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Autore: Hazza_Boo    07/07/2013    2 recensioni
ATTENZIONE: One Direction, Little Mix, Ed Sheeran e forse altri | LARRY e JERRIE, Slash e FemSlash | il rating in futuro diventerà arancione | presenza di droghe e alcol
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Nella Carlisle High School c'è un gruppo di ragazzi che non rientra in nessuna categoria. Nè bulli, nè ricconi nè i migliori della scuola o altro. Sono avvolti da un alone di mistero, nei loro occhi ci sono storie e segreti che nessuno mai saprà. Camminano per i corridoi come se fossero re e regine. Sono particolari, hanno fascino e si fanno rispettare. Ma che storie nascondono?Cosa c'è sotto le loro maschere?
La vita di Jade, appena trasferitasi da Londra a Carlisle, cresciuta tra le buone maniere della sua vecchia scuola solo femminile e nella mentalità ristretta dei genitori cristiani, e' stata ribaltata dal momento stesso in cui ha incontrato quegli otto ragazzi.
Nessuno è come appare, tienilo a mente.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1 – Arrivo

 
 
Jade.
 

La vegetazione lentamente si diramò, divisa a metà da una lunga strada. Accanto al finestrino frecciavano gli alberi del bosco. Sul parabrezza gocce di pioggia. La nebbia della mattina stava lentamente scemando. Non passavano molte auto. Sembrava una città fantasma.
Era tutto l’opposto di Londra, tranne il tempo. Quello rimaneva uguale. Lo stesso cielo grigiastro, la stessa nebbia, lo stesso freddo e perfino la stessa pioggia.
«Io e tua madre speriamo che tu ti possa trovare bene nella nuova scuola» mormorò Dan, tenendo le mani sul volante e lo sguardo fisso sulla strada.
«Non iniziare, papà» tagliai corto, nella maniera più gentile possibile.
«Te la caverai?» mi chiese, distogliendo brevemente gli occhi dalla strada per puntarli nei miei. Abbassai lo sguardo e annuii, poco convinta.
«Sì, me la caverò» risposi in un bisbiglio. Mi morsi il labbro inferiore e tornai a guardare fuori dal finestrino la pioggia e gli alberi del bosco, che lentamente si facevano più radi per lasciare spazio alle piccole abitazioni e vie abbellite di negozi.
Mi mostrai tranquilla, così come avevo fatto in quelle settimane. Non volli fare preoccupare inutilmente mio padre, Dan, quindi tenni la verità solo per me. La verità era che non me la sarei mai cavata. Avevo paura, tremavo e pensavo alle peggiori conseguenze.
Come potevo non essere preoccupata? Io che venivo da Londra, dall’istituto femminile più prestigioso di tutto il Paese, come potevo non essere intimorita di quel cambiamento?
Da Londra a Carlisle, piccola cittadina al confine con la Scozia, dispersa tra boschi e brughiera. Da un istituto importante, femminile, in cui mi avevano insegnato ad una essere una perfetta lady, ad una scuola mista, in cui non si indossava nemmeno la divisa.
Quando udii le ruote dell’auto di Dan scricchiolare sulla ghiaia realizzai dove mi trovavo. La macchina percorse il piccolo vialetto del mio nuovo istituto. Raggiunto il parcheggio trovò un posto libero e lì spense l’auto.
«Eccoci arrivati.» disse Dan, posando una mano sul mio ginocchio a mo’ di incoraggiamento. Lo guardai negli occhi, e vidi una nota di preoccupazione.
«Sto bene, Dan, davvero» provai a convincerlo, prendendo in mano il mio zaino. «Non mi spaventano le scuole»
Infatti mi spaventa chi ci sta dentro, pensai tra me e me. 
Sfoderai il mio migliore sorriso, e solo allora vidi il suo volto rilassarsi. Mi sorrise a sua volta, mi accarezzò una guancia e se ne approfittò per spostarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sei una brava ragazza, piccola. Buon primo giorno di scuola. Pregherò affinché vada tutto bene» mi disse con fare orgoglioso, anzi commosso.
Mi sforzai di sorridere, ma forse uscì solo una smorfia poco convinta.
«Devo andare. Buon lavoro. Ci vediamo più tardi»
Stavo già uscendo dall’auto quando mi salutò: «Va bene, ciao»
Chiusi la portiera alle mie spalle con un tonfo, misi lo zaino in spalla e mi diressi verso il cortile davanti alla scuola. Mi fermai e mi voltai per osservare l’auto costosa e nera di Dan uscire dal parcheggio, percorrere il vialetto e dirigersi fuori dal cancello dell’istituto. Quando si gettò in strada lo persi di vista.
Deglutii rumorosamente e fissai la mia nuova scuola. Era così diversa rispetto quella di Londra. Questa sembrava una vecchia casa di qualche Lord inglese dell’ottocento. Nel cortile non c’era molta gente. In fondo Carlisle era una cittadina davvero piccola, più anziani che giovani, racchiusa tra antiche mura.
Nessuno portava la divisa tranne me. Avevo deciso di indossare quella che portavo anche all’istituto femminile di Londra, perché mi sentivo più a mi agio e perché pensavo fosse giusto portarla. Mi preoccupai quando vidi parecchi ragazzi. Ne avevo visti davvero pochi, non avendo nemmeno dei parenti o fratelli maschi. Notai che parecchie ragazze ci scherzavano tranquillamente, mentre io al loro posto mi sarei tenuta più lontana possibile. Mi avevano insegnato che maschi e femmine erano come due razze a parte, completamente diverse. E mi avevano insegnato, i miei genitori, che non avrei dovuto perderci la verginità prima del matrimonio. Come si poteva ben immaginare, i miei genitori venivano da famiglie di religione cristiana. Loro avevano enfatizzato ancora di più le loro tradizioni. Preghiere prima di mangiare, Santa Messa ogni domenica, niente sesso prima del matrimonio e quant’altro.
Mi sedetti sul muretto che circondava il cortile. Osservai i miei nuovi compagni di scuola parlare tra loro in gruppetti, altri sulle scale a studiare, altri ad aspettare con la musica nelle orecchie. Nel frattempo il parcheggio si riempiva di auto, uno o due motorini e alcune bici. Dal cancello elegante e un po’ vecchiotto entravano altri ragazzi, zaini in spalla e indossando i loro vestiti, nemmeno uno che, come me, pensasse fosse giusto usare la divisa.
Nuove facce, nuovi posti, nuova gente, tutto nuovo. Tranne io. Avrei voluto affondare, avrei voluto sprofondare sotto il pavimento di mattonelle rosse e sporche sotto i miei piedi. Invece no. Rimasi lì, in mezzo a quella folla che andava ad aumentare e farsi più chiassosa man mano che si avvicinava l’ora di entrare a scuola. Indossai la mia migliore maschera per nascondere il mio sconforto, il dolore e l’ansia. Nessuno avrebbe visto nient’altro che una ragazza dal volto serio, impassibile e freddo. Osservai il cortile gremito di gente, gli schiamazzi, gli urli e le risate. Le pacche degli amici sulla schiena, i ragazzi che studiavano per la prima ora, le amiche che si complimentavano per lo smalto o la nuova maglietta, un professore che arrivava in ritardo, una macchina nel parcheggio.
Incominciò a soffiare un vento freddo che mi fece rabbrividire. Alzai gli occhi al cielo e vidi solo nuvole grigie e cariche d’acqua, pronte per un’altra bella oretta di pioggia. Quando riabbassai lo sguardo scorsi nel parcheggio, tra le auto e dei ragazzi, qualcosa di nuovo. Qualcosa che non poteva passare inosservato. Il vento portò delle ciocche di capelli davanti al volto, ridussi gli occhi in due fessure per vedere meglio.
Una moto scintillante, di un blu elettrico splendente, si era appena fermata nel parcheggio. Risuonò il rombo del suo motore che poi si spense. Mi accorsi che stavo fissando quell’entrata con la bocca spalancata e gli occhi pieni di stupore. Tra tutti quegli scooter ammaccati, tra tutte quelle piccole auto tipiche di campagna, poco lussuose insomma, quella moto era di certo qualcosa di unico e sorprendente. Ma, guardandomi intorno per vedere se qualcun altro la pensava come me, mi accorsi che tutti non ci facevano caso, come se ci fossero abituati. Che mi stessi sognando tutto? Ero sicura al cento per cento che nel parcheggio della mia nuova scuola ci fosse una Harley Davidson blu elettrico, con a cavallo un ragazzo dalla giacca di pelle ed il viso da modello. E nessuno lo notava. A volte qualche ragazza si voltava per dare un’occhiata al ragazzo in sella alla moto, ma lui non le guardava. All’improvviso dall’altra parte del parcheggio lo raggiunse una ragazza correndo. I suoi capelli erano di un colore assurdo, un misto tra viola e rosa, con alcuni ciuffi più di un colore e alcuni riflessi più dell’altro. Per non parlare del suo bizzarro modo di vestire. Il ragazzo scese dalla moto, spalancò le braccia sorridendo allegro ed un istante dopo queste si avvolsero intorno ai fianchi della ragazza, poi la sollevò da terra e fece una giravolta. I capelli colorati di lei ondeggiarono all’aria. Poi lui la rimise a terra, e un’altra ragazza, dai capelli blu scuro, la raggiunse e le scompigliò la folta chioma viola, ridacchiando felice.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo, scuotendo la testa per scacciare quelle immagini dalla testa. Non era educazione fissare così intensamente degli sconosciuti. Mi rimproverai per essermi dimenticata le buone maniere e di aver messo da parte, anche solo per un istante, la brava ragazza che c’era in me, quella che mi avevano aiutato a costruire all’istituto femminile di Londra. Però, certo, devo ammettere che quelle  nuove persone erano davvero interessanti. I capelli colorati delle ragazze erano assurdi, i loro modi di vestire un po’ tetri ancora più bizzarri. Qualcosa in loro mi suscitava interesse e fascino. Mi spingevano ad alzare lo sguardo e continuare a fissarli, dimenticandomi le buone maniere. Ma, per fortuna, avevo abbastanza forza di volontà per ignorarli e concentrarmi su ciò che mi sarebbe aspettato quel giorno.
«Devi essere nuova»
Una voce alle mie spalle mi fece trasalire sul muretto e balzai giù. Con il cuore che pompava sangue velocemente e spavento sotto il petto, mi voltai di scatto.
Fissai dalla testa ai piedi la figura che mi trovai di fronte, con fare preoccupato e timore. Era una ragazza, dal viso serio e freddo, le braccia conserte, il peso su un fianco. Le gambe snelle e le cosce muscolose erano fasciate da jeans aderenti. La pelle era mulatta, gli occhi nocciola e una massa di riccioli le ricadeva sulle spalle.
«Ehm, sì» sussurrai con il fiato corto.
La ragazza mi squadrò con fare diffidente. Intuii che non le piacevo, oppure era abituata a comportarsi da apatica un po’ con tutti. «Perché?» mi azzardai a chiedere, respirando a fatica. Ordinai a me stessa di mantenere la calma. Indossai una maschera tranquilla e seria, nascondendo al di sotto di essa la mia preoccupazione e la mia innata paura per ciò o chi non conoscevo.
La ragazza fece un passo avanti.
Troppo vicina. Fu la prima cosa che pensai quando a separarci era meno di un metro di distanza.
«Ho visto come li stavi guardando.»
Sbattei le palpebre, confusa. La guardai come se non avessi udito una sola parola di ciò che aveva detto. Allora la ragazza di fronte a me spostò lo sguardo in un punto alle mie spalle. Volsi l’attenzione dietro me. In lontananza, nel parcheggio, vicino alla Harley Davidson, si trovavano le due ragazze dai capelli strani di prima, il ragazzo dalla pelle leggermente scura che era sceso dalla moto e… altra gente. Ora a parlare e scherzare con loro c’era anche un ragazzo dal viso da cucciolo, i capelli chiari e gli occhi scuri; un altro dai capelli biondo tinti; uno con un ammasso di boccoli castani e gli occhi verdi, accanto ad un altro dal ciuffo sulla fronte, statura minuta. Qualcosa in quest’ultimo mi ricordava una versione moderna di Peter Pan, forse per i suoi modi di fare vivaci e, oserei dire, quasi infantili.
«Chi sono?»
Quella domanda mi uscì dalle labbra senza che nemmeno avessi intenzione di chiederlo. Tornai a guardare la ragazza riccia di fronte a me. Il suo viso si era fatto più freddo ed impassibile di prima, i muscoli irrigiditi e gli occhi seri.
«Nessuno lo sa.» rispose. La sua voce sembrava soffice, eppure il modo in cui parlò era duro e severo. Non distolse mai un secondo gli occhi scuri dal gruppetto nel parcheggio, alle mie spalle. «Però è sicuro che si fanno rispettare. »
«Sono come dei… bulli?» domandai perplessa. La mia domanda era seria, ero davvero preoccupata! Ma la ragazza spostò gli occhi freddi su di me, all’improvviso sembrarono riscaldarsi, tornando a brillare. Scoppiò in una fragorosa risata, lasciandomi perplessa e sì, anche offesa.
«Ah, ma no! Sono solo un po’ misteriosi e strani» farfugliò ancora ridacchiando. Poi mi porse la mano e le sue labbra sottili si inarcarono in un sorriso. «Piacere di conoscerti. Sono Danielle»
Le strinsi la mano che mi porgeva, sforzando un sorriso. «Jade.» mormorai sorpresa di sentire la sua stretta così forte. «Jade Thirlwall»
«Cosa stavi dicendo prima?» domandai curiosa di sapere di quello strano gruppo alle mie spalle.
«Ho visto che li guardavi come se fossero degli dei che camminano tra gli uomini»
«A te non fanno questo effetto?» altra domanda per cui mi sentii patetica.
Danielle lanciò uno sguardo alle mie spalle, non ebbe nemmeno bisogno di pensarci che rispose: «No, non più.» fece una pausa, poi mi guardò in volto. «Sai, quando arrivarono in questa scuola ed iniziarono a fare gruppo tutti si stupirono del loro legame. Non c’è bisogno che siano bulli, ricconi o i più bravi per farsi rispettare e ammirare. E’ proprio perché non rientrano in nessun gruppo, in nessuna categoria, perché sono così strani dalla norma, che tutti li guardano come li guardavi tu poco fa. »
Mi voltai appena per guardarli un’ultima volta. Fissai la ragazza dai capelli viola. C’era qualcosa in lei, nel suo sorriso radioso, nel suo viso coperto dal chili di trucco, che, chissà come mai, mi attraeva molto più di quanto facessero gli altri.
«Magari,» bisbigliai fissando incantata la ragazza dai capelli viola scherzare e ridere con il ragazzo dal ciuffo castano e gli occhi celesti. «sono semplicemente se stessi»
«Può darsi.» affermò Danielle, con una scrollata di spalle. Teneva le mani nelle tasche dei jeans ora, il suo viso era più rilassato. Poi, dietro di lei, vidi avvicinarsi altri due ragazzi seguiti da una ragazza.
Sembrò che Danielle li avesse uditi, nonostante ci fosse molto caos nel cortile. Si voltò di scatto e per poco non si scontrò con il ragazzo dai capelli rossi, parecchio simile alla ragazza che li raggiungeva correndo con il fiatone.
«Oh, ciao, rosso» esclamò Danielle, spettinando i capelli arancioni del ragazzo con gli occhi chiari. L’altro, dai capelli corti e neri, il viso simpatico ed un largo sorriso in volto, si accorse della mia presenza ed i suoi occhi azzurri si illuminarono. La ragazza dai capelli rossi raggiunse Danielle e l’abbracciò.
«Con chi parlavi prima?» chiese la rossa, sciogliendo l’abbraccio.
All’improvviso mi ritrovai quattro paia d’occhi fissarmi, tutti curiosi tranne quelli di Danielle, pacati. Mi si avvicinò, prendendomi per il polso.
«Lei è una nuova.»
Guardai i tre ragazzi davanti a me con la gola secca ed il cuore a mille. Cercai le parole da dire ma il mio animo timido mi tolse il coraggio di presentarmi.
Allora lo fece Danielle al posto mio.
«Si chiama Jade.»
La ragazza rossa sorrise allegra. «Wow, forte. Io sono Samantha Sheeran, puoi chiamarmi Sammy o Sam, piccola!» esclamò all’improvviso, parlando veloce come se avesse bevuto sette tazze di caffè. Annuii intimorita, porgendole la mano ma lei la rifiutò, preferendomi abbracciare.
Decisamente troppo vicina. 
Rossa come i capelli di Samantha per l’imbarazzo le battei una mano sulla schiena, cercai di sorridere e di mantenere la calma. Mai e poi mai avevo vissuto una situazione del genere. A Londra ci si salutava con baci sulle guance oppure stringendosi la mano. Vigeva l’educazione e gli spazi personali. Era tutto così diverso lì, ero smarrita. 
«Sono Keith» si presentò il ragazzo moro, salutandomi con un cenno della mano. Il suo volto era dolce, allegro e simpatico. Sembrava una di quelle persone tranquille che mai si arrabbiano. Avvolgendo le spalle del ragazzo rosso con un braccio disse: «Lui è Edward »
«Ciao, Jade.» quando Edward mi salutò la somiglianza tra lui e Sam si fece ancora più forte. «Preferisco Ed»
Annuii timida. Mi guardò negli occhi, e qualcosa in quel chiarore mi mise sicurezza. Il cuore sotto il petto riprese i suoi battiti normali, il mio respiro tornò regolare. Mi rilassai ed incantata lasciai che mi guardasse curioso e timido.
«Siamo fratelli» si intromise Sam tra il nostro gioco di sguardi.
Guardai Samantha e Ed. La loro somiglianza era finalmente spiegata dal fatto che erano fratelli. Samantha mi chiese che materia avevo la prima ora ed io, vergognandomi per la mia ignoranza, le risposi che non lo sapevo. Che era il mio primo giorno in quella scuola, non conoscevo nessuno, men che meno l’istituto.
Risuonò nel cortile e nella scuola il suono della campanella. Iniziarono a tremarmi le gambe, mi guardai intorno spaesata e afferrai la manica della maglia di Samantha, sperando che non ci facesse molto caso.
«Devi andare in segreteria.» disse Keith, alzando la voce per farsi udire sopra tutto quel baccano. I portoni dell’istituto si aprirono, la folla di ragazzi si fiondò dentro, spingendo e facendosi largo, preparandosi ad un lungo giorno di lavoro. Io, i fratelli Sheeran, Keith e Danielle rimanemmo in disparte, aspettando che la folla scemasse per poi entrare. Nell’istituto femminile si entrava composti a scuola, senza spingersi e senza fare rumore. C’erano delle severe regole. Forse c’erano anche lì, solo che nessuno le rispettava.
«Senti, piccola, » mi disse all’orecchio Samantha. Arricciai il naso sia per la troppa vicinanza sia per il “piccola” alquanto fastidioso. «vai in segreteria, si trova all’ingresso. Se non ci vediamo in qualche classe, allora durante la pausa pranzo, a mensa, siediti in un tavolo vuoto e lascia dei posti per noi»
Samantha mi guardò negli occhi come per chiedermi “ci siamo intese?”. Ed io feci in tempo solo per annuire che poi si addentrò tra la folla di studenti e la persi di vista.
Danielle mi salutò freddamente, tornando la ragazza di qualche minuto prima, sulle sue, severa, impassibile. Keith mi rivolse un sorriso e un: «A dopo!» prima di seguire Danielle tra l’ammasso di studenti ed entrare a scuola.
Una mano si posò sulla mia spalla, trasalii e mi morsi un labbro per resistere alla tentazione di cacciare un grido.
«E’ un piacere conoscerti.»
Voltai la testa nel momento stesso in cui Ed mi affiancò. Tolse la mano dalla mia spalla, forse aveva capito che mi dava fastidio il contatto fisco. Però mi sorrise tranquillamente. Con lo zaino in spalla, passandosi una mano tra i capelli e lo sguardo serio entrò a scuola.
Ormai la folla si era ridotta a qualche ragazzo un po’ ritardatario. L’ingresso si stava lentamente svuotando, gli studenti si riversarono sulle scale e lentamente nelle proprie aule. Io, invece, rimasi per qualche istante paralizzata davanti al portone ormai vuoto, a fissare l’insegna “Carlisle High School” con un nodo in gola, le mani tremanti e la fronte sudata.
Feci un passo ed entrai. Un passo nella nuova scuola. Nella mia nuova vita. Mi guardai intorno, alzai lo sguardo, fissai il soffitto alto, i decori e gli elementi antichi. Ammirai quella particolarità, quella strana raffinatezza. Sembrava davvero di quelle case dei Lord inglesi dell’ottocento. Con l’aggiunta di classi, banchi e alcuni elementi moderni. 
Trovai, dietro il bancone della segreteria, una donna con gli occhiali a mezza luna sul naso ed i capelli radunati in uno chignon scompigliato. Mentre mi dirigevo verso lei piena di paura ed imbarazzo, udii alle mie spalle delle risate e delle voci. Corrugai la fronte e le ignorai.
«Buongiorno» dissi alla segretaria, che stava firmando qualcosa su un foglio. Alzò gli occhi verso di me, scrutandomi da dietro le lenti degli occhiali. Non sembrava simpatica, per niente.
«Posso esserti utile in qualcosa?» chiese seccata.
Mi sforzai di nascondere il mio disagio nei confronti del suo sguardo e dei suoi modi di fare distaccati e infastiditi.
«Sì, ehm, devo…» la mia voce venne sopraffatta dal rumore di altre risate e voci. Quella volta anche la segretaria lanciò un’occhiataccia alle mie spalle. Infastidita strinsi pugni sul bancone e mi voltai per vedere chi facesse così tanto casino nel silenzio dell’ingresso.
Poi li vidi.
Il gruppo di ragazzi che avevo visto nel cortile poco prima. Ridevano e parlavano tra di loro. Erano strani dal loro modo di vestire fino ai loro modi di fare. Avevano un non so che di misterioso e attraente. Erano maestosi. Riconobbi la ragazza con i capelli viola. Stava sorridendo, batteva il cinque al ragazzo con i capelli ricci, si divertiva insieme agli altri.
Udii la voce rauca della segretaria mormorare tra sé qualcosa come: «Fanno sempre tutto questo casino». Mi accigliai, pensando che forse quei ragazzi erano abituati a non rispettare le regole e fare confusione. Li osservai mentre salivano le scale in gruppo. Davanti a tutti c’era il ragazzo dal ciuffo castano e gli occhi celesti, teneva le mani nelle tasche della giacca di pelle, testa alta e petto in fuori. Il modo di camminare e la sua bellezza erano caratteristiche di un modello. Accanto a lui il ragazzo riccio, che gli cingeva le spalle con un braccio e cercava di farlo ridere con qualche battuta. Dietro di lui il ragazzo biondo tinto faceva i gradini due a due, saltando e ridacchiando, comportamento tipicamente infantile. Una ragazza dai capelli rosso fuoco lo teneva per mano. Spesso si muovevano contemporaneamente, la loro sincronia era perfetta. Poi due ragazzi, uno dei due lo riconobbi subito. Era il ragazzo della Harley Davidson, capelli a spazzola, neri come la notte, lo sguardo serio. Quello che gli stava accanto aveva i capelli più chiari, il viso più dolce. Sembrava un po’ il suo opposto. In mezzo ai due si trovava la ragazza dai capelli blu scuro.
Mi accorsi che mancava qualcuno. Infatti, lentamente, ancora nell’ingresso era rimasta la ragazza dai capelli viola. Si era chinata per terra per sistemare qualcosa nella borsa a tracolla. Quando ebbe finito per raggiungere sulle scale gli altri velocizzò il passo.
«Ehi, tu, di che hai bisogno?»
Sussultai nel sentire la voce della segretaria. Distolsi lo sguardo dalla ragazza viola, presi un profondo respiro e mi passai una mano tra i capelli, come se potessi scacciare via quelle immagini.
«Mi sono appena iscritta. Avrei bisogno di…»
«Come ti chiami?»
Sperai che il mio primo giorno in quella nuova scuola fosse facile come quella domanda.
«Mi chiamo Jade. Jade Thirlwall»
 
 
Quando entrai in classe tutti gli alunni puntarono i loro occhi curiosi su di me. Ci avevo messo quindici minuti, se non di più, per trovare l’aula di letteratura. Mi ero persa per i tanti corridoi, ero entrata nella classe sbagliata e mi ero beccata il rimprovero di un inserviente che mi aveva gridato di non vagabondare e di andare in classe immediatamente. Era solo la prima ora ed io volevo già andare a casa, buttarmi sotto le coperte e non uscirne più. Raggiunta la classe mi ero fermata sulla porta chiusa, avevo preso un profondo respiro, mi ero sistemata i capelli e avevo sfoderato il mio migliore sorriso. Avevo bussato, e poco dopo una voce femminile mi aveva dato il permesso di entrare.
Una giovane professoressa con gli occhiali sulla punta del naso ed i capelli scuri con meches bionde aveva abbandonato il suo lavoro alla lavagna per girarmi attorno e scrutarmi curiosa.
«Tu sei…?»
«Thirlwall. Mi sono appena iscritta e…»
La professoressa spalancò gli occhi, e batté le mani felice. «Bene! Una nuova arrivata!»
Da quell’esatto momento capii che era una di quelle persone che amano parlare e sono sempre allegre, se si arrabbiano riescono a perdonare e tornare tranquille in poco tempo.
Mi prese l’avambraccio portandomi vicino alla cattedra, sotto gli occhi di tutta la classe. Desiderai poter ritirarmi indietro e scappare. Invece deglutii il groppo in gola e sorrisi. Mi mostrai più tranquilla possibile, annullai le mie preoccupazioni. Mi distaccai da ogni emozione.
«Questa è la tua nuova classe di letteratura.» indicò spalancando un braccio. Guardai volti nuovi che mi scrutavano con curiosità, osservandomi dalla testa ai piedi, esaminandomi. Sembravo un agnellino gettato in pasto ad un branco di lupi. Tenni la paura più lontana possibile da me.
«Mi chiamo Vanessa McLean, insegno letteratura inglese»
Poi diede il via alla sua parlantina. Dopo qualche istante non riuscii più a seguirla. Vedevo le sue labbra muoversi, sottoli e coperte di rossetto e lucidalabbra, sentivo le sue parole sotto forma di ronzio. I suoi modi di fare frenetici e agitati mi misero ansia.
«Siamo arrivati già a Shakespeare e alla fine della scuola ci sarà una recita. Non so, siamo già a metà anno… spero che tu ti possa mettere a pari con gli altri. Insomma, se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. »
Le mie gambe si mossero da sole, ringraziai cortesemente McLean come se l’avessi imparato a memoria. Lasciai scivolare giù dalla spalla lo zaino, posandolo a terra. Mi sedetti ad un banco vuoto in fondo all’aula, e probabilmente McLean mi stava ancora parlando.
Mi guardai intorno e sentii gli occhi pizzicarmi. Tutti mi guardavano. E chissà cosa stavano pensando su di me. Alcune ragazze mi fissavano la divisa, altri si sussurravano qualcosa all’orecchio lanciandomi occhiate veloci. Sembrava stessero ridendo di me. E forse era davvero così.
Mantenni la calma, strinsi i pugni e tenni lo sguardo fisso alla lavagna, ignorando tutti quegli occhi fissarmi. Nonostante tutto avrei voluto seppellirmi sotto terra.
Ora dopo ora, classe dopo classe, sopportai la stessa situazione. Entravo, mi presentavo e mi sedevo ad un banco, provando a seguire la lezione mentre tutti, di nascosto, si voltavano per osservarmi.
Il tempo passò strisciando lentamente. L’atmosfera nei corridoi e nella classe quando passavo si faceva piena di tensione, pesante. Non riuscivo a guardare nessuno negli occhi. Al suono della campanella per il pranzo scattai in piedi dalla sedia del banco come se qualcuno mi avesse tirato un calcio. Misi le mie cose nello zaino ed uscii dalla classe di matematica più veloce di tutti gli altri. E percepii i loro sguardi sulla mia schiena, sentii il peso delle loro occhiate divertite e curiose.
Percorsi il corridoio, cercando di orientarmi ma seguendo la folla per paura di perdermi. Anche lì tutti parevano guardarmi.
Alla scuola di Londra ero conosciuta in tutto l’istituto per essere l’alunna modello. Ero la migliore, avevo vinto concorsi di bellezza, test difficili di matematica, avevo recitato nelle recite scolastiche. E quando passavo per i corridoi le ragazze mi sorridevano felici, mi salutavano e desideravano poter essere come me. Ovvio, c’era un gruppo di ragazze che amava spettegolare alle mie spalle. Era un’abitudine, lo facevano con tutte. Le avevo sempre ignorate perché c’erano sempre state molte altre ragazze pronte a difendermi. Ero la migliore.
E lì, a Carlisle, in quella nuova scuola, la mia reputazione stava crollando. Non c’era più niente intorno a me e in me che assomigliava a quello di Londra.
Scesi le scale con una orrenda sensazione sotto il petto. Provai ad ignorarla, la allontanai. Ma in fondo sapevo che rimaneva sempre lì.
Entrai nella grande mensa e venni travolta dal rumore di passi, voci, schiamazzi, persone e caos. C’erano parecchi tavoli larghi ma purtroppo tutti erano quasi presi. In un angolo si trovava il banchetto del self-service, accanto qualche bidella controllava la situazione o serviva. 
Notai due tavoli vuoti in fondo alla stanza, in disparte da tutti gli altri, accanto alle grandi vetrate da cui si vedeva il prato della scuola. Prima che qualcuno potesse prendere il tavolo più piccolo che avevo adocchiato mi ci avventai. Buttai lo zaino per terra e mi sedetti sulla panca. Se qualcuno si fosse seduto avrei detto che erano tutti posti presi. Però sperai che Samantha e i suoi amici non ci mettessero molto a raggiungermi. E se…? E se mi avessero ingannato e non si sarebbero seduti vicino a me? E se non volevano fare la mia conoscenza e mi prendevano in giro come tutti gli altri miei nuovi compagni?
Con quei pensieri negativi in testa iniziai a guardarmi intorno nella mensa, cercando qualcosa di famigliare come delle chiome rosse o dei boccoli neri. Non trovai nulla. Rimasi in ascolto dal chiasso degli studenti, fissando fuori dalla vetrate la pioggia fine che stava lentamente scendendo.
Nella scuola di Londra non avevo mai avuto amiche. Sì, è vero, c’era un gruppo di ragazze con cui avevo fatto una recita e altre con cui avevo collaborato a volte. Ma amiche a cui confidare segreti, amiche come si legge nei libri mai. La mia vita era passata tra la solitudine, la mancanza di vero affetto, e l’educazione severa della scuola improntata sulle tradizioni cristiane dei miei genitori.
Ed io non mi ero mai ribellata. Non avevo mai provato emozioni diverse dalla paura e l’imbarazzo.
Ero fredda, ero vuota.
Qualcosa mi distrasse dai miei pensieri. Riflesso nel vetro della grande vetrata dalla mensa vidi dei capelli rosso fuoco. Mi voltai e rimasi incantata. Nella mensa stava facendo la sua entrata il gruppo di quella mattina. 
 

Nel freddo vento della notte risuona la tua voce. E’ un eco lontano, ma ancora intatto e perfetto come l’ultima volta che l’ho sentita. Che notte fantastica… le stelle in cielo brillano come diamanti, la luna è alta e tondeggiante, si riescono a distinguere alcuni suoi grandi crateri. 
Ti sto pensando sotto questa luna che ancora custodisce i nostri segreti. E tu? Mi stai pensando anche tu, Perrie?

  
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