PERDONO. PER FAVORE NON PICCHIATEMI. PLIS. DEVO VIVERE PER VEDERE IL MONDO (?) U_U
Vi giuro, avevo betato, LO AVEVO FATTO, ma il mio pc ha detto che no, e ha cancellato tutto.
Perché ovviamente la colpa del ritardo è della Beta che Betare non fa ù.ù
And so. Son due mesi che non aggiorniamo, siete autorizzati a chiedere la nostra fustigazione nella pubblica piazza D: ENJOY!
Durrie e Donnie
Ah. Nel prossimo capitolo una gustosa sorpresa, dico solo occhio al finale. :3
Anelli di cipolla
Capitolo 11 [E.]
Ora.
Permettetemi una parentesi, breve per quanto possibile, su come i miei
occhi si affacciano a questo mondo.
So che non gliene frega nulla a nessuno, ma questa è la mia
storia, quindi zitti e muti, se non volete ascoltare siete
perfettamente liberi di andarvene, ci sono mille e più mille
vite raccontate migliori della mia, che ha solo un unico pregio che
emerge in un oceano di difetti: è unica e irripetibile.
Ecco, nonostante il mio apparentemente inscalfibile cinismo, io credo
nell’amore.
Mettiamolo in chiaro subito, è la premessa per capire chi
ero in quel momento, in quel grigio pomeriggio d’inverno, per
capire chi era quella ragazza appena scappata da uno stormo di piccioni
inferociti e in fiamme, mentre sedeva sul luogo della sua quasi-morte,
ed è necessario per capire cosa le è successo poi.
Sono una ragazza piena di contraddizioni, so essere una grandissima
stronza, non sono affatto una persona dall’animo gentile, di
certo non sono quella che si mette ad annusare fiorellini sospirando
per qualcuno, occasionalmente amo passare accanto alle coppiette
scabrose intente a ficcarsi la lingua in bocca a vicenda in pubblico e
quindi appiccicare le cicca tra i capelli o di lei o di lui a
seconda di chi fa più rumorini di risucchio, ma sono anche
un’inguaribile romantica.
Ho
attraversato la preadolescenza a suon di Cime Tempestose, Piccole Donne
e compagnia bella che mi sussurravano in testa dolci promesse
d’amore nella fresca brezza primaverile, mio malgrado lo ero,
e lo sono tutt’ora.
Non m’importava il finale, tragico o maestoso che fosse, io
mi sedevo, leggevo, e mi lasciavo sballottare tra le onde di una
passione che non sapevo nemmeno cosa fosse. E devo ringraziare davvero
la biblioteca di famiglia che mi fornì quei capolavori,
perchè il mio primo impatto letterario con l'amore era stato
piuttosto traumatizzante.
Era da poco passata a miglior vita mia nonna (che San Crispino e
l'allegra compagnia l'abbiano in gloria), e avevo poco più
di sette anni.
Gironzolando nella sua stanza, prima che venisse svuotata e adibita a
quella che ora è la sala di canto lirico della mia
genitrice, trovai, nascosta dietro ad una tendina di pacchianissimo
raso a stampe floreali, una pila di librettini fucsia, e presa dalla
gioia dell'insperata scoperta me ne portai un paio nella Tana, e
iniziai a cimentarmi nella lettura.
Ricordo perfettamente che mi sentii molto una Robin Hood, per quel mio
"furto", tra virgolette, perchè non credo si possa davvero
definire così.
Signori miei, esiste mai qualcosa di più difficile di rubare
degli Harmony ad una nonna deceduta (che San Crispino la protegga)?
Se mai trovaste risposta vi prego di farlo sapere alla me di sette
anni. C'è da dire che se ai tempi avessi saputo che diavolo
fosse un "Harmony" molto probabilmente mi sarei tenuta alla larga da
quella robaccia immonda.
Inutile dire che non ci capii davvero troppo. La mia mente innocente
non comprendeva cosa dovevano fare un uccello e una topa che giocavano
al dottore, nella mia testa era una scena tipo "Ospedale dei Pelouche".
Ma poi, grazie al cielo e a un po' di fortuna, incontrai l'amore dei
Romanzi con la R maiuscola, vedi Piccole Donne, Cime Tempestose et
similia.
All’inizio leggevo una parola alla volta, confondendomi nelle
frasi e tornando più volte sui miei passi, fuorviata ora da
un termine con un significato difficile, ora da una subordinata
particolarmente insidiosa. Non ci volle molto perché la pila
dei libri poggiati sul tavolino iniziasse a scendere più
velocemente. Mi ricordo, vedo la scena come se l’avessi
davanti agli occhi ora in questo preciso istante, io che mi piazzo
sulla quella poltroncina bordò, la più consunta
della biblioteca, quella dove era solita sedere la nonna (che San
Crispino eccetera eccetera) prima di morire.
Io che mi metto lì, fuori dal mondo, coi capelli
biondi– quanto erano lunghi! – stretti in una
treccia senza pietà che immancabilmente finiva per disfarsi
prima della fine della giornata.
Mi ricordo che la mia prima vera volta in
quella biblioteca era capitata quasi per caso, un piccolo aiutino dal
karma.
Dopo l’ennesimo pianto di bimba, ero in cerca di un posto
dove nessuno mi avrebbe potuto gridare contro. Avevo sentito dire da
qualche parte che nelle biblioteche bisogna stare zitti e fare il meno
rumore possibile, così mi pareva perfettamente logico andare
a nascondermi lì.
Mi ero aggrappata alla maniglia con tutte le mie forze, e finalmente
ero riuscita a smuovere le vecchie parti metalliche arrugginite, troppo
dure per le mie manine grassottelle.
A quei tempi la biblioteca non aveva ancora subito il restyling
post-grandinata da parte di mia madre, ed era ancora una stanza buia e
piena di cigolii, le pareti esponevano una tonalità di
biancogrigio più scura e antica, e invece della la moquette
c’era uno spesso tappeto persiano intessuto con polvere e
acari millenari.
Nessuno, nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi lì.
Mi ero guardata intorno, chiudendomi la porta alle spalle, e avevo
iniziato a cercare. Non sapevo cosa, ma stavo cercando.
E poi li avevo visti.
Libri, libri ovunque, pareti stipate di preziose parole stampate per
sempre. Ne avevo visti molti di libri, ma mai così tanti
diversi nello stesso posto.
Certo, ero stata qualche volta nelle librerie, ma lì erano
raggruppati in serie, divisi per forma colore e dimensioni tutti
uguali, tante copie della stessa storia.
Lì no, lì ciascuno era unico a sé
stesso, irripetibile ed eccezionale in quel piccolo universo delle
dimensioni di una stanza.
Mi affascinavano.
Passavo le dita sulle coste dei volumi, afferrando i titoli che mi
attraevano, poggiandoli in un’alta catasta sopra il tavolino
basso finché non ce n’erano un numero che reputavo
sufficiente; allora ne sceglievo uno a caso e rimanevo lì a
leggere, finché non lo finivo, spendendo ore e ore in quella
bellissima stanza solitaria.
Una
volta Tosha aveva obiettato che avrei anche prendere andare avanti a
leggere in cameretta, ma io le avevo risposto che così
sarebbe stato come guardare un leone in gabbia allo zoo rispetto a
vederlo correre libero nella Savana. I libri sono animali pericolosi,
predatori delle menti e dei cuori, e vanno rispettati lasciandoli
vivere indisturbati nel loro territorio di caccia. A meno che non si
trattino di Harmony, ovvio.
Fu tra quelle migliaia di pagine - alcune odorose e ingiallite, altre
bianche e chimiche - che trovai l’amore. Notavo che, chi
più chi meno, la maggioranza degli autori cercava di dare
una definizione a quella parola così astratta ma
così concreta, “amore”; ci provavano con
le loro storie, con le loro riflessioni, anche con delle strane cose
tutte ingarbugliate piene dia capo che
scoprii successivamente chiamarsi “poesie”.
Così ci provai anch’io.
Cercai
sul dizionario, ma lo trovai inconcludente, sterile.
Chiesi a mio fratello, e mi rise in faccia.
Chiesi a mia sorella, e non mi ricordo esattamente cosa rispose, era
qualcosa che aveva a che fare con delle bambole e dei cavalli, ma non
saprei richiamare alla mente con precisione cosa.
Chiesi alla mamma, e lei mi sbuffò contro, dicendo
«Quando avrai le mestruazioni ne riparleremo, va bene chérie?»
Da lì ovviamente seguì la mia domanda
«Cosa vuol dire
“mestruazioni”?», alla quale mia madre si
sottrasse adducendo come scusa un impegno inderogabile
dall’estetista e mandandomi a far merenda con la cameriera.
A
mio padre non lo chiesi, perché a pelle sapevo che lui
avrebbe potuto darmi la risposta che stavo cercando.
Così continuai a interrogarmi, per anni e anni, senza che
passasse giorno, o quasi, che non pensassi a quella parola
così impalpabile ma così densa e pregna.
Iniziai a costruirmi una definizione, totalmente astratta, piena di
buchi e d’imprecisioni ma composta di tante minuscole idee
impilate apparentemente a casaccio, tante piccole convinzioni che si
accumulavano nella mia mente in attesa che io dessi loro un senso.
Leggevo dell’amore degli altri e mettevo insieme i
pezzi del mio, in attesa che arrivasse davvero.
Osservavo le persone per le strade, e prendevo note mentali su ogni
dettaglio, mentre il mio cuore rimaneva indifferente e freddo come la
Luna.
Spesso l’amore era stato dolore, mancanza, erano solo
pensieri di seta rossa e velluto nero intessuti di schegge di vetro
affilato. Bellissimi all’apparenza, non appena osavo
sfiorarli mi facevo male e dovevo ritrarre la mano, sanguinante di
lacrime. L’amore, in
primis quello
per la famiglia, mi aveva quasi sempre causato solo un dolore infinito,
un oblio grigio e ovattato, era una luce lontana in fondo ad una strada
infinita, Dio visto dal fondo più nero
dell’Inferno.
Il mio cuore ghiacciato e rabbioso era troppo distante dalla luce per
sciogliersi, riusciva solo ad intravedere un riflesso, un barlume
fioco, inconsistente.
Però non ho smesso di crederci, e non penso che lo
ripeterò mai abbastanza.
Credo in quell’amore che ti tiene sveglia di notte, che ti
attanaglia il cuore come in una morsa strettissima che però
ha il tocco delicato delle ali di una farfalla.
Credo in quei gesti assurdi, in quei baci rubati contro un portone nel
cuore della notte, credo nelle lacrime calde che solo gli amanti sanno
versare, credo nella liberazione di un tocco condiviso sotto un
lenzuolo.
Credo nei brividi su per la spina dorsale, credo negli odori, nei
sapori, negli sguardi.
Io non credo però nell’amore a prima vista,
proprio no.
Non ci ho mai creduto né mai ci crederò in vita
mia. I colpi di fulmine sono solo delle emerite stronzate, mere
invenzioni poetiche e retoriche che servono a far sospirare ragazzine
gonfie di ormoni, sono dei bigliettini accartocciati che trovi dentro
l’involucro di una famosa marca di cioccolatini che non
citerò per non fare pubblicità occulta (ma tanto
si è capito che sono i buonissimi Baci Perugina, compra Baci
Perugina! Compra compra compra COMPRA!).
Non mi sembra possibile che due persone che a malapena sono coscienti
l’una dell’esistenza dell’altra possano
amarsi.
L’amore è fatto di condivisione, di ricordi
costruiti insieme, non può essere ridotto e imploso
all’effimerità di un singolo attimo,
l’amore è uno sguardo verso il futuro, non uno
spazzare di ciglia, l’amore non sta in un singolo battito di
cuore. Semplicemente è una cosa troppo complicata, che
richiede tempo e dedizione, è la cosa più bella
cui un animo umano possa aspirare, e non voglio perdermi in metafore,
poeti e scrittori si sono spellati le mani per descriverlo, e
sicuramente l’hanno fatto infinitamente meglio di me, e
ancora non sono riusciti a definirlo.
Dicevo, io non credo nell’amore a prima vista, ma non saprei
come definire altrimenti ciò che accadde quel freddo
pomeriggio d’inverno.
Non saprei che altre parole usare per spiegare come il mio piccolo
mondo cambiò improvvisamente centro di gravità.
Sipario.
Mi
girai lentamente, sbirciando di sottecchi, senza sapere esattamente chi
o cosa aspettarmi alla fonte di quel timido richiamo.
Mi ritrovai a fissare una ragazza della mia età o forse poco
più grande, assurdamente alta e assurdamente bionda, che
torreggiava flessuosamente dietro di me, lo sguardo speranzoso dietro
degli eleganti occhiali da vista con la montatura beigina di
forse-corno che incorniciavano occhi così chiari da sembrare
completamente bianchi, ma che invece ad un esame più attento
risultavano di un azzurro incredibile, del colore del ghiaccio artico
più pulito ed incontaminato, più scuro verso il
bordo dell’iride e più evanescente attorno alla
pupilla limpida e nerissima.
Aveva anche una minuscola macchia marrone scuro nel sinistro, notai.
Era la ragazza più chiara che avessi mai visto, pallida e
con il naso leggermente all’insù punteggiato di
lentiggini timide come bucaneve, le labbra che quasi scomparivano
talmente erano sottili e poco delineate, tese in un sorriso
irresistibile.
Era, senza ombra di dubbio, la ragazza più bella che avessi
mai visto.
Persi un battito, solo uno, poi il mio cuore iniziò a
pompare come se avessi appena finito una maratona.
Ma sono io o qui improvvisamente fa un caldo della misera?
«Ciao», risposi, sforzandomi di mantenere
un tono neutro e di non squittire come un topo davanti ad un enorme
pezzo di formaggio.
Wow, Eve, che grande eloquio. Ah, e se la smettessi di tremare
come un’ossessa sarebbe cosa buona e giusta, grazie, sembra
che hai il Parkinson.
Strinsi forte le mani l’una nell’altra,
intrecciando le dita, sperando che Lei non notasse il mio evidente
stato di non-tranquillità, o che lo riconducesse alla
sorpresa.
«Già, ciao»
Anche Lei non scherzava però.
Potrei giurare che l’imbarazzo di quel momento era una
cortina impalpabile tra noi due, incrinata solo dal suono del mio cuore
che stava pompando all’impazzata sangue in ogni – e
con “ogni” intendo ogni, ci
siamo capiti vero? –
angolo recondito del mio corpo.
Rabbia spuntò da un punto imprecisato dietro la ragazza e
inclinò la testa di lato con quella sua posa assurdamente
inquietante che avevo imparato voler dire «Tutto
bene?» ma la ignorai, non riuscivo proprio a distogliere lo
sguardo da Lei.
Lei mi guardava, io la guardavo. Avevo la bocca totalmente impastata,
la lingua sembrava troppo grossa per stare tra i denti.
Silenzio.
Ti prego, fighissima sconosciuta, dì qualcosa,
qualsiasi cosa, non sono in grado di gestire rapporti umani, ti prego
ti prego.
Silenzio.
Ero quasi al punto di scappare via piangendo sulla mia imbranataggine
sociale quando lei scoppiò a ridere.
Dapprima sobbalzando leggermente con le spalle, una risata nervosa e
imbarazzata, ma poi esplose. Aveva una risata cristallina,
sguaiatamente educata e contagiosa, che mi fece immediatamente spuntare
un mezzo sorriso in bilico sull’angolo della bocca.
Si piegò in due, reggendosi lo stomaco con le mani, le
lacrime agli occhi per quanto stava ridendo, e si lasciò
coprire la faccia dai lunghi capelli biondi, più biondi
persino di quelli di Tosha, lucidi e lisci, una cascata di fili
dell’oro più fine mai visto sulla faccia della
terra.
Dovetti trattenermi con tutta la mia volontà per non
allungare la mano e accarezzarli.
Invece, me ne stavo letteralmente in estasi contemplativa, mentre una
risatina semi-isterica mi sgorgava incontrollabilmente dalla gola.
Vidi che quando sorrideva le spuntava un’adorabile fossetta
nella guancia sinistra.
Aveva una leggera cicatrice sul mento.
Le sue ciglia erano lunghissime.
Non aveva un filo di trucco.
Aveva i denti piccoli e perfetti, coi canini leggermente sporgenti, un
po’ vampireschi.
Ai lobi le brillavano dei brillanti semplici, azzurrini, che le
risaltavano ancora di più gli occhi.
Notai tutti questi dettagli nel giro di un nanosecondo, ammaliata.
«Oh, che situazione assurda! Oh mio Dio, scusami!»
disse in qualche modo tra una risata e l’altra
«chissà cosa mi è venuto in mente di
arrivare così a caso a romperti, ma ti ho riconosciuto da
lontano ed era un sacco che ti stavo cercando e…»
«Come? Mi stavi cercando?»
Fa niente, sei così bella che mi va bene anche se
sei una stalker psicopatica, davvero. Anche se non hai molto della
stalker, hai più dell’angelo custode, sai?
«Beh sì, non ti ricordi di me?»
No, non mi ricordo di te, mi sarei ricordata di una bellezza
così mozzafiato, accidenti, avrei assunto un investigatore
privato e mezza squadra di SWAT per ritrovarti, sei la cosa
più bella che abbia mai visto nella mia vita, ti conosco da
nemmeno 5 minuti e mi svenerei seduta stante per sentirti ridere ancora
una volta, così potrei morire felice.
«No, scusami tanto, dovrei?»
«Aspetta un secondo, solo un secondo!»
esclamò, come se avesse risolto un’equazione
difficilissima.
Tutto il tempo che vuoi, però lasciati guardare,
no, non coprirti il viso! Perché ti togli gli occhiali e ti
raccogli i capelli con la mano?
«Così che mi dici?»
All’improvviso cambiò espressione, da radiosa
divenne cupa, chinò il capo e contrasse i suoi lineamenti
perfetti in una smorfia di dolore e pianto, tirando appena appena su
col naso.
La guardai.
«Ma porca…SEI QUELLA DELL’AUTOBUS!
QUELLA DEL FAZZOLETTO!»
Persino i miei pensieri tacquero, di fronte a tale rivelazione.
Porca puttana.
Pooooorca puttana.
Ero senza parole! Come avevo fatto a non riconoscerla, e soprattutto,
come avevo fatto a non accorgermi di quanto era bella la prima volta
che l’avevo vista?
«Indovinato!»
Mi prese delicatamente per il gomito, sorridendomi.
Per favore, puoi non lasciarlo mai più?
«Ed ora per premiare la tua abilità investigativa,
posso offrirti una cioccolata calda con taaanta panna?
O un caffè? Un the? Quello che vuoi, ma così
almeno stiamo al caldo mentre parliamo, ti va?»
«Sicuro»
Lingua, tu in teoria dovresti muoverti per parlare. Fai il tuo
lavoro, cazzo.
La mia risposta secca e sterile la fece rimanere un po’ male,
notai con crescente preoccupazione, così cercai di
sbloccarmi come si fa con le finestre vecchie che s‘incollano
alla cornice. Bisogna dargli uno strattone violento e senza
pietà per farle muovere.
«Cioè, volevo dire, sicuro, non
c’è nulla che mi farebbe più felice,
davvero, adoro la cioccolata, ne mangerei a quintalate, anzi una volta
ne ho fatto indigestione e sono stata malissimo, ho passato delle ore a
lamentarmi sul cesso finché i miei hanno deciso che non ne
potevano più e mi hanno portato in ospedale a fare la
lavanda gastrica. Cioè, però io ero felice,
perché, eh, cioccolata!»
Certo, perché non le racconti anche di quella volta
che hai avuto la diarrea alle elementari? O della verruca sotto il
ditone del piede? Eve, sei una gran testa di merda, te l’ha
mai detto nessuno?
Fortunatamente per me sorrise alla penosissima
battuta-che-non-era-una-battuta e mi rispose:
«Bene, allora, cioccolato vuoi e cioccolata avrai! Mi porga
il braccio signorina E-DI-CI,
che la porto ad un bel baretto qua vicino che fanno una cioccolata che mmm ti
manda in paradiso! E la panna, oh, la panna!»
In paradiso ci sono già, sai? E tu sei minimo una
cherubina.
«Ah, a proposito, posso sapere per
cosa stanno quelle iniziali? Sono il tuo nome vero?»
«Yup, Evelina, Evelina De Cervis. Ma
per favore, chiamami Eve, abbiamo già condiviso un sugamoccio,
siamo in confidenza ormai!»
Oh yeah, Eve-sex-symbol-sciupafemmine
time, vai così baby!
Nonostante la battuta penosa riuscii
a farla ridere ancora una volta. Ero in estasi totale.
«Certamente! Per di qua, conosco una scorciatoia!»
Iniziò a tirarmi come fanno quei cagnolini minuscoli che
scodinzolando ti portano dove vogliono, non perché abbiano
tanta forza ma perché manca proprio il cuore di trattenerli.
«Hey, ma scusa un secondo, io però non so nemmeno
come ti chiami!»
Voglio il nome del mio angelo, così avrò
qualcosa da sussurrare la notte.
Si fermò di botto, con una mezza giravolta mi venne davanti
e si piegò in avanti, finendo a pochi centimetri dalla mia
pelle accaldata. Si tirò su gli occhiali con
l’indice, e mi guardò fisso, quasi che stesse
considerando di non rispondere alla mia domanda.
Ridacchiò, battendosi il dorso della mano sulla fronte,
teatralmente.
«Oh, che sbadata assurda che sono! Chiedo venia!»
Registrai un lieve accento straniero non meglio definibile, forse russo
o giù di lì, nella sua voce calda.
Argh, sexy, tremendamente sexy.
A sorpresa mi stampò un bacione enorme sulla guancia.
«Piacere, sono Erica, Erica Kusshniriuk, piacerissimo di
conoscerti!»
Erica.