vicini, e il tedesco pentito accorse sul posto.
La colomba lo guardava, con gli occhi scuri ancora lucidi che parevano concedere una grazia.
'Ti perdono' parevano dire, mentre la morte lentamente li appannava.
'Ti perdono' parevano ripetere, mentre un'ala stanca si era mossa verso il corvo, che ancora, a fatica, respirava.
Il cuore tenero della colomba aveva smesso di battere.
Quello del corvo lottava tra la vita e la morte.
Il cacciatore non potè fare altro che seppellire in silenzio la delicata colomba.
Il cacciatore non potè fare altro che esaudire il suo ultimo desiderio.
Prese tra le mani lo schivo corvo, che con le sue ultime forze lottava, e si avviò in paese, pentito e, per la prima volta, benevolo.

Ora il corvo era davanti a lui.
Aveva le ali bendate e i pensieri confusi, ma non aveva perso il suo fare scontroso.
Eppure, sotto le ali color cenere, anche Romano aveva un cuore di colomba.
Gilbert lo sapeva.
Ne era convinto.
Forse era stato Feliciano a dirglielo ...

"...!"


Ebbe un sussulto quando sentì due braccia forti stringersi gentili attorno a lui.
Romano non aveva voglia di lottare.
Non più.
Non ora.
'Lasciami stare!' - aveva gridato una voce lontava nella sua mente, ma non aveva voluto ascoltarla.
Prima ancora di potersene rendere conto, l'italiano si era lasciato appena cadere nel petto dell'altro, socchiudendo gli occhi e sospirando.
Come un guerriero stanco di combattere.
Come un corvo stanco di beccare.

"Non pensarlo mai più, Romano ..." - Gli sussurrò all'orecchio, dolce ma severo. - "... O resterò qui fino a quando non cambierai idea."

Rimanere lì..?
Perché l'aveva detto?
Era una richiesta? Un ricatto?
Un ricatto stupido.
Davvero stupido.
Eppure Gilbert non riusciva neppure a scuotere la testa, né ad ammettere la stupidità delle sue parole ... Né a liberare l'altro dal suo abbraccio.

Romano era arrossito.
Nascose il volto sotto i capelli scuri, sperando che l'altro non se ne accorgesse.
Il suo cuore aveva preso a battere più forte.
Forse voleva davvero che l'albino restasse lì con lui..?
Ma questo sarebbe significato tradire il suo fratellino ancora una volta.
Eppure lui, in fondo, al suo fratellino voleva un bene immenso ...
Come aveva potuto fargli questo?
Come era finito tra le braccia di Gilbert?
Ma il suo cuore batteva in modo sincero ... Troppe volte aveva preferito negarlo, a sé stesso e al mondo.

"M-Ma ora, dopo che ..." - Evitò i ricordi come vetri rotti. - "... Dove vivi?"

...?
Gli importava dove vivesse?
Perché gli importava?
Voleva forse ... Tenerlo lì con lui?
Forse era troppo presto per pensare a certe cose ...
Eppure ...
Le parole avevano lasciato la sua bocca prima ancora di poterci riflettere su.

"...?" - L'albino lo guardò incuriosito, prima di accennare un sorriso ed alzare le spalle, ancora abbracciato a lui. - "Da mio fratello."

Aveva una voglia matta di chiedergli il perchè di quella domanda.
Aveva una voglia matta di sentire la risposta.
Aveva voglia di sapere se Romano, quel giorno, oltre che per l'alcool, avesse agito per amore.
Aveva voglia di sentirsi dire 'ti amo' ...
Forse avrebbe ancora voluto sentire quelle parole da Feli.
Ma non le avrebbe disdegnate nemmeno da Romano.
Le avrebbe accolte con piacere e l'avrebbe abbracciato ancora, con più foga, fino a che il suo calore non sciogliesse il suo cuore.
Come aveva fatto Feli ...
Come, quella sera, pareva forse aver fatto Romano.
Non lo sapeva con certezza ...
Non lo sapeva ancora.
E il non saperlo gli bruciava sulla pelle come acido.

"..." - Forse l'italiano avrebbe voluto dirgli di rimanere lì, con lui ... Ma, la verità, era che Romano era diretto solo quando si trattava di odiare, molto meno in amore. - "Le tue cose ... Sono ancora da mio fratello, vero ..?"

"Sì ..." - Gilbert sospirò, e in quel 'sì' sommesso sentì il cuore salirgli in gola ed uscire dalla bocca, lasciando il suo petto vuoto e sconsolato. - "Credo che andrò a prenderle ... Oggi o domani ... Devo avvertirlo."

"Se Ludwig non ha spazio a casa sua ... Per le tue cose, intendo." - Si affrettò ad aggiungere Romano, con il cuore a mille. - "... Puoi tenerle qui ..."

"Davvero ..?" - Gilbert era troppo malizioso per non leggere altro tra le righe. Era un membro del Bad Touch Trio, dopo tutto!

Già ... Il Bad Touch Trio.
Erano amici inseparabili ...
Ancora non riusciva a credere che tutto fosse cambiato.
Non c'erano più le serate di alcool e fumo.
Non c'erano più le gare, ogni fine settimana, per scoprire chi aveva fatto più strage di cuori (o di corpi..?).
Non c'erano più le domeniche in montagna a guardare le stelle.
Non c'erano più i sabati persi tra strade e locali.
Non c'era più nulla ...

Antonio era con Bella, e Gott solo sapeva se la donna gli avrebbe mai permesso di frequentarsi con gli altri.
Francis era ormai preso dal suo caro e sconosciuto inglesino, e aveva interrotto i rapporti con loro, asserendo che era solo per qualche tempo, ma Gott solo sapeva se li avrebbe mai perdonati per aver spezzato i cuori dei suoi amati cugini.
... Infine, c'era lui, Gilbert.
Aveva quasi messo le mani addosso ad Antonio, quando questi lasciò Romano solo come un cane, dopo avergli messo in testa corna grandi da alce.
Poi, ci aveva ripensato, e quasi era riuscito a comprendere il suo gesto.
Infine, ne compì uno più grande.
Tradì Feli, l'unico ragazzo che era riuscito ad addolcire il suo cuore.
Non lo tradì con uno qualsiasi, no, ma con il suo amato fratello maggiore.
Quello stesso fratello che Antonio aveva abbandonato dopo l'ennesima lite.

Ed ora, il tradito e il traditore, erano lì, l'uno abbracciato all'altro, chiusi in un dialogo in gabbia e in salita, difficile da continuare.

"Mmh..." - L'italiano annuì piano, facendo tornare il tedesco alla realtà. - "Tanto, il bastardo si è già portato via tutto ... Ho spazio, qui."

"Grazie." - Ringraziò sincero l'albino. Sapeva quanto a Romano costasse essere gentile ... Ma, quando lo era, era davvero in grado di scioglierti il cuore.
'Antonio aveva ragione ...'


"Bonjour, mon amour~" - Sussurrò dolcemente Francis, appoggiando l'orecchio al cellulare come se fosse la spalla del suo amato, socchiudendo gli occhi e cullandosi nel suo romantico pensiero.

"Sei tu!" - L'inglese, dall'altra parte, in quel sussurro non ci vedeva nulla di dolce, né di romantico. Non voleva vederci nulla. - "Quante volte te lo devo dire di non chiamarmi mentre sono al lavoro?!"

"Ma è la pausa pranzo ..." - Sottolineò il francese alzando le spalle, ammaliato e un po' dispiaciuto dal comportamento di Arthur. - "E come sarebbe a dire 'sono io'? Certo che sono io! Non hai visto il mio nome sullo schermo, prima di rispondere? Non nasconderlo, hai risposto perchè volevi sentire la mia voce ... N'est pas?~"

"Certo che no! Ne avrei fatto volentieri a meno!" - Eppure, già sentiva le guance scaldarsi, di uno strano e delicato tepore che solo la voce di Francis sapeva provocare. Fuck, quanto lo odiava! - "N-Non è comparso il tuo nome!"

"Mmh, non mentirmi Rosbif ... Lo capisco quando dici le bugie. Ormai ti conosco~"

"E' la verità! E smettila di chiamarmi 'Rosbif', jerk!"

"Oui, la verità ... Come no. Se continui a mentirmi, stasera sarò costretto a fartela pagare, Rosbif ..." - Un sorriso, insieme dolce e diabolico, invase le sue labbra, mentre prese ad attorcigliarsi i bei capelli biondi tra le dita. - "... E, se tu non la smetti di chiamarmi 'Jerk' e 'Frog', non vedo perchè io dovrei smetterla di chiamarti 'Rosbif', mon chèr Sourcils ..."

"W-Whatever..." - La prima parte della frase aveva spinto l'inglese a voler cambiare discorso ad ogni costo, ignorando i battiti del suo cuore e il crescente calore sulle sue gote. - "Tuo cugino starà da noi ancora per molto?"

"...? No, stamattina mi ha detto che ha intenzione di tornare a casa sua oggi stesso."

"Davvero? Non mi stai prendendo in giro, vero? Giuro che se me lo trovo di fronte, ti ammazzo ..."

"Davvero! Non ha nemmeno voluto le chiavi di casa! Non potrebbe entrare nemmeno se lo volesse, a meno che noi non gli apriamo ..." - La sua espressione mutò di colpo, e due occhi furbi e complici scivolarono svelti verso il cellulare, perdendosi ad immaginare il volto di Arthur. - "Ma perchè me lo chiedi? Non ce la fai più a resistere senza di moi..?"

"...!" - L'inglese quasi soffocò nel suo stesso respiro, intuendo a cosa quel 'moi' alludesse. - "Idiota! Ora lasciami mangiare in pace! Non ho intenzione di sprecare la mia pausa pranzo a parlare con te!"

"Je t'aime aussi, mon amour ..." - Sussurrò il francese.

Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, prima che la linea cadesse.
Francis sorrise di nuovo.
Sapeva cosa quel silenzio significava ...
Significava più di mille parole.
'I love you', ecco cosa voleva dire.
'Ti amo' erano quelle le dolci parole con cui Francis sapeva di dover riempire i puntini invisibili lasciati dal silenzio dell'inglese.
Era un silenzio meraviglioso.
Un silenzio che sapeva d'amore dolce e innocente da bambino.
Quanto inesperto era il suo Arthur ...
Era così dolce e goffo, in amore, che era impossibile non amarlo.

Ancora si chiedeva come avesse potuto rimanere solo per tutti quegli anni, senza che nessuno si accorgesse del suo splendore.
Arthur era bellissimo.
Non era della bellezza dei modelli vuoti e inespressivi sui cartelloni pubblicitari.
Non era della bellezza orgogliosa e irraggiungibile degli attori di cinema.
Non era della bellezza degli sportivi giovani e atletici.
Non era della bellezza dei cantanti emergenti e dal dubbio talento.
Non era nemmeno della bellezza maleducata ed incoscente dei ragazzini di scuola, quelli gradassi e immaturi che attiravano le ragazzette come api sui fiori.
Ma Arthur era bellissimo.
Semplicemente bellissimo, di una bellezza che non colpisce gli occhi come il sole d'Estate, ma come una stella li evita, standosene tacita insieme alle altre, troppo riservata per osare brillare di più.

Ad onor del vero, forse, Francis aveva talvolta passato la notte con uomini e donne più belli di Arthur.
Ma, la loro, era una bellezza vuota, di vetro.
Come il vetro si facevano attraversare dalla luce e si sentivano belli, dimenticando che senza di essa sarebbero stati solo bei vasi di vetro intarsiati nell'ombra.
Si vedevano belli allo specchio, e come allodole si specchiavano, senza rendersi conto che quella bellezza che decantavano non era la loro, ma era la luce della giovinezza.
Non era la loro anima ad essere bella, ma era la giovinezza ad abbellirla.

Con Arthur era diverso.
L'inglese non brillava come il sole d'Estate.
L'inglese brillava timido come una stella.
La luce della bellezza giovanile non l'aveva colpito come ai modelli sui poster, agli attori in tv e ai cantanti in concerto.
Ma non ne aveva bisogno.
Per chi sapeva notarla, la sua anima splendeva già, e più luminosa, meno spavalda della bellezza rimaneva quieta nel suo petto.
Forse nessuno aveva mai avuto l'occhio così attento da scorgerla.
Forse nessuno aveva mai provato a guardarlo negli occhi, ad ignorare ogni 'fuck' ed ogni 'jerk', fino a raccogliere quelle labbra prepotenti tra le proprie.

Francis era felice.
Francis era fortunato.
Ogni giorno ringraziava Dieu di avergli fatto conoscere Arthur.
Perchè sentiva di non poter vivere tutta la vita come ai tempi del Bad Touch Trio.
Si era divertito, e tanto.
Aveva desiderato, tanto quanto gli altri, che i loro giorni insieme non finissero mai.
Ma, un giorno, la luce della ragione l'aveva colpito.
Allora, si era guardato allo specchio, e si era chiesto se voleva davvero vivere tutta la sua esistenza così.
La risposta era stata no.
Aveva ormai superato i vent'anni, di poco a dire il vero, ma il loro peso iniziava a sentirsi.
Non lo sentiva nel corpo, o nel volto, o nel cuore.
Lo sentiva nella mente.

Nuovi desideri avevano iniziato a farsi strada in lui.
Aveva un lavoro, e ancora scorrazzava in giro come un ragazzino a caccia di esperienze.
Aveva un letto era troppo grande, e, passata la notte, rimaneva sempre troppo vuoto.
Aveva una cucina troppo bella per una persona sola.
Aveva un petto troppo vuoto.
Aveva un cuore troppo solo ed un corpo troppo impegnato.

Diceva sempre di voler amare con tutta l'anima, anche solo per una notte.
Ma, la verità era, che da qualche tempo una sola notte alla sua anima non bastava più.
Non erano più i volti benedetti dal piacere che cercava.
Non erano più i corpi stretti l'uno all'altro che cercava.
Non erano più i gemiti, né il sudore, né le unghie sulla pelle.

Ora cercava altro.
Cercava una notte di sonno tra le braccia del suo amore, senza nulla da dire o da fare.
Cercava un dolce sorriso innamorato tra le lenzuola fresche del mattino.
Cercava due tazzine di caffé fumante sul tavolo.
Cercava due giacche appese all'entrata.
Cercava due mazzi di chiavi.
Cercava due spazzolini da denti.
Cercava due spalle da stringere calmo sul divano, davanti alla televisione.
Cercava i battiti sulla porta e le liti per chi dovesse usare prima il bagno.
Cercava qualcuno da abbracciare e baciare dopo il lavoro.
Cercava qualcuno con cui bere il té la sera, raccontandosi le rispettive giornate fuori casa.
Cercava ... Un amore.

Lo aveva cercato, e finalmente era arrivato.
Era arrivato con un forte accento inglese e l'aria imbronciata.
Era arrivato parlando in modo rozzo e dandosi del 'gentleman'.
... Ma Francis già lo amava.
L'aveva amato dal primo istante, dal primo spintone, dal primo 'fuck you'.
L'aveva amato dal primo istante, e mai avrebbe smesso di amarlo.

"Ludwig ... Se non hai da fare, puoi accompagnare Feli a casa? E poi ... Puoi dirgli che ho intenzione di passare da lui? Non me la sento ... Lud, non ce la faccio a chiamarlo ... Non ce la faccio proprio. Danke."


Ludwig avrebbe dovuto tornare a casa prima, quel giorno.
La crisi cominciava a farsi sentire, e all'officina ultimamente c'era poco da fare.
Ancora non c'erano stati licenziamenti ... Ma le cose non andavano benissimo.
Gilbert l'aveva chiamato verso l'ora di pranzo, e gli aveva chiesto di passare a prendere Feliciano al lavoro.
Al nome dell'italiano, il biondo sentì il cuore battere più forte e un vago malessere sfiorargli lo stomaco.
Era da qualche tempo che, ogni volta che Feli veniva citato, si sentiva così.
Eppure, ancora non riusciva a darsene una spiegazione ...

Doveva essere il periodo.
Doveva essere il guaio che aveva combinato suo fratello.
Gli dispiaceva per Feli ... Gli dispiaceva davvero.
Beh, gli dispiaceva anche per Gilbert, ovviamente.
Ma il pensiero del volto dell'italiano stretto nel dolore e rigato dalle lacrime, lo faceva davvero rattristire.
Sì, doveva essere questo ...
Già, proprio così.

Eppure ...
Ora che ci pensava ...
Non si era sentito così anche prima?
Quando l'italiano lo baciava sulla guancia per salutarlo.
Feliciano baciava tutti sulla guancia ...
Ma lo faceva sentire strano.
... No.
Doveva essere perchè non era abituato a quel gesto.
Lui, Ludwig, non l'avrebbe mai fatto.
Bastava vedere il modo in cui lui e Vash si salutavano.
Erano migliori amici, eppure si salutavano in modo freddo e distaccato.
Come due soldati, fedeli fino alla morte, ma troppo duri per mostrare i loro sentimenti.
Sì ... Doveva essere per quello ...
Doveva essere la stranezza dei suoi baci, a farlo sentire così.
Era l'unica spiegazione possibile ...

Perso nei suoi pensieri, non si era nemmeno reso conto che era già in auto, in direzione dell'ufficio di Feli.
Gli alberi lo fissavano benevoli mentre scorreva sulla strada asfaltata, resa più fresca dall'ombra delle chiome.
Giusto un fascio di cielo, azzurro come i suoi occhi, era visibile da lì, incorniciato come un quadro tra le file di rami e foglie verdi e rigogliosi.
Le case, squadrate e pulite, si scorgevano appena dietro il viale alberato.
Un quadrato, un rettangolo, un triangolo ...
Ludwig amava scomporre nella mente le case in tante figure geometriche.
Era forse un divertimento stupido, un passatempo inutile, ma lo rendeva felice.
Pensare a come l'uomo fosse in grado di unire misure, numeri, figure e materiali per costruire qualcosa di nuovo come una casa ... Lo entusiasmava.
Se non avesse fatto il meccanico, forse avrebbe preso la strada dell'architetto.

Ma anche le auto gli piacevano molto.
Le amava come un musicista ama i suoni.
Le amava come un pittore ama i colori.
Le amava come le rane amano gli stagni e gli uccelli amano il cielo.

Da piccolo si stancava presto di giocare con le automobiline in miniatura.
Invece, amava smontarle.
Gilbert si lamentava, perchè qualche volta aveva anche smontato quelle con cui lui giocava da bambino.
Non le smontava perché gli piaceva rompere le cose, no.
Le smontava perchè voleva capirne i segreti.
Voleva capire come tubi lucenti e pezzi di metallo potessero, uniti, dare vita a qualcosa di così strano, meraviglioso, qualcosa che sapesse muoversi e spostare le persone.
Le smontava perchè voleva imparare a rimontarle.
Voleva essere in grado, un giorno, di costruirne una vera.

Così, ben presto, s'accorse che il meccanico era il lavoro che sognava.
Non era il medico, né l'astronauta, nemmeno il pilota di Formula 1.
Lui le auto le voleva far nascere, riparare, ascoltare.
Non voleva solo usarle.
Eppure, a dire il vero, avrebbe potuto aspirare ad una professione più ambita.
A scuola era sempre stato bravissimo.
Non era il classico ragazzo a cui, visti i pessimi voti, si consigliavano i famosi 'lavori manuali', pur di non vederlo più con una penna in mano.
Tutti l'avrebbero forse visto meglio come dottore, banchiere, architetto.
Invece no ... Non amava le case quanto le auto.
Aveva presto capito cosa voleva fare nella vita, e nulla e nessuno riuscì mai a fargli cambiare idea.

"Veh ..?"

"...!"

Così preso dai suoi pensieri, il tedesco nemmeno si accorse di essere arrivato.
Un curioso e stupito italiano era proprio vicino a lui, e lo osservava da dietro il finestrino ancora alzato, in attesa di spiegazioni.

"..." - Ludwig abbassò il vetro. - "C-Ciao Feli..."

"...? Ciao Ludwig!" - L'italiano fece un grande sorriso, forse per nascondere il velo di tristezza che ancora, in parte, appannava i suoi occhi, prima di concederne un secondo, più dolce e composto. - "Sono felice di vederti ..."

...!
Ecco.
Di nuovo.
Il tedesco aveva già sentito il cuore salirgli in gola, ed un vago senso di malessere all'altezza dello stomaco.
Eppure, i suoi occhi color cielo non riuscivano a staccarsi dal corpo e dal volto dell'italiano.
Forse lo stavano fissando in modo strano ...
Forse sarebbe stato meglio guardare altrove.
Ma ogni volta che ci provava, presto, i suoi occhi erano di nuovo su di lui, attratti come da una calamita.
'Sono solo preoccupato per lui ...'
Cercò di dirsi, mentre l'altro continuava a guardarlo sorridendo.

"Anch'io ..." - Fece un colpo di tosse e mandò giù la saliva, cercando la forza di parlare. - "Devo ... Devo portarti a casa."

"...? Davvero?" - Feliciano rimase un attimo in silenzio a guardarlo, sorpreso ma non infastidito, prima di donargli un nuovo, grato sorriso. - "Grazie, Lud!"

Stunk!


Prima ancora che il tedesco se ne potesse accorgere, l'italiano era già seduto al suo fianco ed aveva chiuso la portiera con un colpo secco e fermo.
Ora, ancora con il sorriso sulle labbra, guardava dritto davanti a sé.
S'accorse di non aver messo la cintura.
Si scusò, se la mise, e guardò di nuovo dritto davanti a sé.
Sospirò.

"...?" - Infine, si voltò un po' perplesso in direzione del tedesco. - "Non partiamo..?"

Chiese in un filo di voce.
Aveva forse fatto qualcosa di male..?
I suoi grandi occhi ambrati parevano velarsi pian piano di una nuova, lucida tristezza.
Perché Ludwig non rispondeva?
Perché non partiva?
Forse c'entrava Gilbert?
O doveva dirgli qualcosa di importante?
O di triste?

...!
Forse voleva dirgli che non voleva vederlo più.
Forse voleva insultarlo, maledirlo, perchè non aveva accettato di tornare insieme a Gilbert.
Forse era questo ...
Forse Ludwig era venuto per insultarlo, menarlo e lasciarlo a piangere sul marciapiede.
No ... Non voleva ...
Lui aveva perdonato Gilbert.
Davvero ...
Ma non se la sentiva di tornare con lui.
Avrebbe fatto male ad entrambi ...
'Ludwig, non essere arrabbiato ...'
Pensò, con gli occhi quasi in lacrime.

"...! Sì! Scusa!" - Solo allora il tedesco si accorse di essere osservato, e mise svelto in moto l'auto, in direzione della casa di Feli.

"...? Grazie." - Ripeté l'italiano, la tristezza svanita e le labbra di nuovo incurvate in un dolce sorriso.

"Feli ..." - Non voleva parlare di Gilbert, ma era stato Gilbert stesso a dirgli di ... Di ... - "Devo dirti una cosa."

"...? Cosa?"

"Gilbert ..." - Il nome di suo fratello, in quel momento, gli diede la nausea. Quasi come se potesse sentire, nel suo cuore, tutto cio' che Feli aveva provato. - "Ha detto di dirti che ... Che passerà a prendere le sue cose."

"...? L-Le sue cose..?" - Un rinnovato senso di smarrimento prese il dolce italiano, mentre il suo cuore prese a battere più forte e i suoi occhi promisero lentamente una nuova pioggia di lacrime terse e tiepide. - "... Q-Quando?"

"Oggi, credo." - Si stava sforzando di continuare a guardare la strada, e poteva immaginare lo sguardo triste di Feli. Se l'avesse visto con i suoi occhi, avrebbe perso la ragione. Ne era sicuro. - "Non mi ha detto un orario preciso ... Se vuoi glielo chiedo e ti faccio sapere."

"Va bene ..." - Rimase un attimo in silenzio a contemplare la strada, prima di voltarsi di nuovo, con due occhi grandi ed un sorriso dolce sulle labbra rosate. - "Sei un amico ..."

Un amico.
Ecco cos'era.
Eppure, Ludwig non si era mai sentito così in presenza di Vash.
Un amico ...
Era giusto un amico.
Continuava a ripeterselo, mentre inconsciamente guardava Feliciano dallo specchietto e la sua casa si faceva sempre più vicina.

... Continua ...

  
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