Anime & Manga > Lupin III
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Autore: serenestelle3    09/07/2013    3 recensioni
Una piccola slice of life dedicata al personaggio di Zenigata, attraverso alcuni momenti chiave della sua vita famigliare immaginata da me (e che si riallaccia all'altra mia storia su Lupin, "Inganni").
Genere: Sentimentale, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Koichi Zenigata, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando posso rivederti?

Storia partecipante al contest "When I can see you again?" di darllenwr


°°° Nubi di tempesta °°°

Martha spense il televisore con un gesto rabbioso. Le mani le tremavano, ma riuscì a versarsi una tazza di sakè senza versarne neppure una goccia. Era stufa marcia della tv, e se al telegiornale avessero intervistato lui, la sua reazione sarebbe stata molto violenta.
 
Due settimane, sibilò col pensiero. Due intere settimane senza un segno, una parola, un gesto da parte di suo marito. Non era tornato a casa neppure per dormire, preso com’era dall’ennesima indagine.
 
E lei non riusciva a darsi pace, per quanto si sforzasse di restare calma, di fare buon viso a cattivo gioco con i vicini e gli amici.
 
“E’ un po’ che non vedo suo marito, signora Zenigata. Come sta?”
 
“Tutto bene, grazie, signor Kazamura. Koichi è tanto impegnato con il lavoro, però le manda i suoi saluti.”
 
“Martha? Credevo che tu e Koichi sareste venuti a cena sabato, vi ho aspettati tanto.”
 
“Hai ragione, Tsuhi, scusa! Koichi ha avuto un imprevisto sul lavoro, e io mi sono dimenticata di avvisarti…”
 
“Com’è che non vi ho più visti in giro? Suo marito sta bene?”
 
“Sì. Cosa vuole, non ha mai un attimo libero, con il suo lavoro e tutto il resto… comunque le dirò che è passata di qui, signora Eki.”
 
Ogni volta sorrideva, senza lasciar trapelare l’inquietudine e la rabbia che le esplodevano in petto quando invece era da sola. Aveva persino evitato di proposito di rispondere a due telefonate del fratello, perché Nino la conosceva troppo bene e si sarebbe sicuramente accorto che qualcosa non andava. Martha non voleva che il fratello si preoccupasse inutilmente; non poteva farlo correre continuamente da Caltanissetta a Tokyo solo per starle vicino. E poi, a che sarebbe servito? Nino la capiva, voleva bene a Tosh e avrebbe fatto qualunque cosa per loro. Però Martha sapeva che, in cuor suo, il fratello capiva anche perché Koichi passasse così poco tempo insieme alla famiglia. Dopotutto, era un poliziotto anche lui.
 
Forse potrei chiamare Giada…Ma no, fuori discussione; sua cognata avrebbe raccontato tutto al marito. Sospirando, si passò una mano sugli occhi stanchi.
 
A Luglio sarebbero stati dieci anni dal giorno in cui aveva sposato Koichi, diventando la signora Zenigata. Subito dopo il matrimonio si erano trasferiti nella capitale, in uno splendido appartamento in pieno centro. Lui lavorava alla Metropolitan Tokyo Police, con il grado di ispettore. Martha aveva firmato numerosi articoli di moda per alcune importanti riviste giapponesi e straniere, ed era stata curatrice di una grossa rassegna fotografica internazionale. Cinque anni dopo, in inverno, era nata Toshiko.
 
Da quel giorno lei aveva abbandonato il lavoro per dedicarsi alla figlia. Naturalmente continuava a seguire il mondo della moda e ogni tanto scriveva ancora qualche articolo, ma quasi tutto il suo tempo lo passava con Tosh.
 
Anche perché, se fosse dipeso dal padre…
 
Sapeva di essere ingiusta. Dopotutto non era colpa di Koichi, che faceva dei turni di lavoro massacranti e spesso tornava a casa stanco morto, senza neppure la forza di parlare un po’ con lei o di giocare con la figlioletta. Suo marito lavorava per il benessere della società, per proteggere i deboli e sconfiggere il crimine. Non poteva fargliene una colpa.
 
Però, se solo fosse stato un filino meno indefesso…
 
“Mamma?”, pigolò una vocina familiare, strappandola ai suoi pensieri.
 
Alzò di scatto lo sguardo dal sakè. Tosh era appoggiata alla porta del tinello, e si strofinava gli occhi gonfi e un po’ arrossati.
 
“Amore, perché sei ancora sveglia?”
 
“Brutto sogno”, rispose la bimba, con voce impastata.
 
Martha si sforzò di cancellare ogni traccia di preoccupazione dal suo volto e si alzò per abbracciarla. Le passò una mano fra i capelli neri e spettinati, simili a un piumino.
 
“Che brutto sogno era? Vuoi dirmelo?”
 
Un lampo di incertezza attraversò gli occhi verde scuro di Toshiko. Alla fine però scosse la testa.
 
“No.”
 
“Troppo spaventoso?”, la stuzzicò la madre, con un sorriso debole.
 
Tosh fece vigorosamente di sì con la testa. “Tanto!”
 
“Non pensarci più, Toshiko-kun. I brutti sogni non sono veri. Ora torniamo a letto, e la mamma ti rimbocca le coperte, va bene?”
 
“Mi leggi una favola?”, domandò Tosh speranzosa. Con quei capelli arruffati e gli occhi più scuri di quelli della madre, sembrava un gattino mezzo addormentato. Intenerita, Martha la prese in braccio e le diede un bacio sulla guancia.
 
“Va bene. Quale favola vuoi sentire?”
 
Tosh ci pensò su, aggrottando le sopracciglia. “Leggimi quella di Shiro che viveva nell’albero magico”, decise finalmente.
 
Martha la portò nella sua stanzetta, la mise a letto e le rimboccò le coperte. Poi prese il libro dallo scaffale, si sedette ai suoi piedi e, dopo essersi schiarita la voce, cominciò;
 
“Molti e molti anni fa, in un piccolo villaggio del Giappone, vivevano due vecchi sposi…”*
 
Toshiko la ascoltava incantata, sbattendo gli occhi quando il sonno minacciava di avere la meglio. Non voleva addormentarsi prima che la mamma finisse di leggere quella fiaba, che era in assoluto una delle sue preferite.
 
Quando la storia finì, Martha chiuse il libro. Con un sospiro soddisfatto, Tosh si lasciò cadere contro i cuscini e chiuse gli occhi.
 
“Vorrei tanto un cane come Shiro”, mormorò, sorridendo.
 
“Tesoro, lo sai che non possiamo. La tua allergia…”
 
“Sì, mamma, lo so. Però se avessimo un cane, un cane magico, lui aiuterebbe papà a prendere tutti i cattivi…”
 
Martha sentì che un groppo doloroso le saliva in gola. Senza rispondere, accarezzò i capelli della figlia, che era già mezza sprofondata nel sonno.
 
Come la facevano semplice, i bambini! Eppure, Tosh aveva ragione. Per il suo impegnatissimo papà, prendere i cattivi era una specie di vocazione. Riusciva a trasformare ogni indagine in un fatto personale, come se avessero derubato lui in prima persona. E non si arrendeva finché non era riuscito a lanciare le manette ai polsi del delinquente.
 
All’inizio le cose non andavano tanto male. Ma negli ultimi tempi sì. Soprattutto da quando era arrivato quel ladro, come si chiamava… ah, sì, quel Lupin. Era già sfuggito due volte a suo marito e i giornalisti lasciavano intendere che ci sarebbe stata senz’altro una terza e forse anche una quarta manche, nella partita a rimpiattino che quel francese conduceva con l’Ispettore Zenigata. Martha conosceva fin troppo bene il carattere del marito; sapeva che i due fallimenti, uniti alle insinuazioni della carta stampata, l’avrebbero solo reso più determinato ad acciuffare il ladro. E a farne le spese erano lei e Toshiko, che da due settimane non avevano notizie e vedevano Koichi soltanto in televisione.
 
Una volta, scherzando, aveva detto a Giada e a Nino che suo marito soffriva della sindrome del cavaliere senza macchia. Adesso non era più tanto sicura che fosse uno scherzo.
 
Si assicurò che le coperte della figlia fossero ben tirate, le diede un ultimo bacio della buonanotte e stava per uscire in punta di piedi dalla cameretta di Tosh, quando la bambina parlò di nuovo.
 
“Mamma?”
 
“Che c’è, piccola?”
 
“Quando posso rivedere papà?”
 
Il cuore di Martha mancò letteralmente un colpo. Il suo sguardo passò in rassegna i peluche sugli scaffali, i mobili decorati a cuoricini rosa, i poster che Koichi aveva appeso alle pareti in un luminoso giorno di Agosto. Alla fine, rassegnata, lasciò che i suoi occhi si posassero sul giocattolo preferito da Tosh; un modellino di una macchina della polizia, accanto a cui la bambina aveva incollato con lo scotch il disegno di una figura avvolta in un impermeabile beige. Accanto, in ideogrammi storti e un po’ incerti, aveva scritto “Il mio papà”.
 
Con un sospiro, Martha raccolse un peluche a forma di panda dallo scaffale più vicino e lo porse a Tosh, che lo abbracciò stretto stretto.
 
Presto”, promise sua madre, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime. “Prestissimo, vedrai. Ora cerca di dormire, pallina. E’ tardi.”

 



“International Metropolitan Police. Chi parla?”, chiese una stanca voce maschile.
 
“Sono la signora Zenigata. Vorrei parlare con mio marito, per favore.”
 
“Un istante, signora”, rispose il poliziotto all’altro capo del telefono. Per qualche minuto, l’unico suono sulla linea fu il ronzio sommesso delle statiche. Poi il poliziotto parlò di nuovo. “Il computer mi dice che l’Ispettore al momento è fuori con la squadra. Vedo se riesco a rintracciarglielo sul cercapersone. Ancora un minutino di pazienza.”
 
“Va bene”, annuì freddamente lei.
 
Rimase in piedi con la cornetta all’orecchio, ascoltando i crepitii e i sibili che si alternavano a lunghe pause silenziose. Si sentiva lo stomaco stretto in una morsa.
 
Finalmente, la voce del marito rispose al telefono. Sembrava stravolto. Come sempre, negli ultimi tempi.
 
“Martha, ti ho detto di non chiamarmi in ufficio…”
 
“Ciao, tesoro. Come stai?”, chiese la donna in tono caustico.
 
Koichi rimase silenzioso per un attimo, poi sospirò.
 
“Hai ragione. Scusa. Come stai?”
 
Gli occhi di Martha volarono ai risultati delle analisi, a quelle parole nere che risaltavano spietate contro il bianco della carta. Aveva stretto i fogli con tanta forza da stropicciarli mentre aspettava che le passassero il marito. Per un attimo, provò l’impulso feroce di urlargli in faccia la verità.
 
“Bene”, rispose invece, in tono forzatamente calmo. “E tu?”
 
“Il solito. C’è qualche problema?”
 
. Riuscì a mordersi la lingua in tempo e trattenere quell’unica parola, che le sarebbe inevitabilmente uscita piena di rabbia.
 
“No, direi di no. Sono appena tornata.”
 
“Tornata da dove? Non sapevo che avessi intenzione di uscire, oggi”, osservò lui stupito.
 
“Koichi”, disse Martha, gelida. “Lo sai che giorno è, oggi?
 
“Martedì… no, aspetta, Mercoledì.” Prevedibilmente, aveva perso anche la cognizione del tempo.
 
“E mercoledì non ti dice niente?”
 
Riusciva quasi a sentirlo spremersi le meningi, confuso. Incredibile. Se l’era scordato davvero. Alla fine gettò la spugna, scornato.
 
“Martha, ascolta, sono in servizio…”
 
“Stamattina era il primo giorno di scuola di tua figlia”, sillabò lei, senza lasciarlo finire. “Avevi promesso di accompagnarci, ti ricordi almeno questo? Glielo avevi detto domenica scorsa, che ci saresti stato.”
 
Dall’altro capo del telefono, Koichi imprecò.
 
“E’ vero, con questa storia dell’indagine mi è completamente uscito di testa…”
 
“Tosh ci contava. Ha voluto aspettarti fino all’ultimo, anche se era già suonata la campanella e gli altri bambini erano già in classe. Potevi scriverti un promemoria almeno per questo, no?!”, sbottò Martha, senza più riuscire a controllarsi. “O chiedere a qualche tuo collega di ricordarti che oggi iniziava l’anno scolastico?!”
 
“Martha, mi dispiace…”
 
“Ho dovuto consolarla per mezz’ora davanti alla scuola”, proseguì lei a denti stretti. “Continuava a dire che a scuola non voleva andarci, se prima non avesse visto il suo papà. E tu dov’eri? Ancora a dare la caccia a quel Lupin?”
 
“Tesoro, ascoltami…”
 
“La verità è che sei drogato di lavoro!”, lo aggredì lei. Con il pensiero, lo vide sussultare a quelle parole e arrossire, come sempre quando si sentiva in colpa. “Non riesci a pensare a nient’altro! Forse se ti riposassi un po’ di più e trascorressi più tempo con la tua famiglia, poi avresti più energie per correre dietro ai criminali…”
 
“I criminali non se ne stanno fermi e buoni ad aspettare che li arresti”, la rimbeccò Koichi. “Senti, mi dispiace davvero tanto per quello che è successo. Ti prometto che appena torno, porterò a Tosh…”
 
Quando torni? Stasera? Domani?”
 
“Be’, cara, vorrei davvero, ma…”
 
Martha rise senza un briciolo di allegria.
 
“Ormai sono quasi due anni che stai dando la caccia a quel ladro. Potresti anche lasciarlo respirare per una settimana, no? Se in tutto questo tempo non sei riuscito ad acciuffarlo tu, pensi che ci possa riuscire qualcos’altro?”
 
“Per l’amor del cielo, Martha, lo sai che non si tratta di quello…”
 
“Cosa importa se Lupin svaligia una villa in più o in meno?”, proseguì lei, rabbiosa. “Non crollerà il mondo o l’economia del Giappone, se anche per una volta trascuri il lavoro! E che mi dici di noi due? Io e Tosh ti vediamo col contagocce. Ormai non sa quasi più che faccia hai!"
 
“Mi dispiace, d’accordo? La prossima volta…”
 
“Non ci sarà una prossima volta, finché non capirai cosa conta di più per te! Il lavoro o la tua famiglia? Il lavoro o la tua vita?” Martha trasse un profondo respiro. Le girava la testa e aveva una nausea terribile; se c’era una cosa che odiava, era litigare con Koichi. “O forse dovrei dire che il lavoro è la tua vita?”
 
“Martha, ti prego…”
 
“Quando finirà, Koichi? Quando avrai arrestato Lupin? E poi, dopo, che succederà?” chiese lei con voce stanca. “Ci sarà sempre qualche criminale a metterti alla prova, e tu sarai sempre lì, pronto a lanciarti all’inseguimento a testa bassa. Ma questo, la tua famiglia, è quello che c’è adesso. E tu te lo stai perdendo.”*
 
Avrebbe voluto dirgli di tornare a casa subito. Di stringerla fra le braccia e dirle che sarebbe andato tutto bene. Di essere lì con lei, quando Tosh sarebbe tornata dal suo primo giorno di scuola. Invece si era ritrovata a parlargli di criminali e di indagini e di Lupin; l’unico linguaggio che suo marito potesse comprendere.
 
Lui esitò, ma prima che potesse dirle qualcosa, in sottofondo si sentirono delle altre voci, più concitate, che chiedevano dell’Ispettore Zenigata. Dopo qualche istante, suo marito parlò di nuovo. A disagio.
 
“Martha… ?”
 
“Sì?”
 
“Senti, non so come dirtelo, ma abbiamo un’emergenza. Devo chiudere.”
 
“Lupin?”
 
Dall’altro capo della linea ci fu un momento di esitazione.
 
“Sì… lui”, ammise Koichi. Aveva l’aria così mortificata, che Martha sentì la sua rabbia sbollire, malgrado tutto.
 
“Be’… se devi andare, vai.”
 
“Vorrei non essere costetto…”
 
“Lascia perdere”, mormorò lei, sfinita. “Lo so che è difficile anche per te, Koichi. Non pensiamoci più.” Di nuovo il verdetto delle analisi catturò i suoi occhi, ma lei si sforzò di far finta di niente. “Buona fortuna, allora.”
 
“Grazie, tesoro.”
 
“Cerca di prenderlo, stavolta.”
 
“Lo farò. Ti amo”, le disse lui, in tono rassicurante. Il suo principe azzurro, il suo cavaliere senza macchia che combatteva contro il male.
 
“Anch’io ti amo”, rispose, soffocando un singhiozzo.
 
“Ti chiamo più tardi. Promesso.”
 
“D’accordo. Ah, senti… Koichi?”
 
“Sì, cara?”
 
La donna trasse un profondo respiro. Ti prego, pensò, fa che non mi si spezzi la voce.
 
“Quando posso rivederti?” 




*La storia di Shiro è tratta da questo sito; http://www.letturegiovani.it/E-book/Favole%20giapponesi.pdf 


*La frase di Martha è la stessa che dice Helen/Elastigirl al marito nel film di animazione Disney Pixar "Gli Incredibili". Il bisogno quasi "patologico" che Mr. Incredibile prova nei confronti del suo lavoro di supereroe mi ha sempre ricordato molto Zazà, che allo stesso modo di Mr. Incredibile non riesce a concepire una vita senza dare la caccia al crimine, e nello specifico a Lupin.

  
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