Questa storia è uno spin-off della long fiction "Flyin'High - Il volo del Canadair", che però può essere letta indipendentemente dal racconto principale.
Lilian è una ragazza conosciuta da Ace mentre viaggiava in cerca di Barbanera che quando ha saputo che l'amico era finito ad Impel Down non rimane con le mani in mano e rispolvera antichi rituali per arrivare -in un modo o nell'altro- da lui. In questo universo alternativo non si sa se Lilian sia effettivamente riuscita nel suo intento di liberarlo, noi speriamo di sì. Del resto, nella trama principale non si fa mai nemmeno accenno a questi antichi riti di sua conoscenza. Chiedo scusa ai lettori per eventuali imprecisioni, o se nel descrivere Impel Down mi sono presa qualche licenza poetica, come la sparizione (o la sordità?) sistematica di tutti i secondini. E adesso vi lascio a...
Ace! Ace, mi senti?
Lilian non
l’aveva detto a nessuno che il suo potere andava oltre la semplice difesa
dall’Haki. Niente Frutti del Diavolo. Semplice collegamento mentale, rituali
antichi di millenni, improvvisazione, canzoni nell’aria, formule scritte su
cartigli arrotolati e tenuti fra le dita. Il suo corpo non sarebbe riuscito ad
entrare in quella squallida prigione o ad uscirne vivo, ma una sua proiezione,
una sua immagine, uno spirito tremolante e sfocato, voleva far arrivare
qualcosa di sé in quel luogo angusto, qualcosa che dicesse al ragazzo di non
preoccuparsi, che lei sarebbe arrivata in qualche modo, che gli era grata di
averla fatta scappare ma che lei avrebbe tentato disperatamente di tirarlo
fuori da quella orribile situazione.
Ace! Dove sei, Ace?
In ginocchio
in una radura in piena notte, con la falce di luna calante dritta davanti a
lei, le baciava i capelli umidi e gli occhi chiusi dalle ciglia nere, la lunga
gonna sventolava come una bandiera al centro del cerchio disegnato sulla nuda
terra. Cercava un collegamento, l’alito di vento giusto che portasse il suo
pensiero da quell’isola selvaggia e deserta a quella prigione affollata e
torbida. Sua nonna. Sua nonna, anni e anni prima le aveva insegnato quegli
antichi rituali, ma lei era una davvero una sensitiva, una di quelle donne che
sollevano i chicchi di grano col pensiero e ritrovano i bambini nei pozzi.
Anche la nonna di sua nonna doveva avere un dono simile, oltre un secolo prima,
ma lei riusciva persino a comunicare con i morti. Ogni generazione il potere
sfumava. Quello di Lilian Rea non era che una briciola di quello dell’ava.
Ma non le
importava. Era difficile, la distanza fisica da colmare era troppa, però lei
era testarda.
-Ehi! Ehi,
ragazzo! Ace!- Jinbe, in quella cella dove il sole e la luna si fondevano in
unico giorno tetro e senza fine, era l’unico sveglio. Inizialmente aveva
creduto che fosse un’allucinazione, un frutto della sua mente ormai stanca, le
prime avvisaglie di un cedimento, ma poi notò che dall’altra parte del
corridoio altri carcerati stavano puntando proprio da quella parte, incuriositi
da un avvenimento che li scuoteva dal torpore di quella giornata senza ore.
Era una sorta
di luce, che però non illuminava, un riflesso, come un’ombra di quando si
rimane sulla spiaggia al mattino presto però al contrario: non nera ma bianca,
non solo una sagoma ma dei lineamenti precisi.
-Meno male,
non la vedo solo io.- ghignò il prigioniero dall’altra parte del corridoio,
notando lo sguardo di Jinbe che si guardava attorno per capire se vedesse solo
lui quello strano fenomeno.
Dove sono!? Non posso aver sbagliato strada!
Vedo solo tanto nero, sembra di scendere in una caverna, però ci sono
persone attorno a me. Le sento. Mi guardano con attenzione. Concentrati,
trattieni il fiato come fai sott’acqua: sbarre, catene, bastonate. Sangue che
scende a rivi, sudore, febbre.
Dopo alcuni
minuti in cui non si capiva cosa fosse, ridotta com’era a fasci bianchi
tremolanti, ora si vedeva chiaramente che si trattava di una donna dall’aria
smarrita che cercava disperatamente qualcosa. Muoveva la bocca portandosi lì le
mani a imbuto, come in una ricerca disperata, ma non produceva alcun suono.
Ogni tanto spariva per alcuni secondi, ma poi ricompariva subito, come
l’immagine di una televisione in bianco e nero disturbata da un temporale. I
suoi piedi scalzi non poggiavano per terra, i capelli ondeggiavano come se
fosse sott’acqua, la lunga gonna bianca si attorcigliava attorno alle sue
gambe, ora scoprendole, ora nascondendole. Le braccia erano lunghe e le muoveva
come se nuotasse nell’aria, il petto era coperto da una fascia bianca. Ogni
tanto prendeva dei lunghi sospiri con la bocca aperta, come se si trovasse in
immersione. Dopo alcuni minuti riuscirono ad intendere nitidamente la sua voce.
-Ace!
Svegliati!- ormai Jinbe e Crocodile avevano assodato di non essere pazzi, ma l’uomo-pesce
doveva svegliare quel testone del suo compagno di prigionia che si stava
perdendo quella figura che si materializzava a fatica proprio davanti a lui e
sembrava non poterli vedere, ma che chiamava distintamente il suo nome.
Ace! Ace, dove sei? Lo so, ne sono sicura, questa è una prigione! Non ce
ne sono poi così tante, ma dammi una mano anche tu! Dimmi che non sto gridando
alla luna come una pazza per nulla, dimmi che questa notte mi risponderai!
Lo spettro
cominciava a perdere speranze, quindi Jinbe chiamava a gran voce
quell’addormentato, sperando che i secondini non sentissero. Ma quali che
fossero le conseguenze, Ace doveva assolutamente vedere quella donna che lo
chiamava, chiunque fosse e qualsiasi cosa volesse.
-Che diavolo
c’è, Jinbe?- biascicò il ragazzo.
-Davanti a
te!- rispose l’uomo-pesce. Nell’attimo esatto in cui Ace aveva riaperto gli
occhi, Jinbe aveva visto la ragazza portarsi le mani sulla bocca e saltare
all’indietro dall’emozione, spaventata e angosciata.
Ace! Che diavolo ti hanno fatto!? All’improvviso, tra tutte quelle
presenze, in quel maledetto pozzo nero in cui mi sento sprofondare, appare lui.
Non mi aspettavo di vederlo comparire dal nulla così violentemente, pensavo
emergesse dalle tenebre come avevano fatto le sensazioni che mi trasmetteva la
prigione sotterranea, o gli altri prigionieri attorno a lui che mi avevano
percepita.
-Ace…- lo chiamo prendendo
coraggio e avvicinandomi.
-Che c’è, Jinbe?-
domandò il ragazzo, stanco.
-Non… non la vedi?
-Ma cosa?-
fece spaesato Ace aggrottando le sopracciglia. Guardò fisso davanti a sé, c’era
Crocodile che guardava la scena con un interesse mai visto da parte sua. Quei
due gli stavano facendo uno scherzo? Però in quella cella c’era effettivamente
qualcosa di nuovo, un odore, una sensazione, una presenza… c’era odore di mare,
di erba, di disordine e un’eco lontana…
Perché non mi vedi, stupido testardo!? Sono qui, sono vicino a te, sto
accarezzando il tuo volto stanco e sporco di sangue, ma dove guardi!? Sono qua
davanti! Dove mi cerchi?
Mi ero preparata a qualsiasi spettacolo che mi si sarebbe parato davanti,
lo so che una prigione è il luogo peggiore dove si possa finire, che c’è chi
non ne esce vivo per il trattamento riservato ai galeotti, che ci sono torture
che non si possono nemmeno immaginare tanta il loro sadismo.
Ace è davanti a me ma non ci posso fare niente. Non credevo che sarebbe
stato così crudele, per me, vederlo e non poter demolire la sua cella con
qualcosa, un piccone, una pala, anche a testate avrei preso quel muro, pur di
staccarlo da quell’agonia.
Mai e poi mai avrei voluto vederlo in quello stato, seduto all’indiana e
con le braccia legate con le manette di algamatolite “ad angelo”, in alto,
nella posizione più orribile e dolorosa, con il capo chino, i capelli arruffati
e sporchi di polvere e sangue, il petto martoriato da ferite vecchie e nuove, sento
la mia immagine tremare, qualcosa nel mio cuore e nel mio stomaco che va in
frantumi e grida da qualche parte.
Mi avvicino, le mie dita inconsistenti gli accarezzano il volto e cercano
di spostargli i capelli dagli occhi, ma lui non mi vede, non mi sente, si
guarda intorno e io purtroppo non ho tutta la notte. Fossi stata mia nonna
forse avrei potuto far di più, ma sono solo Lilian Rea.
L’immagine
della ragazza tremolava e scompariva, mentre il suo volto era teso e si vedeva
che faticava a non piangere. Jinbe la vide galleggiare timorosa verso il
ragazzo, chiamandolo, ma lui continuava a non vederla, a guardarsi attorno
smarrito; si era avvicinata e gli aveva preso il volto tra le mani eteree,
cercando di farsi vedere dal prigioniero che qualcosa intuiva, ma non riusciva
a vedere l’immagine opalescente davanti a lui, che lo guardava spaventata e
cercava inutilmente di ravviargli i capelli e fermare il sangue che gli colava
sulla fronte dopo l’ultima visita dei carcerieri.
-Lilì?-
azzardò lui. -Lilì, sei tu?-
-Sì! Sì, sono io! Mi vedi, Ace?- ma lui non mi vede, me ne accorgo dallo
sguardo. E adesso? E adesso!? L’intenzione era quella di rassicurarlo, non di
stare ancora più in apprensione dopo aver visto com’è ridotto.
Le nuvole
stavano accorrendo da nord, Lilian non aveva che pochi minuti per tentare
l’impossibile prima che l’astro d’argento scomparisse e la lasciasse sola. La
radura era ancora silenziosa, lei era ancora inginocchiata per terra come un
crociato, con le braccia a croce davanti al volto.
Jinbe vide la
ragazza fare due passi all’indietro, aggraziata e lenta, e descrivere un
cerchio attorno a lei con le braccia tese. Per alcuni secondi non successe
niente, e la figura lattea si inginocchiò per terra come il suo corpo nella
radura, poi il cerchio si illuminò come se fosse fatto di fiamme blu, che
cominciarono a vorticare attorno a lei, e scomparve alla vista del prigioniero
risucchiata dal turbinio che si estinse in una fiammata più alta, portandosi
via il fantasma.
Va bene, devo aver sbagliato qualcosa. Forse la formula, forse il
cerchio. L’ho fatto in senso antiorario, sì? Allora riproviamo.
Lilian voleva
tentare il tutto e per tutto; aveva eseguito il rituale in quella radura con la
falce di luna e una sua proiezione aveva raggiunto Impel Down, ma Ace non
riusciva a vederla: lui forse non aveva una particolare propensione per il
soprannaturale, forse era troppo sfatto, probabilmente aveva sbagliato qualcosa
nella formula, molto probabile se tutti la vedevano meno l’effettivo
destinatario di tutto l’ambaradan, allora decise di far eseguire il rito anche alla sua stessa
proiezione, magari avrebbe funzionato. Tutta la prigione che percepiva attorno
a lei svanì, ma rimase il ragazzo davanti ai suoi occhi.
Finalmente
sollevò la testa e i suoi occhi neri incontrarono, senza ombra di dubbio,
quelli della ragazza. Stando a quello che sapeva, era così che doveva andare:
doveva esser vista dal prigioniero, non da tutto il resto della prigione.
-Lilì!-
esclamò lui, con il volto finalmente solcato da un sorriso.
Lilian uscì
dal cerchio di fiamma, che lentamente si spense.
Seduto
dov’era incatenato, Jinbe non vedeva più la ragazza né la percepiva, però
vedeva Ace che parlava verso qualcosa che era proprio davanti a lui. Crocodile
aprì la bocca per proferire qualche battuta ironica, ma lo fulminò con lo
sguardo, senza nemmeno ricorrere all’Haki: non si azzardasse a disturbare quel
dialogo, per quanto potesse sembrare ridicolo vedere un compagno di cella
parlare con il nulla.
Finalmente mi vede, ma per me è faticosissimo mantenere quel
collegamento. -Mi senti?- chiedo timorosa avvicinandomi ancora e
inginocchiandomi davanti a lui.
-Ma certo che ti sento… e ti vedo anche, quindi smetti di piangere così.-
e per un attimo rivedo quel sorriso, che in realtà è un ghigno che sa di presa
in giro.
Lilian non
sapeva nemmeno di star piangendo, si sentiva le guance calde ma pensava fosse
per l’emozione. Tentò di pulirsi con il dorso della mano, ma essendo un puro
spirito come non aveva potuto toccare Ace non riuscì a toccare neppure se
stessa.
Fisso le braccia muscolose e le spalle da lottatore tese verso l’alto, e
quella maledetta catena. Ci guardiamo senza sapere esattamente cosa dire, ma
non c’è dolcezza nei nostri sguardi. Solo un’immensa tristezza, un senso di
impotenza che ci schiaccia.
Una mia mano bianca e trasparente gli accarezza il collo, lui si gira per
toccarla con il volto.
-Si percepisce qualcosa, sai?- mi sorride. -Sei all’aperto, vero?
Lo ignoro, dove mi trovo non ha importanza. -Resisti, ti prego, verrò a prenderti in
qualche modo.-
-Non venire.- interrompe lui. -Non correre rischi inutili per me.- sussurra mesto.
-Maledetto stupido.- bisbiglio cercando di abbracciarlo, ma sono così
trasparente che per poco non lo oltrepasso, cadendo nel muro che ha dietro.
-Basta con questa storia, me ne frego chi sei o chi pensi di essere, se ti
voglio salvare lo faccio.- termino con un ringhio. -Questa forma era l’unico
modo per venire qui, se ci fossi davvero avrei distrutto tutto il muro pur
di liberarti.-
Lilian si
staccò dal ragazzo, cadde sul pavimento gattoni portandosi una mano alla testa;
la sua immagine era sempre più trasparente, sempre più tremula, vedeva sfocato
e non riusciva a tirarsi su. Ormai la concentrazione la stava abbandonando, e
anche la luna, lì alla radura, cominciava a cedere il passo alle nubi cariche
di pioggia.
-Ehi! Lilì!
Che succede?- esclamò lui preoccupato, facendo tintinnare le pesanti catene nel
tentativo di lanciarsi in avanti.
-Cazzo, non
ce la faccio più!- imprecò la ragazza. Ormai stava per cedere, come quando si
corre per troppo tempo e si vorrebbe solo stramazzare al suolo.
-Lilì! Lilì
ti prego!- supplicò Ace facendo voltare persino Jinbe che per lasciargli un po’
di privacy che naturalmente non aveva si era girato dall’altra parte. -Lilì,
non venire! Non ne vale la pena, davvero.
Sollevo la testa e lo guardo furibonda. - Se avessi trovato il modo di
venire qui, ti avrei già portato via da un pezzo! Troverò una soluzione, te lo
giuro… non ti abbandonerò così!
-Lasciami perdere.-
-No, Ace. Non io.- ringhio. Ringhio e piango nel tentativo disperato di
aggrapparmi a lui, di proteggerlo con questo inutile corpo fatto di aria, di
fumo e di lacrime.
-Volevo salutarti in maniera decente, e invece guarda che mi fai fare…- sorrido
mentre sparisco perdendomi negli occhi del ragazzo, neri e lucidi come
l’ossidiana in riva al mare.