Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
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Autore: _Des    29/06/2013    4 recensioni
«A tredici anni incuriosivo dei ragazzi, senza rendermene conto.
A diciannove non li incuriosivo. Li facevo dannare.
A tredici anni mi piacevano i ragazzi, le storie sdolcinate e tentavo di esser ricambiata.
A diciannove non dovevo semplicemente piacere ai ragazzi. Dovevo sedurli.. e poi ucciderli.»
Avevano due facce, l’una l’estremo dell’altra, e mai se ne sarebbero disfatti. –Double Face

SOSPESA PER IL MOMENTO
Genere: Dark, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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SEGUITELA, BELLEZZE. 


 

 Avevano due facce, l’una l’estremo dell’altra, e mai se ne sarebbero disfatti. –Double Face 

  

La cercava dalle quattro e mezza di quel pomeriggio, eppure né lui né nessun altro era riuscito a rintracciarla. A scuola non c’era: i professori affermavano che la ragazza non aveva partecipato alle ultime due ore scolastiche. In città nessuno sembrava averla vista.
A chiunque chiedesse, sebbene in molti s’intimorissero alla sua vista e rispondessero di conseguenza sempre il vero, nemmeno da un individuo qualsiasi aveva saputo estrapolare qualche notizia in più.
Il cuore martellava nel suo petto da ore, ormai, e ancora non aveva fatto l’abitudine a quei colpi tanto forti e ravvicinati all’altezza del petto. Jade non si trovava, si era volatilizzata e non lo credeva possibile. Dopo una chiamata a raccolta da parte di Jake e Rosalie, entrambe le bande si erano scaraventate in strada alla ricerca della mora dagli occhi gelidi. E, data l’informazione, Justin aveva potuto avvertire l’anima corrodersi al pensiero che l’unico ricordo in vita di Ariana andasse perduto, all’idea che qualcuno le facesse del male, constatando che avrebbe potuto far la fine della madre.
In quel momento, correndo nell’ennesima via, ammise di odiarla persino per quello stato d’ansia in cui lo aveva trascinato. Riusciva a preoccuparlo sempre e comunque, in qualsiasi circostanza.
 
Justin si guardo attorno, prima d’intravedere un enorme insegna indicare che poco distante si posizionava il cimitero. E, all’improvviso, fu scosso da un colpo di genio.
Correndo come mai aveva fatto, si scapicollò all’interno del cimitero, respirando con affanno, sfinito e nervoso.
E come una scheggia, seguiva una sola strada, sapendo perfettamente dove andare a parare. Le gambe seguirono a muoversi agili fin quando, a pochi metri di distanza, il ragazzo non scorse una figura esile, rannicchiata tra le gambe, lunghi capelli marroni scendevano sparsi e morbidi lungo le spalle.
Era lei.
«Jadegridò sconvolto. Incontrò immediatamente gli occhi della ragazza che sin da subito gli parvero scossi. La guardò con l’aria di chi ha intenzione di rimproverare fino allo sfinimento. Aveva messolo in allerta e preoccupato tutti.
Quella non si mosse. Lo osservava con occhi sbarrati, esterrefatta. Che fosse spaventata dalla sua persona? Fu quindi lui ad avvicinarsi cautamente, ma con convinzione.
«Dove sei stata?» domandò con freddezza.
Jade parve destarsi e subito rispose in un sussurro:
«Qui.»
«E il cellulare?» borbottò lui, tra i denti.
«In borsa.» rispose la ragazza, non curante di quanto fosse accaduto in quelle ore.
«Mai pensato di dargli un’occhiata, ogni tanto?» avrebbe voluto sgridarla sino alla nausea, ma il sollievo che lo invase, non appena le fu vicino, costatando che era viva, smorzò la tensione in cui stava annegando.
«Io.. è successo qualcosa?» domandò allora lei, tirando appena su con il naso.
«Oh, nulla. Ti stiamo soltanto cercando da ore..» commentò sarcastico, controllando lo Swatch. «..quattro per la precisione.» quella lo osservò senza parole, schiudendo le labbra. Justin rimase a debita distanza da lei, mentre notava gli occhi arrossati della ragazza, le labbra rosse, probabilmente a causa di strani contorcimenti a cui le aveva sottoposte per lo stress, l’espressione desolata che primeggiava sul suo volto.
Si ripeté che era fin troppo stravolta.
«Mi spiace.» sussurrò soltanto Jade, tornando ad osservare la lapide. Justin individuò un nuovo mazzo di fiore che affiancava proprio quello che lui stesso aveva riposto nel vaso color porpora due giorni a precedere. E, presumibilmente, doveva essere stata lei a infilarli al suo interno.
«Non volevo farvi preoccupare.» la veridicità delle sue parole, lo toccò. E con l’intento di non farsi abbindolare, si prodigò per guardarla sottecchi e risponderle quanto più sgarbatamente possibile:
«Ma l’hai fatto.» evidenziò.
«Già.» sospirò la mora. Passò una mano tra i lunghi capelli, spostando un paio o due di ciocche, che ricadevano sulla fronte, lungo la nuca.
Quel semplice gesto lo colpì. Ariana, in lei viveva Ariana. E tra l’altro, esistevano dei dettagli nel suo essere ad attrarlo in modo sconfinato e ai quali non riusciva a ribellarsi, infastidendolo ancor più.
«Andiamo.» le ordinò, attendendo che compisse un qualsiasi movimento, ad indicargli che stava per mettersi in piedi. Ma quella non si mosse, rimase ancora immobile, con lo sguardo puntato sulla lastra in marmo. Uno sguardo affranto e sconsolato.
«Smith..» la richiamò. «..andiamo.»
«Voglio restare qui.» lo avvertì, tirando nuovamente su con il naso. Fu allora che Justin intravide la sofferenza della ragazza e comprese il tentativo praticato da lei per non piangere. Il suo trattenersi.
Alzò gli occhi al cielo e, dopo aver digitato un breve e coinciso messaggio a Jake, per avvertirlo del ritrovamento, l’affiancò, chinandosi sulle ginocchia.
Osservò l’immagine della donna in una foto striminzita posta sulla lapide, mentre ogni muscolo del suo corpo s’irrigidiva. Odiava quel posto, era la prova schiacciante che ricordava a chiunque la morte di Ariana.
«Manca anche a me.» asserì, aprendosi per la prima volta a Jade. Quella, sorpresa, lo guardava con meraviglia. Stavano parlando senza che uno dei due dovesse rimetterci la pelle.
«Mi manca ogni giorno, in ogni momento.» affermò, impostando freddezza nella voce come nel portamento. «Ma lei non c’è più.» si trattenne dal ricordarle che la madre era morta per lei, come usava dire lui «a causa sua». Gli sembrava irrispettoso generare una discussione proprio lì, in quel luogo, in quel momento.
«Mi dispiace Justin.» mormorò la ragazza, all’improvviso, quando il silenzio aveva preso possesso della situazione. «Non ho mai voluto che tu soffrissi, non volevo negarti una madre. E anche se mi hai odiata sin dal primo momento, sono io ad aver davvero sbagliato. Dovevo capire che stavamo vivendo entrambi lo stesso dramma e sarei dovuta esserti vicina e invece non ho fatto altro che alimentare quel dolore. Se puoi, scusami.» L’uno si perdeva negli occhi dell’altra e viceversa. In questi trovavano quel conforto di cui avevano sempre necessitato e che, sin dalla morte di Ariana, gli era stato proibito. Era la prima volta che Justin riceveva della scuse da chiunque, la prima volta in cui si sentiva in colpa, inappropriato. E, strabiliato, rimaneva inerme a pochi centimetri di distanza dalla ragazza che non sapeva decifrare l’espressione del ragazzo.
«Perché mi stai dicendo questo?» trovò la forza di chiederle. Jade gli sorrise, gentile, prima di rispondergli:
«Perché anche tu meriti di essere felice.»
 
Jade’s pov:
Tempo d’infilare la chiave nella serratura, sfilarla ed entrare nell’abitazione, accompagnata da Justin che all’istante mi ritrovai sommersa da almeno una decina di corpi. Ridacchiai, constatando che, almeno i miei amici, non erano affatto arrabbiati con me, ma al contrario contenti che avessi fatto ritorno sana e salva.
«Non farlo mai più Smith.» questa era Vanessa, ne riconobbi lo stile.
«Sei sempre tu. Sempre tu a metterci in allerta.» la presa per il culo proveniva da Savannah, come al solito.
«Ci hai letteralmente fatto cagare addosso.» sbottò Sean.
«Ma finiscila.» lo riprese Mike.
«E’ la verità, l’ho trattenuta fino al ritorno.» chiarì il mulatto.
«Potevi fartela nei pantaloni, Steven.» sbottò, contrariata Kim.
«Però, sai poi che puzza.» commentò Andrew, che scatenò dapprima il silenzio, poi risate generali. Non capii come né perché ma Mike cominciò a sfottere Justin che, restando al gioco, lo stuzzicava a sua volta.
«Chissà perché proprio il grande Bieber ha ritrovato la donzella perduta.» lo canzonò l’alto biondo.
«Che vuoi farci, Hamilton. Sono un mito.» avevano il vizio di chiamarsi per cognome, di deridersi con gran classe, ma poi, in fondo, erano tanto amici. Migliori amici, inseparabili. Quand’erano più piccoli e le missioni per loro, come per me e Savannah, erano più rade e semplici, era persino frequente beccarli nell’abitazione davanti alla nostra, che equivaleva alla loro, muniti di skateboard, intenti a sfidarsi.
Ed ero contenta che almeno Mike fosse presente costantemente nella sua vita.
In un momento di distrazione, mi allontanai, per avvicinarmi ad un piccolo gruppo di quattro persone che, poco distante dall’ingresso vicino il quale ci trovavamo, ci osservavano sorridenti.
La bionda m’inquadrò sin da subito e fu da lei che mi condussi.
«Rose.» la nominai, guardandola appena.
«Jade.» ricambiò lei, con molta più enfasi.
«Senti, so di essere nei pasticci, ma giuro che non avevo affatto intenzione di preoccuparvi. Volevo solo starmene per i fatti miei e..» Rosalie scosse la testa, accennando un sorriso che, al contempo, misero in pratica anche gli altri tre: Miller, Meg e Pete.
«Non sei nei guai, tranquilla.» m’informò. «Ci siamo preoccupati, è vero. Sappiamo che di solito non ti mandiamo a cercare dall’intero gruppo, ma..» sospirò. «..c’è qualcosa che dobbiamo dirti e che sarebbe anche il motivo per il quale ci siamo destati tanto quando non ti abbiamo vista arrivare.» mi sentii tremare.
Persino la confusione generale era andata dissolvendosi, perché tutti concentrassero l’attenzione sulle parole di Rosalie.
Sapevano. Tutti loro sapevano.
 
«Ti stanno cercando, Jade. C’è gente losca in giro che vuole nuovamente colpirci. L’hanno fatto una volta con tua madre, ora vogliono farlo definitivamente con te, per mettere una fine a tutto questo. Non sappiamo di preciso chi voglia attaccarti, ma siamo sulla pista giusta.» trattenni il respiro, alle parole di Jake. Volevano uccidermi, volevano colpirci ancora una volta. Nessuno sembrava colto alla sprovvista, quindi erano stati messi al corrente della questione da tempo. Ciò spiegava anche perché Rosalie fosse tanto apprensiva e non mi avesse conceduto di restare sola, il giorno dell’improvvisa missione.
Ringraziai mentalmente Pete per aver proposto di accomodarci sui divani in salotto, prima di dar inizio alle danze, poiché se non fossi stata seduta, sicuramente chiunque avrebbe notato un certo tremolio insinuarsi nelle mie gambe.
«E la missione era dedita a..»
«..questo.» m’interruppe Rosalie. «Miller è stato informato da una banda del nord che qualcuno sta cercando quelli che tra noi erano più vicini a Ariana.. tu. Seguendo certi indizi siamo giunti ad Atlanta e attraverso alcuni informatori abbiamo scovato un giro mafioso di denaro che collabora con chi ti cerca. Siamo riusciti a confiscare loro quanto più denaro possibile e con le maniere forti abbiamo saputo qualcosa.» deglutii nervosamente prima di chiedere oltre.
«Cosa di preciso?»
«Siamo certi che si tratti della stessa banda che ha complottato contro tua madre e ne abbiamo scoperto la residenza  a New York.» annuii, assimilando quanto venuto a conoscenza.
In pratica ero ricercata da banditi e le probabilità che questi mi trovassero erano talmente alte da non poter essere contate sulle dita di una mano.
Un dettaglio però mi aveva colpito più degli altri: si trattava della stessa banda che aveva messo fuori gioco Ariana. Dovevo scoprire di chi si trattasse.
«Il bottino?» domandai per spezzare il fitto silenzio espansosi nella stanza. Mi riferivo al denaro sottratto al losco giro di mafiosi residente in Atlanta.
«Un terzo spartito tra le case famiglia di Atlanta, più di un terzo agli ospedali più esigenti ed il resto in beneficenza.» puntualizzò Meg, sapendo quanto ci tenessi.
Il silenzio fece nuovamente ritorno, estenuante.
Sospirai, giungendo ad una decisione.
«Resta solo una cosa da fare.»
«Tipo?» domandò Kim, stiracchiandosi sulla poltroncina in pelle presente nel salotto.
«Andare a New York.» spiegai con finta disinvoltura.
«No.» sbottò Rosalie. «Tu non ci andrai.»
«Scommettiamo?» la provocai. «Se è me che vogliono, quei bastardi, tanto vale che credano di avermi in pugno.» mi fissarono tutti confusi.
Certamente, non avrei lasciato loro la soddisfazione di uccidermi, proprio come accaduto con mia madre. Avrei fatto credere di essere tanto ingenua in modo che abbassassero la guardia e, per terminare l’opera in bellezza, li avrei incastrati uno ad uno.
«Non ti farai uccidere.» digrignò, Justin. Sorpresa, gli riservai un’occhiata accigliata. Secondo il mio punto di vista, non aveva mai avuto un concreto interesse per la mia incolumità, mentre in quell’istante dimostrava l’opposto, di tenerci.
«Devo andare a New York.» ripetei, decisa.
«Non sperarci.» ribatté.
«Sei tu che dovrai sperare perché io non parta. Sai che lo farò.» sbottai, alzando notevolmente il tono della voce per impormi. «Voglio trovarli, uno ad uno.» spiegai.
«Lasciaci almeno ideare un piano concreto, qualcosa che ci permetta di orientarci tutti insieme a New York o che per lo meno ti tenga al sicuro, mentre tentiamo di capire chi è che ti minaccia.» intervenne Miller.
«Attendi fino al diploma, Jade. Un paio di settimane ti chiedo, non di più.» enfatizzò Rosalie. Mi voltai ad osservare Justin che, con la mascella contratta, puntava i suoi occhi nei miei, pregandomi quasi di non accettare quella né altri generi di condizioni.
«Perfetto. Due settimane, fino al diploma. Ma poi partirò, non so ancora come o con chi. Ma state pur certi che li troverò uno ad uno e non li risparmierò, nemmeno in cambio della luna.»
 
Il mattino seguente fu strano.
Mi sentii continuamente osservata, persino durante la lezione di educazione fisica a cui prendevo parte semplicemente per compiacere il professor Lincoln di non essere affatto atletica, come reputava fossi. Tentava continuamente di iscrivermi a qualche competizione scolastica, poiché era evidente che fossi davvero portata per lo sport: non mostrare il minimo cenno di stanchezza dopo tre giri completi della circonferenza scolastica, non era affatto qualità comune. E dovevo tanto agli anni di addestramento dediti alle missioni più impensabili.
M’imponevo da sempre di presentarmi quanto più svogliata e poco atletica possibile, ma finivo con il dimostrare il contrario.
Tornando alle mie riflessioni, trascorsi l’ora del pasto guardando chiunque sottecchi e portando lo sguardo prima a destra poi a sinistra, ripetendo poi il processo. Quella mattina, incamminandomi verso la scuola, avevo avuto la sensazione che qualcuno mi seguisse, il ché mi aveva tenuta in allerta per l’intera mattinata.
Quando venni avvisata di un’altra fuga, causa missione, avvampai per la rabbia. Qualcosa mi diceva che quei furbi dei miei colleghi non volessero coinvolgermi, ma dopotutto le missione, per la maggior parte, erano improvvise non calcolabili, evitavo quindi d’incolparli assai.
Alle due, giornata ridotta, mi trascinai stancamente fuori dall’edificio, cogliendo immediatamente con lo sguardo una Range Rover, vicino la quale era poggiato un biondo vestito come un teppista: giacca di pelle, t-shirt bianca, pantaloni neri e scarpe del medesimo colore. Qualche collana scendeva lungo il suo collo e sul naso calzano dei Rayban da sole, neri.
Non sarebbe passato inosservato, neppure desiderandolo.
Gli andai incontro, accennando un sorriso forzato. Avere Justin Bieber tra i piedi era divenuta un’abitudine.
«Missione?» domandai, soltanto.
«Lunga missione, due giorni fuori.» percepii il sangue gelarsi nelle mie vene. Doveva essere accaduto qualcosa di terribile.
Senza domandare ulteriormente, entrai nell’auto e mi sistemai sul sedile passeggeri, mentre Justin metteva in moto.
«Rientreranno domani  in nottata.» m’informò, indifferente.
«Perché sono partiti ancora?» ero esausta di quelle continue sparizione inspiegate.
«Secondo te? Si sono recati a New York per progettare un piano in caso tu dovessi recarti lì, al termine degli studi.» parve infastidito dal dovermi riportare quanto stesse succedendo. Forse perché lui avrebbe preferito tenermi segregata in una casa che distava pochi passi dalla sua e nella quale chiunque poteva tenermi a bada.
«Hanno dei contatti?»
«Vecchi amici di Miller. Credo siano disposti ad essere il tuo palo quando soggiornerai lì e.. probabilmente ti forniranno un alloggio.» dal finestrino, era visibile il traffico cittadino che andava scemando, come al solito, recandoci verso casa.
«Non capisco perché tu debba farmi la guardia. So badare a me stessa.» considerai.
«Smettila di pensare sempre a te stessa.» mi rimproverò.
«Stiamo parlando di me.» evidenziai.
«Stiamo parlando di loro, di me e di te. Sai com’è: forse affrontare una missione con l’idea che un membro della loro banda si trovi in buone mani, può aiutare tutti a non farsi ammazzare.» colpevole. Riuscii a considerarmi nuovamente colpevole. E mi meravigliai, scoprendolo tanto profondo. Ringraziai il cielo perché, almeno una volta in sei anni, Justin aveva ben pensato di non alludere a mia madre. La conversazione che aveva avuto luogo sulla tomba di Ariana lo aveva di certo toccato, il ché mi tranquillizzava.
«Come vuoi.» sospirai, distendendomi lungo il sedile in pelle. Lanciai uno sguardo annoiato in direzione della strada, considerandola monotona, poi allo specchietto retrovisore perché potessi osservare sempre lo stesso paesaggio e mi accorsi di una macchina, la quale ospitava due uomini, disposti proprio come me e Justin, che sembravano compiere il nostro stesso tragitto. Nessun sospetto mi avrebbe assalita se solo non avessi constatato che in quella zona non erano state costruite abitazioni e che quella stessa strada conduceva verso le uniche due edificazioni dei pressi: le ville delle bande.
«Justin..» lo chiamai.
«Che vuoi?» sbottò quello, sovrappensiero.
«Ci stanno seguendo
«Che caz..» non terminò la frase, scorgendo dallo specchietto retrovisore la stessa auto della quale mi stavo preoccupando.
«Kingsley.» mormorò, tra i denti.
«Chi?» domandai, perplessa.
«Quello alla guida è Kingsley, uno scagnozzo di Evans.» sapevo bene a chi si stesse riferendo Justin: trafficanti di una città ben più grande di Stratford, spesso corrotti, che tentavano di metterci i bastoni fra le ruote da un po’, per via di faide nate tra le nostre bande dal principio.
«Dimmi, Justin. L’ultima volta che siete andati a fargli visita quanti danni gli avete arrecato?» chiesi, trafficando con la cinta. Il biondo ghignò, divertito, lasciandomi intendere quanto si fosse divertito in quella particolare impresa.
«Diciamo solo che abbiamo estinto il loro giro di prostituzione.»
«Capisco.» mormorai, infine, estraendo un oggetto metallico, nero e piuttosto pensante dallo stivale. «Dobbiamo sbarazzarcene, prima che scoprano dove viviamo.» asserii, cominciando a tirar giù il finestrino. «Fa’ come ti dico.» l’avvertii.
«Cos’hai intenzione di fare?» mi riprese.
«Taci.» puntai lo guardo sullo specchietto, osservando la prospettiva.
«Non dirmi cosa fare.»
«Non lagnare, Bieber.» sbottai. «Quando te lo dirò, dovrai fare inversione a U e non fermarti mai, corri via a tutta birra.» lanciai un’occhiata all’asfalto, poi all’auto che ci stava alle calcagna, incurante del piano che andava definendosi nella mia mente.
«Ma cosa..» non ebbe tempo di terminare un pensiero, mi ero già precipitata fuori dal finestrino, sedendomi sullo sportello. Notai i due uomini nell’auto in movimento, quindi puntai scaltra la pistola su una delle due ruote anteriori e, premendo il grilletto, diedi vita ad uno schianto. La gomma era scoppiata.
«Adesso!» gridai, stringendomi forte alla corazza metallica dell’auto, per non cadere. Justin, con un’inversione spettacolare, mi portò a perfetta distanza per completare il lavoro. Bastarono quattro precisi colpi perché le tre ruote rimanenti imitassero la prima e il parabrezza posteriore saltasse in mille pezzi, azione attuata per destarli un po’ e tenerli lontano.
Quando il tizio nel posto passeggeri tentò di scendere armato, sparai un bel colpo che, con ottima mira, lo sfiorò, impaurendolo, mio principale obbiettivo.
Costatando poi che l’altro non era intenzionato a recarsi fuori dall’auto, tornai al mio posto, sghignazzando. Ce l’avevo fatta.
«Avanti, ringraziami.» ridacchiai.
«Mi hai fatto prendere un colpo. Fottiti.» gran bel ringraziamento. Non c’è di che, Bieber. 

  
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