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Autore: The_Ruthless    10/07/2013    1 recensioni
Molti, prima o poi, affrontano un periodo di crisi. E se hai di fronte una tentazione, una scorciatoia per sentirti di nuovo bene, di nuovo intero sei sicuro di riuscire a resistere?
[Questa è una storia vera, spero che questa consapevolezza la renda meno noiosa]
Genere: Mistero, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo tre: ragazza forte




Mi stupii quando non sentii alcun colpo, eppure ero convinta che mi avrebbe pestato. Sbirciai sotto il braccio con cui mi stavo riparando la testa e lo vidi in piedi, che mi fissava con uno sguardo sprezzante. «Sei solo una puttana stitica.»ringhiò, sputando per terra. Si girò di scatto e scese le scale, lo udii confabulare con il suo gruppetto di amici, poi il rombo dei motorini che riprendevano vita e la sgommata. Feci un respiro profondo e strisciai fino a uno dei pilastri, appoggiai la schiena contro il cemento e mi portai le ginocchia al petto. Sopra la mia testa c'era il graffito che avevo fatto molto tempo prima, il cuore rosso con dentro il suo nome, con un taglio da cui colava una scia di sangue. Cominciai a tremare, fissando il nome sbiadito, ma a cosa serviva? Non c'era nessuno a salvarmi, nessuno a proteggermi, ero sola, come sempre. Non avrei pianto. Già avevo fatto la figura della stupida, non potevo fare anche quella della piagnona. Ma a volte è difficile mantenere anche i più seri propositi.

Riflettei, tentando di concentrarmi. Dovevo avere un qualche problema, ne ero certa. Perché altrimenti ero così sbagliata? Fin da quando ero piccola, sentivo il bisogno di aiutare gli altri, per vederli felici, per vederli sorridere. Ma cosa ricevevo in cambio? Niente, solo indifferenza, nient'altro. Eppure continuavo, consapevole che, se avessi smesso e loro fossero stati male, avrei sofferto anch'io con loro. Mi sentivo come se avessi un cartello appeso al collo: “Dottoressa Tea, Consulente.” Avevo provato a pensare solamente a me stessa, a essere egoista, stronza, menefreghista. Non era servito a nulla, se non a farmi soffrire ancora di più. E, ciliegina sulla torta, quel maledetto psicologo aveva confermato i miei timori, dicendo: «Questa ragazzina è molto più matura della sua età, si potrebbe definirla quasi adulta.» A quel punto mi ero dichiarata letteralmente fottuta. Quella era in gran parte la causa dei miei problemi, il motivo per cui passavo il tempo con ragazzi maggiorenni o persino più grandi, che riuscivano soltanto a farmi stare peggio. Tutto sommato, però, come avrei potuto non essere matura con la situazione in cui mi trovavo da quando avevo otto anni? Come potevo restare ferma, zitta, fare la brava bambina normale mentre mia madre piangeva, mio padre urlava, mio fratello combinava un casino dietro l'altro e i parenti ci portavano solo problemi? Come potevo non accollarmi le responsabilità, aiutando tutti e cercando di far si che tutto andasse per il meglio? Come potevo non proteggerli, non soccorrerli? Come potevo raccontare a loro i miei problemi fuori di casa, quando noi ne avevamo già troppi? Non potevo, dovevo cavarmela da sola, come sempre.

Infine mi addormentai, non saprei se dopo pochi minuti o dopo un'ora, e iniziarono subito gli incubi.
Mi trovai nella mia strada, stavo camminando e mi bloccai di colpo quando vidi una macchina grigio metallizzata sconosciuta: era una Renault ultimo modello. Ne vidi uscire due uomini, uno sui trentacinque anni, l'altro più giovane; nonostante i capelli cortissimi del più vecchio, sostituiti alla vecchia coda di cavallo, lo riconobbi: mio zio. Gabriele. Schizzai verso di lui alla velocità della luce e mi fermai a meno di una spanna di distanza: “Cosa ci fai tu qui?”sibilai, fulminandolo con un'occhiata. “E chi è questo imbecille?”aggiunsi indicando l'altro uomo.
Mi osservò con un'espressione a metà tra il pentimento e l'indifferenza. “Io...”balbettò, sconcertato.
“Vattene pezzo di merda!”strillai, infuriata. Mi voltai di scatto ed entrai in casa, sbattendomi la porta alle spalle.
La scena cambiò. Mi ritrovai in un bar insieme ad alcuni amici e Gaia, in quell'istante entrarono Bryan, Rudy, Sverzutto, Iurilli, tutti i vecchi bulli che erano il flagello di noi ragazze alle medie. Bryan mi raggiunse, un sorriso smagliante in volto, gli corsi incontro e lo abbracciai di slancio, ridendo. Mi strinse per i fianchi, forte, facendomi accostare di più a lui e mi sussurrò all'orecchio: “Ciao Smile.” Mi impietrii e lo spinsi via, schifata.
Il sogno si dissolse in una nube grigia.
Atterrai carponi su di una strada sterrata, mi era stranamente familiare. Alzatami in piedi, capii il perché: ero davanti al vecchio cimitero di Passons, le cui aiuole all'ingresso erano colme di lapidi dei bambini morti durante la prima guerra mondiale. Un moto d'affetto per quel posto, era il luogo prediletto da me e mia madre, quando ero piccola, per le nostre lunghe passeggiate in attesa che iniziasse la mia lezione alla scuola di musica. Sentii un canto basso, appena udibile, provenire da oltre i cipressi posti all'ingresso. Varcai il cancello, seguendo automaticamente quella voce così familiare e cara, era bassa e stonata, ma l'avrei riconosciuta ovunque: era la voce di mia madre. La raggiunsi attraverso un labirinto di lapidi in marmo, era in piedi accanto a una tomba, vestita con i soliti jeans scuri e una maglietta nera ma con un'aggiunta: aveva un velo a celare il viso. Aggrottai le sopracciglia, confusa. Lei continuava a cantare, la voce spezzata dal suo pianto silenzioso, mi voltai verso le lapidi e lessi i nomi. Ebbi l'impressione che qualcuno mi avesse strappato il cuore. Erano le tombe di mio fratello e di mio padre. Caddi in ginocchio, mia madre mi si avvicinò, posando una mano sulla mia spalla, nel tentativo di consolarmi. Ma il peso che avevo dentro non c'era modo di toglierlo. Alzai lo sguardo su di lei nel momento in cui tolse il velo, e la scrutai terrorizzata: aveva i capelli bianchi come neve, mille rughe le solcavano il volto affondando nella pelle morbida, lo sguardo di una tristezza infinita. Era vecchia. E sola. Perché io l'avevo abbandonata. Li avevo abbandonati tutti. Con uno scatto mi ritrassi e la scena sfumò.
Mi ritrovai in un parco, un parco che conoscevo troppo bene, rannicchiata nel buio, con la schiena contro un muro. Mi sentivo molto più piccola della mia età, mi guardai le mani: erano ancora delicate, senza tendini in evidenza, con le classiche fossette di quando avevo all'incirca dieci o undici anni. Osservai con occhi sbarrati i due ragazzi incombere su di me. Uno sorrise, evidentemente pensando che così mi avrebbe rassicurato. Un brivido mi corse lungo la schiena. “Non aver paura.”disse, lo stesso ghigno stampato in volto. “Guarda, poi ti regaliamo una caramella.” Mi ritrassi, cercando di pensare a come fuggire. Fece un cenno al compagno e sentii qualcosa di freddo posarsi sulla mia fronte.

Mi svegliai di soprassalto, quella sensazione non se ne andava. Aspettai che i miei occhi si adattassero al buio e alla pallida luce della luna vidi una sagoma al mio fianco. Scattai in piedi mentre lui o lei, tolse la mano dalla mia fronte bollente. In due passi raggiunsi il pilastro opposto che era al margine della stanza e mi ci appoggiai, dovevo stare attenta a non cadere di sotto o mi sarei rotta l'osso del collo. Si alzò anche l'altro e in quel momento capii che era un ragazzo; nessuna donna aveva le spalle larghe ed era alta un metro e ottanta. Si avvicinò cautamente di un passo, senza sfiorarmi, e alzò le mani, come in segno di resa. Osservai la sua sagoma, confusa. Cosa voleva dire? Si sedette, appoggiando la schiena al muro a qualche metro da me. Dopo un attimo di esitazione, lo raggiunsi e mi ci sedetti accanto; mi accostai maggiormente e poggiai la testa sul suo petto. Tremavo. Mi allontanò per un momento, in modo da sfilarsi la felpa e me la mise addosso, mentre mi circondava le spalle con un braccio. Sospirai, calma. Quella notte non c'erano bisogno di parole, di domande, di spiegazioni. Mi sentii in pace, per la prima volta da non so quanti anni. Serrai le palpebre e caddi in un sonno profondo e senza sogni.

Quando aprii gli occhi ero sola, mi alzai cautamente, cercando di capire se avevo qualche parte del corpo dolorante. Nel farlo mi cadde qualcosa di dosso, lo raccolsi, perplessa: era una comune felpa adidas blu. Mi si mozzò il respiro. Allora non avevo sognato! Guardai distrattamente l'ora sul cellulare. Oh, merda! Erano le due meno un quarto del pomeriggio! Merda, merda, merda! Di lì a poco i miei sarebbero tornati e mio fratello si sarebbe alzato. Corsi a casa in un lampo, nascosi la felpa, mi cambiai e tornai al piano terra appena in tempo per scolare la pasta. Quando ci sedemmo a mangiare, io e i miei genitori, mia madre cominciò a chiedermi allegramente com'era andata la visita da Gaia senza ascoltare nemmeno le risposte. Mio padre era chiuso nel suo silenzio cupo di quando era nel periodo nero. Fantastico. Mio fratello chiacchierava in spagnolo in video-chiamata, seduto sul divano. Li osservai, uno dopo l'altro. Mio padre che stava invecchiando a vista d'occhio, qualche capello bianco si scorgeva nettamente fra i la folta chioma castana, il volto abbronzato per tutti i lavori fatti nel nostro orto era solcato dalle rughe, gli occhi verdi spenti e cupi, la barba si stava ingrigendo, il naso si era ingrossato. Mia madre aveva un'aria stanca, la pelle vellutata aveva poche rughe, le labbra perennemente imbronciate, una criniera di ricci neri, gli occhiali dalla montatura di metallo, continuava a sproloquiare, strano da parte sua. Mio fratello rideva con la ragazza, ma cosa ci trovavano? Proprio lui che si divertiva a stuzzicarmi sempre e mi lasciava sempre molti segni rossi e lividi. I capelli castano scuro erano arruffati, la mascella quadrata, le labbra sottili, il naso aquilino e gli occhi celesti. Sbirciai alle sue spalle e rimasi di sasso: la ragazza era stupenda, aveva lunghi capelli neri e lucenti, lineamenti delicati, grandi occhi scuri con lunghe ciglia e un fisico perfetto. Perché le fortune toccavano tutte a lui?
Salii in camera mia, avevo messo la mano sulla maniglia quando mia madre mi chiamò alle mie spalle: «Tea...»disse, poi tacque. «Ho delle brutte notizie. Mio fratello è stato processato, 50.000 euro di danni rimborsati, e si farà diciotto mesi di carcere.»m'informò.
«Non avrai intenzione di aiutarlo, spero?! Dopo tutto quello che ci ha fatto?!»esclamai, guardandola stralunata.
Scosse la testa. Voleva dire qualcos'altro. «Mia zia ha avuto un incidente, è in ospedale.»aggiunse, tristemente.
La zia. Zia Rossana. No, no, no, no, no! Le diedi una leggera pacca sulla spalla. «Tranquilla mamma vedrai che si rimetterà.»dissi, indossando la maschera “consolante”.
Mi sorrise. «Grazie Tea. Lo so che posso sempre contare su di te. Sei una ragazza forte.»mi fece una carezza sulla guancia e scese di sotto. Entrai nella mia stanza e andai alla finestra, guardando fuori con occhi vuoti. Una ragazza forte. “E invece no.” pensai. “Proprio no, e che cavolo.”

   
 
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