ZENZERO E CANNELLA
Capitolo 14.
Il sole mi ferì gli
occhi.
O forse fu la
sensazione di panico quando vidi Martin sporco, con i vestiti bruciati e il
viso escoriato correre a piedi scalzi verso di me; pensavo fosse un miraggio, i
troppi giorni di buio in uno scantinato lontano dalle persone che amavo, dalla
realtà.. ma fui costretta a stropicciarmi gli occhi, che il sole non centrava
nulla, che mio suocero era lì, difronte a me che piangeva.
“Martin! Oh buon Dio!”
Lo presi per le braccia prima che si lasciasse cadere sulla strada, “che è
successo?! Clorine! Clorine!”
Mia madre aprì il portone trafelata, dopo un iniziale fase di panico si sollevò
la veste e mi aiutò a portarlo dentro. “Sul divano! Apri tutte le dispense
mamma, Ygritte deve aver riposto del disinfettante e
qualche medicinale.” Strappai delle fascette di tessuto dalla tunica di lino
che indossavo tamponandole sul viso stravolto di Martin; tossiva copiosamente,
dolorante per le ferite che riportava a gambe e braccia.
“E’ bruciato tutto..”
mi strinse forte la mano, bloccandola. “Aurelien ha impedito che li portassero
via..” delirava ed io con lui; fissavo la sua bocca con occhi sbarrati, una
crescente morsa di panico allo stomaco. “Qualcuno ha appiccato il fuoco.. per
farci scappare.. è bruciato tutto. Bruciato tutto..”
“Dov’è Aurelien?!”
“Ancora.. là.” E
svenne.
Percorsi la Saint Honorè de Fabourg con il cuore
stretto in gola; falcate il doppio dei miei passi mi portarono a casa del
dottor Arnauld Bertrand, il medico di famiglia Chedjou.
“Arnauld! Arnauld sono Deesire!” Bussai con impeto al
portone, prima che una servetta in camice bianco mi aprì; dietro di lei il medico
con lo stetoscopio infilato negli orecchi, mi guardò accigliato. “Arnauld c’è
stato un incendio alle aziende Chedjou! Mio marito è
là, mio suocero è a casa mia e ha bisogno di assistenza! Ti prego, aiutami!
Aiutami!”
“Svelta Pauline, un
bicchiere d’acqua per madame Deesire. Chiama il
dottor Russeau e prenota una carrozza per casa Chedjou; digli di portare con se la borsa con la morfina, unguento
e garze. Tante garze. Su! Su!”
Lo guardai spaventata.
“La carrozza, Arnauld?!”
“Noi useremo la
macchina fino ai sobborghi, Julien si occuperà Martin. Tranquilla Deesire, Aurelien sarà già stato medicato a quest’ora.”
Una colonna di fumo
nero e denso era quanto rimaneva delle aziende capeggiate da mio marito e la
sua famiglia; i due blocchi di cemento che costituivano il cuore pulsante
dell’attività, fra uffici e reparto costruzione, del tutto sventrati. Intorno
ammonticchiati, corpi di uomini senza vita, macerie e le sentinelle tedesche
nelle loro giubbe grigie. Potevo sentirli ridere in una lingua sconosciuta; mi
vomitai sulle scarpe, prima di farmi forza e avvicinarmi ai quei fantocci
inermi, un tempo vita.
“Nein!”
Un uomo in divisa usò un tono minaccioso al mio avanzare; strinsi i pugni,
scorrendo la fila da dietro la sua piazzata mole. “Nein,
madame!” Il suo francese ironico mi
fece infuriare.
“Mon mari !“ Graffiai fra i denti, indicando i cadaveri; Arnauld mi
trattenne per un braccio, rivolgendosi alla guardia in un perfetto tedesco.
Dopo alcuni istanti si voltò a guardarmi. “Sono morti per il crollo, Deesire, guardali, non hanno fori di pallottola. Se vuoi
avere una speranza di ritrovare Aurelien devi mantenere la calma, chiaro?!”
Annuii. “Che ti hanno
detto?!”
“Che è stato portato
dietro, con i feriti. Non hanno il permesso di toccare nessuno, per ora. E noi
dobbiamo sfruttare questa occasione. Andiamo!”
Ci allontanammo per il
retro. Il piazzale antistante era stato trasformato in un ospedale da campo.
Riconobbi qualche viso e fra questi Danielle la segretaria di Aurelien, sulle
prime file di barelle improvvisate.
“Oh Deesire! E’ stato così coraggioso..” la donna piangeva
attaccandosi con forza alle mie mani; aveva un brutto taglio sul capo, Arnauld
annuì sparendo fra le lettighe di fortuna. “Sono entrati all’improvviso. Quelli
là, quei crucchi. Portavano via le persone. Le picchiavano, si sentivano le
urla.. qualcuno di noi si è ribellato ed è scoppiata una rivolta, il caos.. è
stato lui ad appiccare il fuoco, ne sono sicura. Ci ha fatto uscire prima che
scoppiasse l’incendio.”
“E’ rimasto dentro?!”
“Sì è lì che l’ho
lasciato. Ci ha salvato.” Si frugò nella manica della giacca; tirò fuori da una
fettuccia cucita all’interno dell’orlo la catenina d’oro con il crocefisso e la
fede di Aurelien. “Mi ha detto di dartele quando ti avrei visto. Era sicuro saresti
arrivata.”
Rabbrividii; se non mi
fossi scontrata con Martin.. inspirai profondamente. No, Aurelien non poteva
essere morto. Ogni cellula del mio corpo si opponeva ad una tragedia dalla
portata così devastante; il mio dolce Aurelien.. sacrificato per gli altri.
Quante cose dovevo ancora da imparare da quell’uomo, quante volte ancora la
vita doveva farmi aprire gli occhi sul tesoro che avevo fra le mani?
Cosa c’era in me che
non andava? Perché ero così maledettamente sbagliata?
“Deesire!
Deesire l’ho trovato!” Il dottor Bertrand si stava
sbracciando all’incrocio di due tende; corsi immediatamente verso la sua voce.
Aurelien giaceva su una branda di paglia, con il capo fasciato, livido e privo
di sensi. “Non respira bene.” Auscultò i polmoni e scosse il capo. “Temo che
smetterà di farlo se non lo portiamo via immediatamente.” Barcollai, impaurita
e angosciata. “Deesire ricorda, concentrazione! Al
mio tre lo alziamo. Pronta?!” Annuii passando le sue braccia intorno al mio
collo, con Arnauld che lo alzava da dietro per i fianchi, tirandomelo addosso;
era un peso morto, del tutto privo di forza.
“Si riprenderà?!” Gli
accarezzai il viso contratto dal dolore, Arnauld mi guardò dallo specchietto
retrovisore alla guida di una vecchia Rolls. “Le
ferite sembrano superficiali, ma solo Dio sa cosa ha inalato lì dentro.”
Solventi chimici, rame, metallo, cemento.. la lista dei veleni scorreva
silenziosa nella mia testa; tremai vinta dal dispiacere. “Ma non avremmo
risposte certe fino a quando non lo visiterò per bene.”
“Ce la devi fare, mi
hai sentito?!” Sussurrai al suo orecchio incrostato di sangue rappreso; una
lacrima scivolò per la guancia, giù dal collo, frantumandosi sulla sua; sembrò
m’avesse udito perché per un attimo avvertii un fremito dalle sue viscere. Lo
abbracciai, “non ti farò più del male Aurelien. Mai più.”
E pregai, pregai Dio
di redimermi, di prendersi la mia stessa vita.. ma la sua no; non quella di mio
marito, il mio onesto marito che aveva abbattuto le fabbriche per cui suo nonno
prima di lui aveva dato il sangue, per salvare vite innocenti.. al prezzo della
sua stessa vita. Perché era coraggioso, affettuoso, l’uomo tutto di un pezzo
che mi aveva fatta innamorare per la sua autorità e concretezza; cosa altro mi
sarei aspettata da lui? Il mio testardo, pazzo e pragmatico Aurelien.
“Oh Dio ti prego.. non
portarmelo via.. non portarmelo via..”
E Dio m’ascoltò,
perché mentre la macchina scorreva veloce sulla Quai des Tuileiries e in Place de la Concorde vidi Fabien
e i nostri sguardi si trovarono attraverso il vetro dell’auto, per istanti
simili all’eterno; se ne stava andando, amareggiato e in pena, la sacca
pendente dalla spalla, di ritorno da un appuntamento mancato. Il nostro.
E suoi occhi nei miei
dissero addio. Addio per sempre.
Julienne e Arnauld
adagiarono Aurelien sul nostro letto; rovesciarono le coperte e armati di
forbici gli strapparono di forza gli abiti di dosso. Il corpo era un campo
martoriato di escoriazioni e bruciature, la sua pelle ambrata sporca di vivo
sangue rosso; i polmoni si alzavano a rilento, ogni fil di fiato un flebile
lamento. “Edema polmonare acuto.” I due medici sentenziarono senza pietà.
“Ha i polmoni pieni di
liquido.” Julienne perorò la causa trasformando un pensiero in parole. ”Otto
milligrammi di morfina per cominciare.”
“Sì” Annuì Arnauld,
sgombrando malamente il comodino per far spazio ai suoi attrezzi medici. “Servono tubi per la trachea e una bombola di
ossigeno.”
“Somministriamo anche
un diuretico per non sovraccaricare troppo i reni?!”
“Dopo la morfina.
Pensi tu all’ossigeno?!”
Quello scattò,
spogliandosi del camice e gettandolo alla rinfusa, ai miei piedi. Si accorsero
di me, rannicchiata sulla panca delle meraviglie di Clorine;
come avrei desiderato tornare indietro a quei tempi felici, dove eravamo solo
noi innamorati e contenti con l’unico stupido pensiero di arginare le smanie
d’alta moda di mia madre. “Deesire ci serve il tuo
aiuto. Puoi procurarci delle cannucce?!”
Balzai in piedi in
attenti. “Sì.”
“Ottimo e ci servono
tutti i bacili d’acqua che riesci a trovare. Julienne tornerà in studio per
procurarsi la bombola e una stecca per la gamba di tuo suocero. Se le trovi
portami tutte le bende che hai a disposizione e disinfettati le mani.”
Annuii, correndo in
cucina; Martin era ancora sul divano, bendato e ripulito, sospirai e guardai
Ines inerme ai suoi piedi, sembrava morta non fosse per il tremito delle labbra.
Mia madre giaceva imbambolata in un angolo fra la cucina e lo studio di
Aurelien con il capo fra le mani e i singhiozzi.
“Dov’è papà?!”
“Sarà qui a momenti,
con Cedric. Sono a dare una mano al campo. Una tragedia. Una tragedia.”
Ero circondata da
automi e non ero per nulla felice; riempii i catini d’acqua tiepida e ridussi a
brandelli tutte le pezzuole di lino e cotone che trovai. I regali del mio
matrimonio, inutili suppellettili che non avevo mai adoperato, in frantumi;
sorrisi arcigna. Non era stato così tutto il mio matrimonio? Un costoso
abbellimento che non era servito a tenerci uniti. Scossi il capo con vigore e
mi stupii dei miei repentini cambi d’umore. Anche l’aria si era fatta
irrespirabile, pesante, piena d’umori e disinfettante che mi dettero la nausea;
vomitai nel lavandino la mia frustrazione, il pianto, la fatica e la
disperazione di perdere Aurelien.
“Grazie Deesire, adesso ti prego aiutami a ripulire le ferite.”
Passai delicatamente
il cotone imbevuto di acqua ossigenata sulle lacerazioni del petto e delle
gambe, mentre Arnauld tagliava i tubi e li assemblava in un unico serpentone;
lo infilò nella bocca di Aurelien premendo finchè
questo scivolasse giù attraverso laringe e dentro la trachea. “Questo gli
permetterà di respirare prima che giunga la bombola. Continua così, brava.”
Sfilò dalla borsa una siringa dalla quale portò via il tappo, la picchiettò
facendo fuoriuscire l’aria e iniettò il liquidò nel braccio molle di Aurelien.
“Morfina.” Asserii
anticipandolo, mi guardò ed estrasse una seconda siringa; la iniettò all’altro
braccio.
“E anche il diuretico
è fatto. Manca solo il respiratore. Lascia fare a me adesso.” Mi sorrise
armeggiando ago e filo sulla pelle ora detersa di mio marito, tirandola e
ricucendo gli strappi; scottava ed era febbrile, sudato. Mugolavo ogni
qualvolta tirava e Aurelien vibrava dal suo sonno senza sogni.
Julienne arrivò con il
respiratore e mi sentii più leggera; la mascherina copriva naso e bocca, il
respiro sembrava acquistare vigoria anche se ogni dieci minuti lo puntellavano
con iniezioni di diuretico. Si divisero i compiti, alternandosi dal malato meno
grave sul divano –sempre vegliato da Ines- e quello da tenere sotto
osservazione, intubato nella mia stanza da letto.
“Deesire,
puoi andare a riposare adesso. Non c’è null’altro che possiamo fare.”
“Voglio restare qui.”
E calai il capo sul suo braccio inerme, fra una preghiera e un pianto silenzioso.
Aprì gli occhi dopo
sei giorni di coma artificiale.
“Deesire?!”
Sembrò una domanda incredula, come la mia commozione; lasciai cadere in terra
la pezzuola con la quale gli stavo detergendo il viso per prendergli le mani e
baciarle. “Sei qui..”
“Dove altro potrei
essere?!” Soffocai il pianto nel suo palmo, premendo forte la mano contro
lenzuola con la mia fronte che spingeva giù per attutire i colpi dei singhiozzi.
“Non è successo
niente.” Con l’altra mano, si posò debolmente sul mio capo, “sei qui, il resto
non conta.” E sospirò addormentandosi di nuovo.
Sentii una mano, dal
fondo di un sogno astratto, agitarmi la spalla. “Deesire..”
“Mamma!” Mi allarmai,
spaventata per aver chiuso gli occhi; era buio fuori le imposte. Controllai il
respiro di Aurelien, lineare; sorrisi e mi stupii di essere ancora capace di
farlo.
“Devi mangiare.” Alla
parola mangiare, sobbalzai inorridita.
“Benjamin!” Vibrai,
come colpita da una scarica elettrica; avevo dimenticato completamente mio
figlio.
Mi guardò
affettuosamente, parlando con estrema e dolce lentezza. “E’ con Cedric adesso.
Abbiamo comprato del latte artificiale, sta tranquilla.”
“Tranquillaaa?!”
Balzai in piedi, guardando Aurelien e poi l’ingresso. Poi di nuovo Aurelien,
con il cuore in frantumi e il richiamo viscerale da madre di nuovo arzillo.
“Urla, se dovesse aprire gli occhi! Chiaro?!” E schizzai via dalla stanza
spostando l’aria; Cedric era comodo su una poltrona da basso, con Benjamin
urlante di gioia sulle sue ginocchia.
“Oh-oh.. mamma
infuriata a ore tre!” Mi passò il piccolo senza batter ciglio, “ciao sorella!”
Non vedevo mio fratello da un secolo e mezzo, più o meno, ma non avevo il tempo
di sbrodolarmi in cerimonie stucchevoli. In salone c’erano papà con la faccia
tesa e svuotata, Arnauld con il giornale aperto a mezzaria ed io che armeggiavo
con i bottoni della camicetta per allattare Benjamin. “Ha appena mangiato..”
Cedric tentò di fermarmi paonazzo in viso, “.. ma immagino che a te non importi
un bel niente. Prego, fa pure.” Il bambino si attaccò immediatamente al mio
capezzolo, gli accarezzai la tempia piangendo.
“La mamma è qui adesso.”
E lo cullai fino alla cucina, dove riversai la poltiglia di farina e latte
vaccino nel rubinetto. “Niente più schifezze per il mio ometto.” Mi asciugai
gli occhi, conducendoci nuovamente al capezzale di Aurelien.
“Non può stare qui Deesire.” Rimbrottò Clorine,
vedendomi entrare con Ben.
“E chi lo dice?! Sono
sua madre, lui resta dove sto io.” La guardai con il fuoco negli occhi, “latte
artificiale! Se volevi uccidermi potevi servigli direttamente cianuro!”
“Sei cocciuta come un
mulo!” Si alzò di getto, facendo scivolare la sedia all’indietro. “Ti abbiamo pregata
di riposarti e tu no, ti abbiamo pregata di mangiare e tu sempre no. Sei
rimasta ostinatamente attaccata a questo letto per sei giorni di fila. Sei
lercia, hai i vestiti tutti strappati ma è tuo marito che rischia la vita, va
bene e lo capiamo. E’ di Benjamin che parliamo adesso, cosa dovevamo fare?!”
“Io ci sono. Mi farei
togliere la vita per lui.” Soffiai col muso duro e poi piansi maledette lacrime
di frustrazione e Dio solo sapeva cosa. Ero sensibile e agitata, troppo. Passai
Benjamin da un seno all’altro ma lo rifiutò, ormai sazio. “Come ho potuto..” la
guardai sul crollo di una crisi di nervi, lei mi sorrise accarezzandomi le
spalle. “Sei stata coraggiosa. Al posto tuo sarei crollata dietro tuo padre,
non avrei sopportato l’idea di vederlo immobile, vulnerabile, incerto. Ma è di
te che stiamo parlando, no?! La mia cocciuta e forte Deesire.”Allungò
le braccia per prendere Ben e glielo passai con estrema delicatezza.
“Faccio spostare la
culla qui se vuoi. Da come sbatte le palpebre questo ometto ha bisogno di
riposare. E non solo lui.. sono sempre la tua mamma apprensiva Deesire, certe cose non cambieranno mai.” Mi baciò la
guancia e sparì nella stanza accanto.
“Sempre a bisticciare
voi due..” Un fil di voce rauca proruppe nel silenzio; Aurelien aveva riaperto
gli occhi e stava.. ridendo. Ridendo! Aprii e chiusi la bocca incapace di dir
nulla, non c’era visione più bella e paralizzante del suo sorriso in contrasto
con la pelle pallida ed emaciata. Passi affrettati per le scale mi avvisarono
dell’arrivo della truppa –credo più per il baccano messo su da me e mia madre
che per l’ingente miracolo appena avvenuto- con Clorine
in testa riemersa dalla nursery, seguita da Arnauld –occhiali calati sul naso e
l’immancabile stetoscopio al collo- mio papà, Ines e Cedric che mi spodestarono
senza tante scuse dalla prima fila; finii a boccheggiare sola e spaurita dietro
la pienezza della nostra famiglia al completo.
Arnauld scansò la
mascherina dal suo viso, controllando pulsazioni, riflesso delle pupille e
lingua; annotò soddisfatto i parametri, si deterse le mani applicando i guanti
per rimuovere le bende dalle ferite, annusò gli umori delle stesse e sorrise.
“Bel lavoro Deesire. Stanno guarendo in modo
impeccabile. Come ti senti Aurelien?!”
“Come se mi fosse
passato un treno merci addosso.”
“Sì più o meno deve
essere questa la sensazione che si prova.”
“Che mi è successo
dottore?!”
“Non ricordi nulla?!”
Si accigliò. “Credo di
ricordare solo cose spiacevoli.” Guardò fuori la finestra, quella sui tetti
della città e rabbrividì. “Volevo sapere della mia salute, dottore.” Sorrise
ancora, era una benedizione guardarlo; i nostri occhi si trovarono nel mezzo
degli sproloqui di Bertrand su ciò che era accaduto, della sua situazione
clinica e ben presto restammo solo noi in quella stanza. Accarezzò la mia paura
con voce vellutata, invitandomi al suo capezzale. “Ti voglio vicina, qui.”
“Aurelien!” E come se
mi fossi svegliata dal torpore, corsi ad abbracciarlo; era dimagrito e le sue
spalle larghe ancora più prominenti. “Aurelien!” Baciai ogni centimetro di
pelle del petto nudo libero da garze e cerotti, poi il collo, gli occhi, le
labbra.. perdendomi nella disperazione dal sapore dolceamaro; era rimasto con
me, martoriato ma vivo e presente. “Non farmi mai più una cosa del genere! Mai
più!”
Asciugò con il pollice
le lacrime ai bordi delle mie ciglia, sospirando. “Ehi sono vivo adesso, non
piangere, sono qui.”
Lo guardai truce. “Tu
devi vivere sempre.” Premetti le mie labbra contro le sue con foga e abbandono
tanto che si accasciò all’indietro portandomi giù con lui, per le spalle. “Non
merito una gioia simile ma.. la tua vita è la cosa più preziosa per me ed io
sono felice, felice, felice di averti qui con me!”
“Deesire
devi aver battuto la testa da qualche parte, sai?!” Rise fra i miei capelli,
accarezzandomi la schiena. “Tu meriti di essere una signora molto felice. Ti
ricordi?!” Assentii ricordando la sua promessa al nostro primo ballo, “beh io
non l’ho dimenticato. Per me.. è ancora così.”
Annuii con gli occhi
umidi. “So che hai detto a Danielle che mi aspettavi.” Mi sfilai dal collo la
catenina con la fede e gliela porsi, infilandola al suo; baciò il crocefisso e
l’anello e mi guardò intensamente.
“Non ho mai smesso di
credere in te. Tu credi in noi?!”
Ci credevo? Avrei
varcato la soglia di casa, girato le spalle alla nostra vita bella e dura
perché eravamo giovani e impetuosi, percorso tutta la città e seguito quel
soldato fin capo al mondo?! Ero davvero pronta a rinunciare ad Aurelien? Cosa
era quel filo che ci legava, come una trottola che girando a lungo su stessa
tornava sempre al punto di partenza? Non avevo la risposta e non l’avevo avuta
per un sacco di volte, ma quel che era certo e che non avrei mai più lasciato
il mio posto.. perché quello era il mio posto; separati davamo vita alle grandi
catastrofi della nostra esistenza, insieme tutto era sicuro, dolce.. e mio da
poterlo toccare con le mani. Mi sentivo amata da questo uomo straordinario ed
io amavo lui, non c’era nessun copione da ripetere a memoria; amare Aurelien,
vivere con lui, era sempre stato così naturale, dopotutto. Fabien
Moreau sarebbe rimasto per sempre l’altro grande amore della mia vita; ma quella
vita era esasperante e sembrava un miraggio da deserto africano. Non si vedeva
mai la fine. Solo immagini sfocate e deliranti.. per quanto deliziose. Quella
vita un po’ pazza e irragionevole.. allo zenzero e cannella.
Ma.. era stato il
tocco di lavanda a rendere il tutto
davvero speciale.
“Io non funziono bene
se tu non ci sei.” Tirai su con il naso, affondando la testa nel cuscino alle sue
spalle, “oh Aurelien.. mi dispiace così tanto! Così tanto!” Mi abbracciò, lui
che infondeva coraggio a me. Si poteva chiedere qualcosa altro ancora al
creato?!
“Una volta mi hai
detto che la tua casa è dove sono io; entra dentro me Deesire
e stai comoda qui. Non chiedo altro, non desidero altro. So che ti ho
trascurata, so che i miei obbiettivi mi hanno distratto dall’unica cosa davvero
importante; te. E so che in qualche modo.. Fabien ha
avuto il privilegio di.. sentirti in un modo a me sconosciuto. Non voglio
sapere come, non adesso perlomeno. Non mi importa più di quanto mi importa
sapere che sei qui con me e ci vuoi restare. E questo non mi basterebbe comunque,
ho bisogno.. disperato bisogno di sapere che tu credi in me e soprattutto in
noi.” Mi portò in posizione eretta, affondando lo sguardo cerchiato e nero nel
mio; la mia bocca una linea dura e asciutta incapace di proferir verbo.
Sorrise, stemperando l’ansia e aggiunse il resto con un risolino ironico, “non
reggerei un altro colpo, stavolta.” Mi solleticò il labbro inferiore con
l’indice, gli occhi socchiusi.
Deglutii, inspirando
sul suo tocco leggero al mio viso. “Credo in te perché sei la persona migliore
che io conosca. Voglio amarti per il resto dei miei giorni, davvero.” Sfiorai
con i polpastrelli il petto rasato e mi fermai all’altezza del cuore. “Questo
lo lasciamo intatto. Ho passato una brutta giornata nell’incertezza che te ne
saresti andato.”
“Immagino.” Rise e
sospirò affaticato.
“Ti lascio riposare.
Hai bisogno di qualcosa?!”
“Solo del tuo amore.”
Scossi il capo; il mio
mieloso liege
era di nuovo con me. Tutto sarebbe andato a posto.
Uscii dalla stanza
incontrando gli occhi lucidi e rossi di Ines; ci guardammo a lungo prima di
abbracciarci forte. Non capii il senso ma ricambiai con trasporto.. era
confortante farsi consolare quando il mondo dal baratro scuro che ti ha fatto
saggiare, ti apre un spiraglio di luce. “Arnauld dice che si riprenderà. Ma a
che prezzo.. credo non voglia sbilanciarsi e tenerci alta la guardia.” Fu come
una doccia gelata, non avevo minimamente preso in considerazione le conseguenze
ammesso appunto ce ne fossero. “Ines è giovane e forte.. è il mio liege.. è
riemerso dal sonno per sgridarmi, santa pace!”
“Qualcosa di
profondo.. ha detto. Qualcosa di profondo..” si strinse ancora più forte,
improvvisamente singhiozzando; la strinsi per le spalle, accarezzandola. No,
Aurelien non sarebbe morto. Lo sentivo.
“Shh..
calmati Ines, una cosa alla volta. E’ con noi, adesso. Domani penseremo al
resto.” Sì, pensai con l’anima ferita, domani. Oggi no, Aurelien era vivo.
Aurelien era con noi.
Tremò, incrociando lo
sguardo ferito con il mio. “C’è dell’altro?!”
“Jacque ha avuto un
infarto. Martin è dovuto correre in ospedale.” Singhiozzò, scuotendo il capo.
“Non ha superato lo shock. Quando ha saputo che Aurelien era in fin di vita..
non ha retto il colpo.”
“Jacque è..” non
riuscivo nemmeno a pronunciarla quella parola, lei annuì sconfortata.
“Morto.” Sussurrò con
voce strozzata, “cosa sta succedendo Deesire?!” Cosa
stava succedendo? Perché lo chiedeva a me, supponeva che avessi tale risposta?
Erano poche le cose che sapevo con certezza; ero passata in fretta –e come un
tornado devastante- dall’essere una moglie in procinto di fuga a una moglie
redenta, Aurelien era tornato e mi chiedeva di restare e Benjamin il mio
adorabile figlio per una ragione a me sconosciuta, era stato cancellato dalla
mia memoria di madre in fase di tragedia. Ecco, questo era quello che sapevo al
momento, la morte di Jacque così improvvisa apriva porte sull’ignoto e
destabilizzava le poche certezze che mi tenevano con i piedi per terra; provai
una fitta di terrore al pensiero di occhi verde bottiglia tristi e sconsolati. “Qualsiasi
cosa stia succedendo, Aurelien non lo deve sapere. Non oggi.” Scacciai via gli
spauracchi dalle mie spalle e respirai a fondo, “ti prego Ines, sei sua madre.
Fatti coraggio.”
Asserì con il capo
asciugandosi gli occhi e si sistemò i capelli con mani svelte. La congedai,
guardandola entrare malferma sulle gambe nella stanza di suo figlio ed ebbi un
improvviso conato di vomito; Arnauld apparì alla mia vista risalendo per le
scale, con mano salda mi aiutò ad appoggiarmi al corrimano in ferro battuto.
“Dobbiamo fare quelle analisi Deesire.”
Sospirai, non potevo
più rimandare.
Tre giorni dopo nel
cimitero di Père-Lachaise, ci stringevamo tutti Bonnet e Chedjou per dare
l’ultimo saluto a quello che era stato il pilastro delle ormai ex aziende Chedjou; c’era aria di sconfitta fra noi, eppure nel vento
che mi scarmigliava e frustava percepivo una resistenza e una forza che non
avevo mai avuto, crescermi dentro. Non avrei permesso alle mia famiglia, la
vecchia e la nuova, di affondare. Mai. La casa era un via vai di gente
sconsolata, grigia e tenue come il cielo di Parigi; da quando i tedeschi erano
arrivati era quello il colore predominante, grigio tenue. L’umore -che non era già
dei migliori fra i concittadini causa invasione- era risollevato dai vecchi
racconti di Martin su suo padre e dagli amici di infanzia di Jacque, oggi
avvocati, notai ma anche marmisti, piastrellisti –pareva essere piuttosto
versatile nella scelta delle sue amicizie trovando questa caratteristica
squisitamente affine al nipote- spargendo tutto intorno una tranquillità che
non speravamo certo di trovare così presto. Jacque era stato un leone, un vero
dominatore, la sua vita era stata costellata di successi privati e personali
lasciando niente al caso e nulla di incompiuto. La sua morte, tragedia per
tutti noi, era esattamente ciò che lui rappresentava; un uomo che avrebbe dato
la vita per la sua famiglia e per l’impero dalla quale essa dipendeva. Per
ironia della sorte così era stato, ma Martin ci aveva convinto che se avesse
potuto, dall’al di là, avrebbe alzato un calice di champagne brindando alla
faccia dei nostri musi lunghi per la sua perdita, perdendosi in grosse risate.
“Deesire
fatti aiutare.” Maitre Gerald era stato così gentile
da aiutarmi con il buffet; erano giorni che lo vedevo gironzolare per la casa,
spesso chiudersi in camera con Aurelien a confabulare e ridacchiare. Era
l’unico che riusciva a strappargli un sorriso e benedii la sua presenza; il mio
liege era cupo, si sentiva responsabile dell’accaduto
e riportarlo in alto era un compito arduo e stancante. L’aspetto clinico della
sua situazione invece andava migliorando per grazia di Dio, ma il dottor
Bertrand non si lasciava andare a positivismi eccessivi. Era frustrante e allo
stesso tempo essenziale; avere una finestra aperta sulla realtà mi permetteva
di non vivere di sogni e godermi realmente
e pienamente mio marito. “Va a sederti, torno subito.” E nell’attimo in cui mi
sbottonai il colletto del vestito accingendomi a sedermi, suonò il campanello;
alzai gli occhi al cielo inveendo sotto le cupe risate di Gerald.
Mi fermai di colpo. Un
uomo in divisa e armato della Waffen-SS teneva alto
il cartellino identificativo guardandomi sardonico. “Madame Chedjou,
suppongo?!”
“Proprio io.” Guardai
ansiosa alla pistola e quello la sfiorò alzando le spalle.
“Sono venuto ad
interrogare monsieur Chedjou circa l’accaduto alle
fabbriche.”
“Mio marito ha bisogno
di riposare, sono certa che può eseguire il suo interrogatorio in un altro
momento.” Stavo per chiudere la porta, ma l’uomo intrufolò il piede fra me e lo
stipite impedendo che si chiudesse. “Ha un preciso ordine, generale Steiner?!”
Imprecai con voce stridula.
“Ordini delle SS madame.” Storpiò l’appellativo come ero
abituata ormai a subire, ma se non altro fino a quel momento si era sforzato di
parlare un francese decente. “Suo marito è al piano di sopra?!” Ripiegò il
mandato guardando intorno, dentro la casa. Annuii irritata, aprendo del tutto
la porta e facendogli strada.
“Una casa bellissima.”
Inspirò alle mie spalle, camminando con eccessiva lungaggine. “Non è sola.”
“Una veglia funebre.
Una cosa triste e noiosa. La prego di seguirmi.” Vidi l’ombra di mio padre
spuntare da dietro la parete del salone principale, gli occhi subito sospetti e
circoscritti; proseguii con andatura sicura, gradino dopo gradino, senza
esitazioni. Dovevo liberarmi del panzer il prima possibile.
“Il lutto è per suo
nonno, giusto? Condoglianze.”
Deglutii, “il nonno di
mio marito. Per di qua.” Indicai la porta e bussai; Aurelien mi rispose con un
fil di voce. “Amore l’ufficiale Steiner delle SS vuole interrogarti. Te la
senti di parlare?!”
L’uomo mi scavalcò,
arricciando il naso per l’odore forte di disinfettante. “Ho un mandato monsieur
Chedjou.”
Entrai spazientita e
richiusi la porta con teatralità; mi avvicinai al letto aiutando mio marito ad
ergersi con il busto, impilandogli il cuscino dietro la schiena. Mi ringraziò
mimando con le labbra, pregandomi con lo sguardo angosciato di andare via, ma
gli strinsi forte la mano scuotendo impercettibilmente il capo. “Ufficiale
Steiner la prego di attenersi alle buone maniere, come può vedere con i suoi
occhi mio marito necessita di tranquillità.”
“La prego di perdonare
le mie maniere rudi madame. Solo
qualche domanda veloce.” Tirò fuori un taccuino e la penna e guardò Aurelien
con i suoi occhi glaciali. “Bene monsieur mi dica, cosa è successo esattamente
il giorno del crollo?!”
“Ero alle aziende come
di consueto. I suoi preposti hanno fatto irruzione e portato via delle persone.
Poi c’è stato il caos, il fuoco e il crollo.” Aurelien per nulla colto in fallo
recitò la sua versione dei fatti come il compito di un bambino delle
elementari; il soldato alzò un sopracciglio perplesso.
“Dove era lei al
momento dell’incendio?!”
“Ala est.”
“L’incendio è scoppiato
nell’ala ovest.”
“Questo deve dirmelo
lei.”
“Ala ovest, settore
produzione.”
“Un bel danno a quanto
pare.”
“Già, il cuore
pulsante della macchina.” Si infilò la penna dietro all’orecchio ghignando. “Mi
chiedo come faccia a starsene qui calmo quando ha perso tutto.”
“Ufficiale Steiner..”
sentii montarmi l’adrenalina, Aurelien allargò gli occhi spaventato. “Mio
marito è mezzo morto per difendere i propri interessi e guardi come si è
ridotto! Sa cosa gliene importa adesso delle fottute aziende?!”
Alzò le spalle,
guardandoci in segno di sfida. “Peccato.. una bella proprietà sulla quale
mettere le mani.”
“I nostri avvocati
sono ben pagati per lavorare a questo. Questo e.. altro. Pensi che coincidenza
se si scoprisse che l’incendio ha natura.. polverosa. Piombo per l’esattezza.
Piombo dalle nostre macchine e piombo nei vostri fucili. Che bel dilemma, eh?!
Dove pensa che andrebbe a cadere l’ago della bilancia?”
“Sulla verità,
madame.”
“Oh sì sulla verità. E
scommetto che lei l’ha già appuntata sul suo bel blocchetto proprio pochi
minuti fa.” Tentò di replicare ma ero un fiume in piena con argini
fragilissimi, “se non ha altre domande da farci la prego di andarsene da casa
mia, ufficiale. S.U.B.I.T.O.”
“Ha sentito cosa le ha
appena detto mia figlia, ufficiale?!” Ahmed spalancò la porta esibendo una
carta bollata, “qui ci sono elencati i nostri diritti. Ha il dovere di andarsene
se non è gradito; possedete il territorio, non le persone.” Quello ci guardò
stupefatto, infilzò la penna nel taschino, il blocchetto nella giubba e a passi
pesanti e cadenzati raggiunse l’uscita. Lo segui svelta, con i battiti
accelerati per la prova di coraggio appena compiuta; si richiuse la porta alle
spalle in una nuvola di imprecazioni incomprensibili sparendo per il boulevard
solitario.
“Perché fai tutto
questo?!” Aurelien era tornato angosciato e depresso, la vista dell’ufficiale non
lo aveva minimamente scalfito. “Quello che dice il crucco è vero: abbiamo perso
tutto.”
“Abbiamo perso tutto è
vero, ma non la dignità.” Sistemai il cuscino dalla sua schiena alla testa,
aiutandolo a distendersi; aveva i muscoli contratti e tesi, dimagriva a vista
d’occhio. “Ti amo Aurelien, se può sembrarti un buon motivo.. lo faccio per
questo.” Mi girai, papà ci guardava imbarazzato, lo pregai di aiutarmi a
servire la cena e congedare gli ospiti; c’era in corso una veglia funebre di
sotto e lo avevo completamente dimenticato. Sentii dopo poco scemare il vocio e
tornare la tranquillità sulle nostre teste.
“Se mi fossi fermato
forse..”
“Piangeresti la gente
che invece hai salvato.” Gli strinsi le mani, sedendogli accanto. “Hai avuto
coraggio, nessuno al posto tuo avrebbe fatto altrettanto.”
“Non ho pensato alle
conseguenze. Sentivo le urla.. nella testa le sento ancora.”
“Aurelien, guardami.”
Gli girai il viso di prepotenza, fisso su di me. “Ero sul lastrico quando tuo
nonno ha accettato di unire le nostre famiglie in una sola e tu mi hai sposata
senza remore; oggi ti guardo e penso che sei esattamente come lui.. altruista,
intelligente, un uomo assennato. Ti conosco, avresti vissuto una vita
tormentandoti se non avessi agito in quel modo.”
“Lo so. Tu mi conosci
proprio bene.”
“Allora fammi essere
per te quello che tu sei per me; ho parlato con Ahmed, riscatteremo delle quote
dalla fusione con le aziende Fontaine, qualcosa
attingeremo dalla vendita del mio libro e dai biscotti e.. rinasceremo. Credo
ci vorrà del tempo, non mi intendo di finanza.. ma accidenti! Qualcosa tireremo
fuori!”
Sorrise, portando la
mano verso la mia guancia, “non finirai mai di stupirmi.”
“Oggi non faccio
eccezioni, difatti.”
Mi guardò accigliato,
lo abbracciai nascondendomi sul suo collo. “Aspetto un bambino Aurelien.”
****
“Papà! Papà!”
“Benjamin aspettaci,
non correre!”
A dispetto di tutto,
Aurelien rimase con noi.. sette anni dopo l’incidente alle fabbriche; tre anni
prima, un venticinque agosto di tumulti e ribellioni, gli alleati sbarcati in
Normandia arrivarono finalmente a Parigi, debellandoci dalla morsa dei
tedeschi. Accadde tutto molto velocemente, ci trovammo spauriti e in balia di
noi stessi, ma ebbri di vita e gioia.. e di voglia di ricominciare, costruire,
pulirci del fango piombato su di noi sotto forma di malattia mondiale; quasi
tre milioni di soldati francesi persero la vita per perorare la libertà e darci
nuova vita, cinquecentomila civili ebrei, sinti, rom, omosessuali.. una vera
catastrofe che macchiò per sempre la dignità dei francesi, tutti. Ma imparammo
che dal male comune insieme si può rinascere e fu così che rinascemmo, francesi
di Parigi e non e gettammo basi per un futuro allora tutto ancora da scrivere.
“Preso!” Aurelien
sollevò Ben in aria, mettendoselo a cavalcioni sulle spalle; il mio frugoletto
dagli occhi azzurri grandi come pozze, rise di gusto. “Lo sai dove siamo?!”
“Sì.” S’accucciò con
il mento sui folti capelli ramati del papà; rosso contro cenere.. un
bell’effetto emotivo per il mio cuore tumultuoso. “Qui è dove ci sono i mostri
con le braccia di ferro che costruiscono le cose!”
Aurelien mi lanciò un
occhiata divertita, “è questo che ti racconta la mamma?!”
“Mh-mh.
Posso vederli papà?!”
“Oh sì certo e potrai
lavorarci come faccio io! Un giorno questo sarà tuo.” Aurelien circoscrisse lo
spazio dinnanzi a lui con mano aperta; due edifici già costruiti sugli
scheletri dei precedenti ceduti al crollo e altri due che mano a mano stavano
prendendo forma, voluti dal suo progetto di ampliamento mirato alle tecniche di
costruzione e vendita del futuro. “Proprio come lo è stato del nonno e di mio
nonno prima di lui.”
“Ma posso fare anche
il pasticcione come la mamma?!”
“Si dice pasticcere
Benjamin!” Gli arruffai i capelli alzandomi sulle punte, poi guardai Aurelien
con misto di divertimento e rassegnazione. “Ne riparleremo fra qualche anno,
ok?!” Ben annuì scalpitando, il suo papà si chinò lasciando che il ragazzino lo
scavalcasse. “Non oltrepassare il cancello!” Ed era già schizzato via da noi.
“Wow!” Aurelien si
lasciò andare ad un sospiro, passandomi un braccio sulle spalle. “Un altro
indeciso Chedjou.” Ci guardammo profondamente,
consapevoli e taciti di quella verità, prima di essere catturati dall’urlo di
stupore di Ben verso il gancio meccanico della gru che alzava i blocchi di
cemento. “Mostri dalle braccia di ferro eh?!” Ci incamminammo sempre stretti,
la mia mano sulla sua avvinta al mio braccio. “Mio nonno si starà rivoltando
nella tomba..”
“Tuo nonno sarebbe
fiero, invece. Guarda cosa sei stato in grado di fare.”
“Già. Ci pensi?!
Trecento operai e un reparto di spedizione tutto nostro.” Si fermò salutando
con la mano gli operai chini sui calcinacci o sulle impalcature; tutti si
tolsero il cappello alla sua vista, squadrando poi me da capo a piedi. Mi
faceva sempre sorridere questa cosa, a ventotto anni ero una bella donna in
carriera, mamma e moglie devota, con il viso segnato da qualche sofferenza ma
negli anni della guerra ognuno di noi aveva qualche cicatrice scritta in volto.
La mia più grande
aveva il nome di Fabien.
Non era mai più
tornato dalla guerra, al suo posto un giovane soldato aveva bussato alla porta
in un pomeriggio afoso di fine settembre consegnandomi la sua placchetta
identificativa; sembrava avesse espresso il desiderio di farmela avere, se mai
gli fosse accaduto qualcosa. E qualcosa purtroppo successe; disperso in
Normandia durante gli ultimi disperati tentativi dei soldati tedeschi di
ripiegare, il suo corpo non era mai stato ritrovato. I morti senza nome, li
chiamavano. Quello che mi restava di lui era soltanto una placca, la foto di
lui e sua madre ripiegata nel portamonete e un atto notarile in cui mi lasciava
degli immobili come eredità. Anche Madeleine era sparita, la sua bottega porta
i loro nomi ed è stata trasformata nel laboratorio di biscotti che mi ha aiutato
a rialzare la famiglia; penso spesso a loro e quando lo faccio è come se una
parte di me perisse insieme a loro. Non so se era tutto già scritto in un piano
ben preciso del destino; Fabien mi aveva salvato -e
sebbene io credessi il contrario- io avevo salvato lui da se stesso. Voleva
cambiare il mondo, dare un futuro a suo figlio in un posto migliore. Non so se
ci è riuscito, il futuro è ancora in costruzione ma di certo Benjamin è stato un
bambino fortunato soprattutto grazie
a lui; alla maggiore età avrebbe ereditato le aziende Chedjou
o se le sue voglie da pasticcione fossero
cresciute avrebbe portato avanti quello che sua madre e suo padre avevano
cominciato nel caldo agosto dell’anno della sua venuta; la produzione di
biscotti presto divenuta una joint venture europea. Ne avrebbe avuto tutte le
potenzialità, dotato di un grande intuito e genio artistico. Era ed è tutto suo
padre, ovunque lo si guardasse.. ma il padre è chi ti cresce, ed è per questo
che quando lo vedevo dare ordini, organizzare con metodo la sua piccola vita,
togliersi il cibo di bocca per darlo ai barboni sui boulevard io ci vedevo
tanto anche di Aurelien. Era così e andava bene, avevo giurato che mai più
avrei fatto loro del male, ed è per questo che mi svegliavo ogni mattina con la
forza e la voglia di andare avanti, per scoprire un altro giorno insieme ai
miei uomini del cuore; vivevo per i loro sorrisi, per il loro amore e non chiedevo
di più. Avevo camminato per l’inferno, portavo le miei cicatrici ma c’era
sempre qualche altro successo da festeggiare.
“Pensi a lui, vero?!”
Aurelien mi sfiorò la guancia con la mano; prese un casco allacciandolo alla
testa, sorridendomi. “Lo amavamo tutti, non devi essere triste o vergognartene.”
“Grazie, davvero. E’
che quando sono così felice..”
“.. pensi a lui. Sì,
capita anche a me. Non posso che ringraziarlo, ovunque esso sia.”
Sentii gli occhi
pizzicarmi, Aurelien mi guardò con infinito amore, stringendomi forte la mano. “Si
è preso cura di te quando io non ero in grado di farlo e lo ha fatto anche
dopo.” Pensai velocemente al momento in cui gli avevo comunicato delle eredità
lasciate a me dal cugino come ultimo desiderio e sorrisi al ricordo della sua
estrema razionalità e calma come reazione. Scossi il capo, guardandolo con
gratitudine; ricambiò lo sguardo, ma stavolta intenso e fermo. “Figlio mio,
figlio suo.. io vi amo incondizionatamente Deesire.”
Gemetti, buttandogli
le braccia al collo. “E noi amiamo te.” Qualcuno dai piani alti fischiò,
strappandoci un sorriso. “Ma adesso è meglio che vai, i tuoi operai credono che
stiamo dando spettacolo.”
Annuì compito. “Faccio
un giro di ricognizione e vi porto in centro a prendere un gelato, promesso.”
Mi baciò delicatamente, per poi sparire all’interno dell’edificio ormai
completato, mano nella mano con Benjamin, il suo caschetto di protezione e il
sorriso del bambino che sta per entrare nel paese delle meraviglie. Sospirai
nuovamente, vinta d’amore.
Ero esattamente dove
dovevo essere. Dove volevo essere.
*
NDA:
Innanzitutto
perdonatemi la lunga assenza; ero in vacanza! Yeahh!
(Ma già in modalità
depressione per il rientro.) Nooo L
Ho cercato di unire le
idee e fatemi dire che non è stato per niente facile, visto come è sviluppato
il finale di questa storia nella mia testa; vi avevo lasciato con Deesire pronta a mollare tutto per Fabien,
ma il destino si sa, quando ci mette lo zampino crea situazioni che non ti aspetti
e in questo caso la nostra protagonista, ha dovuto far fronte ad una situazione
del tutto inaspettata. Niente lieto fine dunque per lei e Moreau.
Non odiatemi. E non
fatelo neanche per il salto temporale di anni ma credo che parlare
ulteriormente di Deesire/Aurelien fosse insano e che
tutto ciò riguardasse la loro vita negli anni della guerra fosse naturalmente
esaurito. Li ho lasciati pieni di speranze e in attesa di un figlio stavolta “tutto
Chedjou” e ve li ho fatti ritrovare dopo sette anni alle
prese della rinascita post-guerra. Perché? Perché per me questa storia non è
finita, o meglio non ho ancora concluso “Zenzero e Cannella” di tutti i suoi capitoli;
apparentemente può sembrare terminata, ma ho ancora qualcosa da raccontare. La
mia intenzione è di postare un altro capitolo; per chi volesse continuare a
seguirmi GRAZIE DI CUORE, per chi ne ha abbastanza GRAZIE DI CUORE UGUALMENTE,
siete stati tutti meravigliosi.
Mi dispiace tantissimo
avervi fatto aspettare e aver notato che qualcuno ha tolto la storia dalle seguite
ma ok arrivo a capire le diverse motivazioni, solo mi sarebbe piaciuto aver
letto i vostri pareri anche se negativi! Sono masochista lo so!
Per il resto mi auguro
di avervi allietato e di non aver annoiato nessuno.
A presto,
Lunadreamy.