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Autore: Frytty    25/06/2013    4 recensioni
Solephine non ha mai smesso di credere nel futuro.
Quando la incontra, Robert capisce che il suo futuro è lei.
Stanno per coronare il loro primo anno di matrimonio con la nascita di un bambino, quando Solephine rimane coinvolta in un incidente stradale, entrando in coma.
Robert si trova in una situazione in cui non ha mai pensato di potersi trovare: solo, costretto a crescere un bambino che non sa se vedrà mai la mamma, ossessionato dal pensiero che Sole possa non svegliarsi più, troppe cose da fare, mille altre da gestire, emozioni da tenere a freno.
Dal Prologo
Non potevo sapere che avrei fatto bene ad essere spaventato; non sapevo che, quando il telefono era squillato ed io avevo letto il nome di mia madre, la mia vita non sarebbe stata più la stessa. D’altronde, come potevo?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutte! <3

Come state? Lo so, lo so, devo chiedervi perdono per la lunga assenza, ma la colpa maggiore ce l'ha l'ispirazione che, purtroppo, mi aveva abbandonata su una pagina bianca, ancora da cominciare. Se sono ispirata riesco a scrivere anche tre capitoli in una settimana, ma quando l'ispirazione manca... le due righe che scrivo non mi vanno neanche bene e finisco per scrivere e cancellare, scrivere e cancellare come un'ossessa, fin quando non mi innervosisco, perciò, perdonate l'immenso ritardo ç.ç

Parlando del capitolo: cosa posso dirvi? Beh, posso dirvi, innanzitutto, che è da proprio da questo quarto capitolo che inizia la vera vicenda, o meglio, la seconda parte di essa. Sì, insomma, è come se la Ff fosse costituita da due filoni distinti: uno che riguarda Solephine e Robert, e un altro che riguarda soltanto Robert. Magari non era stato molto chiaro fino ad ora, proprio perché si è sempre raccontato di Robert quasi in funzione di Solephine o di James ed ecco il perché vi dicevo che da questo capitolo comincia a srotolarsi la seconda matassa, quella che riguarda solo e soltanto Rob. Oddio, spero di essermi spiegata in maniera sufficientemente chiara :)

Cos'altro aggiungere? Ma certo! Ringrazio tutte coloro che hanno avuto la pazienza di commentare lo scorso capitolo, (GRAZIE infinite *.*), e anche tutte quelle che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da commentare, non ho parole, davvero: GRAZIE di cuore *.*

Spero di non tardare così tanto per il prossimo aggiornamento, ma, in tal caso, per ogni evenienza/annuncio, è a vostra disposizione il gruppo su Facebook dedicato alle mie Ff, You thought you know me; qui pubblico spoiler, aggiornamenti sulla scrittura, eventuali ritardi e foto dei protagonisti delle mie Ff, perciò, se volete unirvi alle già splendide undici persone che ne fanno parte, vi ricordo che dovete inviarmi un messaggio privato (qui, su EFP o su Facebook-e per quest'ultimo trovate il link ai miei due profili nella pagina scrittore) ed io vi aggiungerò al gruppo, riservandovi un caloroso benvenuto :) (tutto ciò perché il gruppo è privato, perciò non è possibile visualizzarlo tra i gruppi di Facebook esistenti).

Per questo aggiornamento è tutto, direi, perciò non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e, come sempre, una...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Three Stones Trailer by TheCarnival

 

 

 

 

 

 

The Price of Love-White Lies

 

 

 

 

4. Help

 

 

 

 

 

< Sicura di sentirti bene? > Robert fissò Solephine con un misto di preoccupazione e impotenza, corrugando le sopracciglia.

Lei annuì, cercando di sorridere. Forse, dopotutto, non era stata una grande idea farle attraversare il Canale della Manica in traghetto, con quel tempaccio; voleva che il suo compleanno fosse speciale e, per una newyorkese d'eccellenza come lei, abituata ai grattacieli, alle strade trafficate e alle mille luci, cosa c'era di meglio di una visita all'isola di Wight per ammirare le bellezze della natura e fuggire dal caos londinese, così simile a quello di New York?

Avrebbe dovuto dar retta ai consigli dei suoi genitori; rimanere in casa, festeggiare con la deliziosa torta alla crema di sua madre, la preferita di Sole, e trascorrere il resto della serata a guardare vecchi film nella sua stanza di adolescente, accoccolati sul letto singolo che a malapena riusciva a fornir loro abbastanza spazio per stendersi.

< Credo di non avere più lo stomaco, ma direi che sto bene, sì. > Rispose con non-chalance, massaggiandosi il punto interessato, coperto dal cappotto invernale.

< Mi dispiace! Saremmo dovuti rimanere a casa! > La strinse a sé, circondandole la vita con un braccio, cercando, al contempo, di ripararla dal vento freddo.

< Non è una tragedia, Robert! E' stata colpa mia, dovevo portarmi dietro le pillole contro il mal di mare. > Fece spallucce, tirando su col naso e accoccolandosi meglio contro di lui.

< E' il tuo compleanno e hai appena vomitato l'anima su quel traghetto... una bella serata davvero... > Borbottò sarcastico, accelerando il passo per raggiungere più in fretta la piccola abitazione poco distante, affittata per l'occasione.

< Non essere così melodrammatico, è bellissimo qui, sembra di essere in paradiso e l'odore del mare... > Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni, come per sottolineare il concetto.

Robert la osservò divertito e disperato, le mani nascoste nelle tasche dei jeans scuri e le guance rosse per il vento freddo.

Sorrise appena, afferrandole un braccio e trascinandola, senza farle male, verso il piccolo cancello di ferro che delimitava la proprietà della vecchia signora Steinford, l'adorabile vecchina che gli aveva gentilmente permesso di usufruire della sua seconda casa per qualche giorno.

< Che meraviglia! > Non gli diede neanche il tempo di cercare la chiave, che era partita, come un uragano, alla volta della casa, spiando l'interno dalle finestre frustate dal vento e dalla sabbia.

Assomigliava ad una bambina, tanta era la sua gioia; il piccolo incidente sul traghetto, completamente dimenticato.

< E' tutta per noi? > Saltellò sul posto, gli occhi splendenti, i capelli disordinati dal vento marino.

Lui annuì, girando la chiave nella serratura, permettendole di accomodarsi per prima nell'ingresso, dal pavimento in legno azzurro appena scolorito dal tempo e dalla sabbia, gli arredi semplici e bianchi e pochi quadri di paesaggi alle pareti.

Solephine si liberò del cappotto e della sciarpa, sistemandoli sull'attaccapanni dietro la porta, poi cominciò a curiosare in giro, tra le vecchie foto incorniciate, le suppellettili, le pentole di rame splendenti appese in cucina, i cuscini a fiori sistemati con cura sulla poltrona del salotto e sull'enorme divano color panna, i curiosi souvenir sistemati sulla mensola del caminetto, gli orologi a cucù disseminati in ogni angolo disponibile e due minuscoli gattini che sembravano essere spuntati fuori dal nulla, che si strofinarono contro le sue gambe in cerca di coccole o, forse, di cibo.

< Abbiamo del latte? > Chiese, alzando appena la voce per raggiungere Robert, impegnato nella ricerca di qualcosa di commestibile in dispensa.

< Suppongo di sì, perché? > La interrogò di rimando, dirigendosi verso il frigo.

< Credo che qualcuno, qui, abbia fame. > Fece il suo ingresso nella stanza con i due cuccioli tra le braccia, che miagolavano appena.

< Dove li hai trovati? > Sbarrò gli occhi, estraendo il cartone del latte e rovistando in cerca di una ciotola adatta.

Solephine fece spallucce, accarezzando il soffice pelo grigio dei gattini.

< Loro hanno trovato me, direi. > Rispose, depositandoli a terra, aiutando Robert nella ricerca.

Convennero, dopo qualche minuto, che una vecchia tazza sbeccata, di forma ovale, senza manico, potesse fare al caso loro e la riempirono di latte fino all'orlo.

I cuccioli, affamati, ne fiutarono subito l'odore e vi si lanciarono, instabili, all'assalto.

< La signora Steinford non mi ha parlato di gatti. Strano. > Osservò lui, corrugando le sopracciglia.

< Forse ha dimenticato qualche finestra aperta e sono entrati. > Ipotizzò Sole, osservandoli bere avidamente.

< Forse si sono solo intrufolati dalla porta, quando l'abbiamo aperta. > Li osservò anche lui, intenerito.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, puntando lo sguardo su quello che li circondava, tranne che sull'altro.

< Allora... qual è il programma? > Solephine ruppe il silenzio per prima.

< Programma? Non ne ho stilato uno, a dir la verità. Preferisco che sia tu a scegliere. > Fece spallucce, sorridendo divertito.

< Ma come? Io credevo che fosse già tutto organizzato! > Sbuffò fintamente infastidita dalla cosa, incrociando le braccia sul petto, come una bambina arrabbiata.

< Non sono affatto bravo a stilare programmi, lo sai; finisce sempre che qualcosa va storta... > Cercò di spiegarsi, arrossendo appena.

Sole chinò il capo, sorridendo, nel tentativo di non farsi scoprire: adorava prenderlo in giro e farlo arrossire. Forse era scorretto da parte sua, ma era una di quelle cose a cui non sapeva rinunciare, un po' come non sapeva rinunciare alla sua smoderata passione per i libri, le serie tv, i film in bianco e nero, le passeggiate in bicicletta e la cioccolata fondente.

< E' il tuo compleanno... > Continuò lui, allungando una mano verso di lei. 

< E' giusto che sia tu a scegliere. > Terminò.

Sole gli si avvicinò, accettando la sua mano tesa, sorridente e maliziosa.

< Però devi farti perdonare. > Sussurrò vicino alla sua bocca, prima di baciarlo senza dargli neanche il tempo di rispondere.

Si inebriò del suo sapore dolce e del suo profumo deciso, tanto quanto bastava per decidere che non ne avrebbe mai avuto abbastanza.

< So essere molto generoso. > Osservò lui, socchiudendo gli occhi, accarezzandole la schiena.

Finirono a fare l'amore sul divano, mentre fuori pioveva e gli unici rumori erano il fuoco nel caminetto che crepitava e i loro sospiri che si confondevano.

Robert non aveva avuto neanche il tempo di consegnarle la sua "torta" di compleanno: un muffin al cioccolato, con ripieno di crema e copertura alla panna e fragole, il suo preferito.

 

Quando Nuria suona il campanello ed io, come un automa, vado ad aprirle con James in braccio, non so cosa veda, non so cosa legga nei miei occhi, ma i suoi diventano subito lucidi e deve stringersi Phoebe più forte al petto per resistere alla tentazione di piangere.

Ho visto Phoebe solo una volta, in ospedale, appena nata. Solephine ed io avevamo raggiunto Jack per fargli compagnia durante il travaglio della moglie, invece, una volta lì, ci siamo ritrovati di fronte a dei neo-genitori sorridenti e felici.

E' cresciuta molto da allora: ha i capelli biondi più lunghi, gli occhi azzurri più chiari e riesce quasi a camminare da sola. Assomiglia sempre di più alla mamma.

< Rob... mi dispiace così tanto! > Sono le prime parole che pronuncia, dopo aver sistemato Phoebe sul divano ed essersi liberata delle borse che le ingombravano le spalle, posandole a terra, accanto alla porta.

Mi abbraccia e una lacrima le rotola giù, lungo la guancia; riesco appena a vederla, prima che lei nasconda il viso nella mia camicia e tiri su col naso.

< Lo so. Grazie. > Mormoro come un robot. Non faccio che dire altro da giorni. Forse, è l'unica frase che sarò in grado di pronunciare; dimenticherò tutte le altre parole e saprò solo dire lo so e grazie.

< Sofia mi ha telefonata, due giorni fa e... siamo stati irreperibili per qualche giorno, sai, per via del cattivo tempo, sono saltate tutte le linee elettriche e i cavi telefonici... se solo avessi saputo... > Singhiozza, mentre James, ancorato alla mia spalla, comincia a frignare, come per dare man forte.

Nuria sembra rendersi conto della sua presenza soltanto in quel momento. Si separa da me, si asciuga gli occhi con le dita e tenta di sorridere, accarezzando la testa di mio figlio e i suoi radi capelli biondi. Lo sistemo in una posizione più confortevole, per lui e anche per lei, perché voglio che lo conosca, che si conoscano, e il sorriso di Nuria aumenta.

< Che bell'ometto che sei, eh? > Piega appena le ginocchia per essere alla sua altezza, pizzicandogli dolcemente un fianco.

James sembra gradire la sua espressione ed il suo viso dolce, perché smette di piangere e agita le mani nella sua direzione.

< Vuoi tenerlo in braccio? > Le chiedo con un sorriso.

Lei annuisce e tende le mani per afferrarlo.

< E' bellissimo, Robert e ti assomiglia moltissimo. > Afferma dopo qualche istante, cullandolo.

< Già. Vorrei soltanto che Sole fosse qui... > Sospiro, cercando appoggio contro la poltrona dietro di me, ingoiando le lacrime e la tristezza, ignorando il peso al petto che si fa sempre più presente e pesante.

< Ce la farà, ne sono sicura. Si sveglierà. Lei vi adora, non vi abbandonerebbe mai così, non la Solephine che conosco io. > Si morde le labbra per non piangere, ma io non ci riesco: gli occhi mi si inumidiscono contro la mia volontà e, se non fosse per un urletto eccitato di Phoebe, mi starei sciogliendo in lacrime.

Ci voltiamo entrambi verso di lei, completamente presa dalle boccacce di Tom, alle quali ride senza ritegno, cercando di imitarlo.

Tom adora i bambini. Dovrebbe davvero sistemarsi, come continua a ripetere sua madre e mettere su famiglia. Sarebbe un ottimo padre.

< Scusateci, non volevamo interrompervi. > Ci sorride, sollevando Phoebe in braccio, avvicinandosi a Nuria per salutarla.

< Nessun disturbo. > Risponde lei al mio posto, lanciandomi un'occhiata che mi fa venir voglia di rimettermi a piangere.

< Questa principessa è cresciuta tantissimo dall'ultima volta che l'ho vista e ti assomiglia sempre di più! > Esclama, sistemando i capelli alla piccola, che reagisce divincolandosi e mettendo il broncio.

< E comincia ad essere permalosa... > Tom le fa il solletico, strappandole un sorriso e un abbraccio.

< Dove vi sistemerete? > Le domanda poi, incuriosito, lanciando un'occhiata alle borse.

< A casa di Sofia. E' sola e ha tante stanze libere... > Risponde, tendendomi nuovamente James.

Mentre la mamma è impegnata a cercare qualcosa nella borsa, noto lo sguardo curioso di Phoebe, che osserva James con insistenza per qualche secondo, e poi sposta lo sguardo sul mio viso, come se cercasse qualche somiglianza. E' impossibile, me ne rendo conto; in fondo, è solo una bambina e magari crede che quello che reggo tra le braccia sia un bambolotto, un giocattolo, ma mi fa uno strano effetto. Non l'ho neanche salutata, troppo impegnato a piangermi addosso; eppure, è mia nipote.

Le sorrido, avvicinandomi, agitando la manina di James nella sua direzione, a mo' di saluto.

Lei mi guarda stupita, poi ricambia il sorriso e il segno di saluto, arrossendo.

< Sai chi è quel bambino? > Le mormora Tom.

Fa segno di no con la testa.

< E' il tuo nuovo cuginetto e si chiama James. > La istruisce.

< Bibu? > Domanda, facendomi ridere.

< Sì, è un bimbo come te, ma più piccolo. > Tom le bacia una guancia paffuta e lei arrossisce ancora, nascondendosi contro la sua maglia.

E' di una tenerezza incredibile e, per certi versi, mi ricorda Solephine. Anche lei arrossiva ai miei complimenti e alle mie dimostrazioni d'affetto, all'inizio.

 

Jack vuole subito andare in ospedale, neanche il tempo di posare le valigie a casa di Sofia e salutare sua moglie e Phoebe. Solephine ha atteso fin troppo, sono queste le sue parole ed io vorrei chiedergli cosa? Cosa ha atteso? Aspettava che arrivassi tu per svegliarsi?, ma non ci riesco. Non voglio giudicare nessuno, non voglio ferire nessuno, eppure, a volte sono così arrabbiato, che avrei voglia di urlare, di prendere a schiaffi qualcuno, solo per il gusto di sentirmi, anche se per pochi istanti, bene, potente; non servirebbe a svegliare Sole, lo so, ma forse servirebbe a far star meglio me.

Non sopporto neanche le urla di James, o i suoi pianti. Devo contare fino a dieci prima di prenderlo in braccio, ripetendomi che è solo un neonato, non può capire ed io non voglio influenzarlo con il mio malumore, o con la mia rabbia. Tom mi da' una mano con piacere; cambiare i pannolini non gli da' fastidio, neanche scaldare il latte o cullarlo per farlo addormentare. Mia madre mi ha consigliato di rivolgermi ad una bambinaia, qualcuno di esperto, che si potesse prendere cura di James nel modo giusto, che se ne occupasse per tutto il giorno, almeno, fin quando la situazione di Solephine non si sblocca, ma non voglio essere un genitore assente e non voglio che un'estranea si occupi di mio figlio, solo perché mia moglie è in coma ed io sto da schifo. James mi aiuta ad andare avanti, ad alzarmi la mattina, a vestirmi, a cercare di rendermi presentabile per affrontare un'altra giornata. Pensare a lui mi tranquillizza e mi rende felice.

L'ospedale è quello di sempre, la confusione, al solito, tanta. Rupert mi saluta con gentilezza, come di consueto ed io gli presento Jack. Lo aiuta a vestirsi del camice, dei copri-scarpe e della cuffia e lo accompagna in sala intensiva, accanto al letto di Solephine. Poi, si allontana con discrezione.

Osservo la scena dal vetro esterno, inerme. Da qualche tempo, è diventato più difficile, per me, guardare. Entrare qui, in ospedale, fingere che l'odore del disinfettante non mi dia fastidio, condividere l'ascensore con medici e infermieri che mi sorridono cortesi e poi abbassano lo sguardo, indossare il camice, avvertire il fruscio dei copri-scarpe sul pavimento della sala intensiva, lo scricchiolio della sedia, prima di sedermici; osservare il volto pallido di Solephine e sentire la sua pelle gelida a contatto con la mia, il bip della macchinetta accanto a me che mi rimbomba nella testa come un timer, le lacrime che non riesco a frenare e il bacio che lei non può ricambiare.

E' maledettamente difficile; eppure, mi ci trascino ogni giorno, sperando che qualcosa cambi, che Rupert mi dica che si è svegliata, che non c'è bisogno che indossi il camice, perché l'hanno trasferita in una comune stanza, che posso portarle dei fiori, che potrà vedere anche James.

Non so cosa sperare, ma qualsiasi cosa sarebbe sufficiente.

Mi abbandono su una delle sedie di plastica lì davanti, stropicciandomi il viso e i capelli. Nessuno commenta il mio aspetto, ma so di essere uno zombie vagante, specialmente quando mia madre e le mie sorelle mi osservano con la classica occhiata da mio Dio, non sopravviverà un altro giorno in questo stato. Non m'importa; finire sui giornali con gli stessi vestiti di tre giorni fa, con la barba sfatta, con le occhiaie; non m'importa.

E' in quel momento, quando penso che dieci minuti sono un'eternità per chi aspetta, che il mio cellulare comincia a vibrare. Lo estraggo dalla tasca della giacca e, nonostante la cosa non mi sorprenda, mi ritrovo comunque a tremare appena.

E' solo preoccupata per te, nessun secondo fine.

Continuo a ripetermelo, mentre rispondo, incerto.

< Ciao, ti disturbo? > Mi domanda titubante.

< Sono in ospedale, ma no, non mi disturbi... > Rispondo, schiarendomi la voce.

< Cielo, scusami! Avrei dovuto immaginarlo. Posso richiamare, se per te è... > La interrompo, prima che possa concludere la frase.

< No, davvero. Ho soltanto accompagnato Jack, il fratello di Solephine, a farle visita. Lo sto aspettando, per cui... > In fondo, è la verità.

< Oh, d'accordo. Nessuna novità? > La sua voce assume una sfumatura grave e triste, che vorrei strapparle via. Sembrano tutti così preoccupati, così in pena, ma in fondo, non ne sanno niente, no? Non sanno cosa voglia dire, come ci si senta, quanto faccia male.

< Nessuna. Volevi dirmi qualcosa? > Forse sono un po' brusco, irrispettoso, ma non posso farci niente. Non ho voglia di parlare con nessuno.

< Ehm... no... volevo... volevo solo sapere come stavi, tutto qui. > Mormora.

< Sì, beh, non meglio di ieri, o dell'altro ieri, o di due settimane fa. > Sbotto.

< Tom pensa che ti farebbe bene ricevere la visita di qualche amico... sai, per allentare lo stress. So che è difficile e che fa male, davvero, ma non per questo devi affrontare tutto da solo, Robert. Se solo ci permettessi di aiutarti, noi potremmo... > La interrompo, ancora.

< Voi potreste cosa? Farmi dimenticare? Portarmi a bere una birra e far finta che vada tutto bene? No, non credo che sia questo il mezzo migliore, Kristen, mi dispiace. E poi, non sono solo: ho Tom, la mia famiglia, la famiglia di Solephine, le sue colleghe accanto. Non sono solo. > Tremo e me ne rendo conto soltanto quando osservo la mano libera dal cellulare, che si aggrappa con forza al bordo della sedia, le nocche bianche per la pressione esercitata.

< Non rifiuteresti le chiamate, se fosse così. > Replica, dura.

D'accordo, ha ragione, ho evitato di rispondere al telefono per qualche giorno, ma volevo essere lasciato in pace; cosa c'è di sbagliato in questo?

< Di cosa hai paura, Robert? Che gli altri ti compatiscano per quello che è successo a Solephine? Che ti vedano come qualcosa di rotto, da sistemare? Cosa? > Continua.

Mi paralizzo, come se qualcuno avesse acceso la luce in una stanza inizialmente buia.

< Non voglio essere trattato come una vittima e non voglio tutte queste attenzioni su di me. > Borbotto. E' la prima volta che lo ammetto ad alta voce, ma è la verità, sin dal primo giorno, sin dall'incidente.

< D'accordo, hai ragione, è comprensibile, ma noi non vogliamo trattarti come una vittima, né dedicarti più attenzioni di quelle che hai già. Vogliamo solo poter fare qualcosa per te, tutto qui. Gli amici servono a questo. > Sulle ultime frasi il suo tono di voce si addolcisce ed io mi ritrovo a sospirare, sconfitto. E' quello che mi ha sempre ripetuto anche Tom, eppure ho continuato ad ignorarlo, ho continuato ad ignorare tutti quelli che, in un modo o nell'altro, stessero cercando di avviare una conversazione con me su Solephine, sull'incidente, persino su James stesso, come se ne avessi già abbastanza; o, forse, ne ho già abbastanza, ma parlarne con qualcuno potrebbe farmi stare meglio. Non posso continuare a fingere che tenermi tutto dentro mi faccia stare bene. 

< Sì, forse hai ragione, forse sto allontanando tutti con il mio atteggiamento scostante, è solo che... > Questa volta è lei ad interrompermi.

< Pensi che nessuno possa comprenderti fino in fondo, lo so. > La vedo quasi sorridere.

< Già. > Ammetto.

< Il dolore non è una lotta di resistenza, Robert. Devi lasciarti andare e sarà più semplice. > Continua.

< Sai che mi sembra di stare parlando con una psicologa, vero? > Sorrido anch'io.

< Non un ruolo che mi si addice, giusto? > Ride. < Però sono seria, è davvero così, anche se non parlo per esperienza diretta. > Aggiunge, tornando seria.

< Sì, dev'essere così... > Sospiro.

< Sei umano, non puoi fare tutto da solo, anche se vorresti. > Già, vorrei: occuparmi di James da solo, fare la spesa, riuscire a badare alla casa, venire in ospedale a trovare Sole, tranquillizzare tutti sulla vicenda, riprendere la mia vita di sempre. Vorrei e a volte credo di farcela, credo di riuscire a rimettermi in piedi con le mie sole forze, ad affrontare tutto questo; poi, percepisco la mia fragilità, i miei limiti e mi sento debole, spiazzato, come se mi stesse tutto franando addosso e in quei momenti vorrei solo rintanarmi in un angolo buio e piangere, vergognarmi perché non ho il coraggio di affrontare le situazioni difficili a testa alta.

< Lo so, anche se non riesco ad accettarlo completamente. > Lo schienale della sedia è fresco quando mi ci appoggio, sospirando e osservando le luci al neon sul soffitto.

< In un modo o nell'altro, andrà tutto bene. Sei circondato da persone che ti amano e che ti sostengono e non potrebbe andare diversamente. > Sorrido con lei che, anche se lontana, riesce a trasmettermi un briciolo di fiducia e speranza che credevo di aver perso nel momento in cui mi lasciavo assalire dai dubbi.

< Grazie, è... è davvero importante per me sapere che non mi lascerete solo. > Lo dico poco e, quando lo faccio, spesso non riesco ad esprimere i miei veri sentimenti al riguardo, ma è la verità.

< Mi permetterai di venire a farti visita, allora? > Mi chiede speranzosa.

< Quando vuoi. > Rispondo divertito.

< Bene! E' già un bel passo avanti, no? In realtà, nonostante i tuoi divieti, ho già prenotato un biglietto per il volo di venerdì mattina; l'avevo concordato con Tom qualche giorno fa, e avevo paura di dirtelo per via della tua ostinazione e testardaggine, ma adesso mi sento un po' in colpa, perché non ho preso in considerazione i tuoi impegni e forse è un po' inaspettato per te, perciò, se vuoi che rimandi la partenza, basta una parola e sarà fatto. > Continua tutta d'un fiato, come se potessi interromperla.

< Non ho impegni al momento, tranne per quanto riguarda James: venerdì pomeriggio ha un appuntamento con il pediatra, ma posso lasciare la macchina a Tom e può raggiungerti lui in aeroporto, se per te non è un problema. > Forse non sono ancora pronto per vederla, forse dovrei dirle di rimandare la partenza, annullare la prenotazione del biglietto e dirle che la richiamerò io quando sarò in grado di gestire la sua visita, ma so che questo non farebbe altro che rimandare l'inevitabile. 

Quando la nostra relazione è terminata e poi ancora di più quando ho incontrato Solephine e ho capito che sarebbe stata l'unica donna della mia vita, ero convinto che non l'avrei mai più vista, che, se anche, per un caso fortuito, l'avessi intravista in strada, avrei soltanto girato la testa, guardato da un'altra parte; negli ultimi tre anni la mia convinzione su questa teoria è aumentata, perché non l'avevo più sentita, né avevamo avuto occasione di incontrarci, neanche durante eventi in comune. Ora mi rendo semplicemente conto che ho avuto paura di lei, paura dei sentimenti che avrebbe potuto scatenarmi la sua vista, paura che sarebbe ritornato tutto a galla e che avrei dato di matto, che mi sarei sentito nuovamente ferito e arrabbiato e deluso, che le avrei urlato contro e poi me ne sarei pentito; insomma, paura di me stesso.

Tom ha ragione: cosa ho da temere? Sono sposato, ho un figlio, sono felice, nonostante la situazione attuale e la storia con lei è acqua passata, non ho più motivo di essere arrabbiato per ciò che è successo tra noi. E la verità è che è così, non sono più arrabbiato, non provo più quel senso di vuoto all'altezza dello stomaco ogni volta che ci penso, ogni volta che qualcuno, seppure per caso, pronuncia il suo nome.

< Sì, per me va bene, nessun problema. A venerdì, allora. > Mi saluta.

< A venerdì. > Confermo, chiudendo la comunicazione, ancora perso nelle mie elucubrazioni.

 

Quando rientro a casa, dopo aver accompagnato Jack da Sofia, James dorme e Tom sta guardando una partita di tennis in tv: non è un fanatico dello sport, per cui intuisco che non trasmettano niente di meglio.

< Ha telefonato Kristen poco fa. > Mi saluta, mentre io mi libero della giacca e lascio cadere le chiavi nello svuota-tasche all'ingresso.

< Ha chiamato anche me. > Rispondo, controllando velocemente la posta.

< Hai accettato che venga a trovarti. > Afferma. Sento il suo sguardo su di me, ma non ho nessuna intenzione di ricambiare l'occhiata.

< Sì, ho riflettuto sul fatto che non c'è niente di male nell'accettare l'aiuto di un'amica. > Mi dirigo verso la cucina, seguito a ruota da lui.

< E cos'è che ti ha fatto cambiare idea così repentinamente? > Lo osservo: sorride furbo, come se sapesse qualcosa che io ignoro.

< Beh, tu sei qui, no? Voglio dire, mi stai aiutando con James e ho semplicemente pensato che potrebbe essere d'aiuto anche lei. > Faccio spallucce.

< Non hai fatto altro che ripetermi che non avevi voglia di vederla, che non avevi bisogno d'aiuto, che lei sarebbe stata l'ultima persona al quale l'avresti domandato, in ogni caso, e adesso hai cambiato idea? > Continua.

< Oh, ma insomma! Che ti prende! Mi hai consigliato tu, fin dall'inizio, di darle una seconda possibilità, di permetterle di scusarsi e mi hai riempito la testa con i tuoi è pentita, non avrebbe voluto che la vostra storia finisse in modo così brusco, non sai quello che ha dovuto passare, ed ora mi rimproveri perché ho cambiato idea? > Sbotto, facendogli il verso e aprendo il frigorifero per estrarre una lattina di Coca-Cola.

< Sì, beh, credo ancora a quello che ho detto, che dovresti darle una seconda possibilità, come amica, ovviamente, però poi ho pensato a James e all'effetto che potrebbe fare su di lui una presenza femminile che non fa parte della famiglia. Insomma, non ha mai conosciuto Solephine, non l'ha neanche mai vista... se si affezionasse a Kristen, considerandola sua madre? > Prende posto su uno degli sgabelli accanto alla penisola, giocherellando nervosamente con le mani.

< Non dovrò certo ospitarla qui e, in più, ci occupiamo noi di lui, no? Se ho accettato la sua visita non è certo perché possa sostituire Solephine; e poi suppongo che non abbia intenzione di fermarsi a lungo. > Le paure di Tom sono fondate, avevo cominciato a pensarci anch'io, ma, in fondo, è solo una visita di cortesia, la sua; potrà protrarsi una settimana, ma dubito che voglia soggiornare qui più a lungo: ha sempre odiato New York e il suo frastuono.

E poi, in ogni caso, cosa avrei da temere?

 


   
 
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