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Autore: Peter The Sloth    10/07/2013    1 recensioni
C'è un muretto, poco lontano dal pub del Corso, che spesso è adibito a panchina per vagabondi, zingari, emarginati e, soprattutto, ubriachi. Di tutti gli ospiti che si sono seduti sulle pietre del muretto ce ne sono due che attraggono l'attenzione dei passanti: un vecchio messicano spesso stanco e un signore in smoking con una bottiglia di tequila in mano. Nonostante possa sembrare chiaro chi sia, l'ospite del muretto non è solo un ubriaco i cui brilli occhi brillano alla luce della luna.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brillando, gli occhi

Mi dirigo barcollante verso il muretto. Mi abbasso un po’ sulle ginocchia per prendere la bottiglia, la manco due o tre volte e poi, finalmente, sento il freddo bagnato del vetro. Cara, vecchia tequila. Mando giù un sorso. Alcool che scalda le già bollenti viscere.
Mi siedo accanto al vecchio messicano. No, lui non beve, è vestito abbastanza bene, come me d’altronde, ma ha lo stesso mio vizio: sedersi su questo muretto. “Hola”, azzardo. Si volta e mi guarda, poi si gira di nuovo verso l’altra parte della stradina. Non è serata per il nostro Juan. O José, come diavolo si chiama.
Mi alzo di nuovo. E’ un buon momento: c’è un sacco di gente che passa. Traballo un po’, faccio un respiro profondo, faccio due passi traballanti in avanti.
Ladies ‘n Gentlemen, si va in scena.

“Buonasera, buonasera a lorsignori!”, esordisco, “e buonasera anche a coloro che signori non sono affatto!”. Ecco le prime occhiate storte. Che spettacolo, ah, che spettacolo! “Sì, signori, affermativo: sono ubriaco, zuppo di tequila, pregno d’alcol come una spugna. Le mie gambe sono instabili, le mie braccia si agitano pericolosamente brandendo la bottiglia di vetro a mo’ d’arma.”. E, magicamente, mentre dimeno le braccia, intorno a me si crea uno spazio vuoto dove la gente non passa più. Puzzare, non puzzo: i soldi per il sapone li ho (grazie papà, per aver ricordato che hai anche un terzo figlio ubriacone e per esserti ricordato di me nella tua eredità), come li ho per i fogli di carta bianca. E quelli sì che servono. “Sì, sono ubriaco, signore e signore. Signore e signori, pardon. Come ho detto e come si nota ormai senza difficoltà, ho bevuto come una spugna e ne son contento: ma la voce non mi trema. La ho ferma, abbastanza da poter dire che son più contento di voi. Eh sì, voi avete da fuggire via dalla morte e faticate affinché essa vi raggiunga il più tardi possibile. Tanto, prima o poi, vi raggiunge, pezzi di merda!” Olè, prima parolaccia della serata. “Eh sì, cari i miei coglioncelli! Vi vorrei vedere, allora! Vorrei sentirvi dire che ve la siete goduta! Eh, certo, una volta il trimestre l’avrete visto un sesso col vostro compagno di cubicolo, i miei complimenti!”
Ecco la parte che preferisco. Consulenti finanziari che fanno finta di infischiarsene, avvocati dai telefoni-tostapane ce mi guardano con lo sguardo sdegnante ma al contempo risentito di chi è stato toccato nella scherma del discorso, impiegati bassetti ed esili che guardandomi arrossiscono se li fisso negli occhi: adoro questa gente, amo questi benpensanti formato famiglia. Sono i miei soggetti preferiti.
“Ebbene, voi avrete avuto tutto, tutto il bene, persino tutto il male. Oh, io il mio male l’ho in mano e ne abuso: non sarò soddisfatto, solo lui ho avuto: solo un male! Poverino! Povero figlio, penserete voi. Tutto il bene: sesso, soldi, arte, risa, amici (oh, perché n’ho ancora d’amici, qui dietro, proprio alle mie spalle, Juan, o José, o come cazzo si chiama, che parla di spagnolo di Pancho Villa e del Grito de Dolores, diamine, che amicone!), tutti questi beni e un solo male!” Pausa. Gocce sulla fronte madida di sudore. Espressione dilatata dall’alcol, ferma sul fotogramma di chi ha appena finito di urlare, espressione squarciata da un orribile sorriso a trentadue denti. “Ma non disperate”, continuo più calmo, “vivo bene anche con un solo male. Per fortuna è un male benigno, un male che m’aiuta a rallentare la fuga da quel gran figlio di puttana del Mietitore!”. Fisso negli occhi quelli che rallentano il passo sentirmi e domando, a voce ancora più bassa: “E voi, quanto siete veloci?”
Mi fermo, allargo le gambe, fletto la testa all’indietro, alzo le braccia al cielo e chiudo gli occhi. Un po’ di gente si ferma inebetita a guardarmi. Li sento dire: “Ma che fa?”. Quindi, torno in postura eretta e, dopo uno scoordinato inchino, torno a sedermi sul muretto, accanto ad Ignacio. O come si chiama.

“Che si dice, eh, amigo?” Mi guarda come se fossi ubriaco marcio, il che non si discosta tanto dalla realtà, e scoppia in una sonora risata. Inizio a ridere come un ossesso anch’io. Per qualche frazione di secondo ridiamo tanto da non emettere alcun suono. Ci appoggiamo l’uno sull’altro e lanciamo fugaci e ridenti sguardi, con le lacrime agli occhi, la gente che ci guarda. Qualcuno storce il naso e continua intimidito e irritato, qualcun altro aggrotta le sopracciglia e qualcun altro ancora sorride. Non c’è che dire: adoro questa gente che il sabato sera cammina per la città e si stupisce se incontra due matti.
Che imbecilli.
Dopo avermi rifilato il solito pippone di carattere storico-culturale nel solito, comico miscuglio di italiano e spagnolo, Carlos (o qualunque sia il suo nome) si addormenta sulla mia spalla. Lo accompagno al suo giaciglio, poco lontano dal supermercato. Lo aiuto a stendersi sulla parte di marmo piano che gli fa da materasso, gli rimbocco il plaid lurido fino alle spalle e lo lasciò lì, a due passi dalla sua fonte di energia: il discount.
Salute, gringo.

Chiudo la porta alle mie spalle. Mi siedo sul letto e inizio a slacciarmi le scarpe. Come ogni notte, mi guardo intorno. Mura bianche coperte da tavolozze sottili e artisticamente imbrattate con i carboncini. Scrittoio di mogano con pile di fogli, più o meno ordinati, scritti e scarabocchiati con le mie emozioni e con una biro. Lampadina nuda che penzola debole dal soffitto. E infine, sostegno con tavolozza nuova di zecca sopra. Basta. Poi, cucinotto e bagno. Per un alcolista, come casa non c’è male. Se poi tuo padre era un industriale pieno di soldi fino ai capelli, tu sei uno dei suoi figli e scialacqui la sua eredità miliardaria in tequila e tavolozze, allora il male può esserci. Ma va bene così. Fa molto figlio del popolo.
Toltomi le scarpe, rimango in piedi, in calzini di lino e smoking. Mi alzo e mi avvio alla tavolozza.

Ciò che esce fuori dai tratti leggeri o pesanti del carboncino che mi annerisce le mani è una folla, una folla in movimento, piuttosto sfocata. L’unico particolare abbastanza chiaro sono le facce stanche. Le facce fiacche di una folla triste, vista da occhi ebbri, da una visione felice. Tanti piccoli giullari stanchi e abbattuti, messi lì per lo svago del Mietitore e per qualche suo brillo amico.

Ebbene, sono orgoglioso di essere uno di questi ultimi. La tristezza, la folla: costoro non mi avranno mai.

Questa storia ha vinto il contest "Aprendo a caso il vocabolario" di Lilith in Capricorn!

  
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