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Autore: Serenity Moon    13/07/2013    3 recensioni
"L'ora che precede l'alba è sempre quella più nera, ma piano piano, i raggi del sole cominciano a far capolino. Con una lentezza dilaniante, squarciano le nubi e colorano il cielo di infiniti miliardi di sfumature. E' quello lo spettacolo più bello, l'attimo prima dell'alba. L'istante in cui il sole si fa attendere, hai paura che non arrivi più, ma sai che c'è, devi solo dargli il tempo giusto perché sorga e ti abbagli, in tutto il suo splendore.
Ed io ero così. Ero un'alba che aspettava di nascere.
E lui era la Terra che gira. Mi ha dato vita e luce e poi me le ha tolte entrambe".
Dopo tanta attesa, ecco finalmente, il prequel di 'Bitch'.
Bentornata, Jude.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Bitch '
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Volevo dedicarti questo capitolo, ma poi mi sono detta che è meglio di no.

Bisogna davvero chiuderli alcuni cicli.

So bene che quello che porta il tuo nome non lo chiuderò mai,

sarà semplicemente accostato,

in attesa che tu capisca.

I am lost, I am vain, I will never be tha same

Without you.

 

 

# 10

 

Without you

 

Quando ero bambino, caddi dalla bicicletta. Ero da solo. I miei genitori erano entrambi a lavoro e mia sorella troppo occupata con la sua vita per badare a me. Rimasi sul ciglio della strada per almeno un'ora a trattenere le lacrime, mentre con le mani stringevo il ginocchio ferito. Bruciava in un modo sconcertante.

Avevo all'incirca quattro anni e da quel giorno il mio mondo iniziò a sgretolarsi. Cominciai a capire allora che anche le cose belle hanno risvolti negativi e che questi spesso portano ginocchia sbucciate, sangue e croste fastidiose, che non ne vogliono sapere di cadere e che se per caso le strappavo prima del dovuto, oltre a fare ancora più male, macchiavano pure i pantaloni nuovi e facevano urlare mia madre.

Da una stupidaggine come una caduta da bicicletta si scatenava un putiferio e ovviamente la colpa era mia, che non ero stato attento e che “chissà a cosa stavo pensando o cosa stavo guardando”, “perché io non avevo il permesso di uscire fuori in bici quando loro non erano in casa” e via così per un quarto d'ora buono. In definitiva mi stava bene che mi fossi fatto male e per punizione non potevo andare i bicicletta per un mese almeno.

Seconda lezione imparata in un colpo solo: il mondo è assurdamente ingiusto.

Da un po' di tempo credevo di aver ritrovato quell'equilibrio perso all'incirca vent'anni prima e per quanto fosse instabile, era l'unica cosa nella mia vita che per il momento riusciva a rasserenarmi.

Mi ero sempre sentito uno dei tanti, nessuno di speciale, nonostante le avessi provate tutte per mettermi in mostra. L'ombra non mi piaceva ed io volevo lasciare un segno, di più, un solco, spesso e profondo così che un giorno, chiunque mi avesse stretto la mano si ricordasse di me, di Ryan il grande, quello che aveva fatto questo e quest'altro.

Ma in definitiva non avevo concluso niente di buono. Ero stato costretto ad abbandonare la carriera agonistica per un infortunio impossibile da smaltire ed avevo ripiegato sulla fisioterapia. Se non avessi potuto competere io stesso, perlomeno avrei aiutato qualcun altro a coronare il suo sogno. Ma la strada era stata più tortuosa del previsto e la buona volontà non era stata sufficiente. Ci era voluto più impegno di quanto credessi di disporre. Fino a quando ero arrivato alla resa. Avevo lasciato perdere tutto e mi ero tuffato anima e corpo nella mia storia, quella relazione nata senza un perché, da un giorno all'altro, quasi senza che me accorgessi.

Lei era bella, una modella. Chiunque avrebbe voluto stare con una modella e almeno in quello avevo vinto io. Me l'ero accaparrata come un terno durante la tombola di natale e avevo giurato che me la sarei tenuto a qualunque costo, unica cosa di cui fossi mai stato il vero vincitore.

Invece col tempo mi resi conto che anche lì ero arrivato secondo. Non ero Ryan, quello che stava con la modella. Ero quello con cui la modella stava. Sempre un passo indietro. Sempre sconfitto.

Ma poi è arrivata lei. E con lei, pure il resto di quel mondo già sbriciolato fino alle fondamenta era caduto.

Inaspettatamente però, da sotto quelle macerie, non spuntarono né morti, né feriti. C'era oro tra quei resti e zampilli di acqua fresca.

All'inizio, come ogni sfollato, ero rimasto lì, fermo, a contemplare quella distruzione, prima di capire che invece era il simbolo della mia rinascita, che quegli occhi, quelle parole pronunciate piano, quasi sussurrate, erano quello che per anni interi avevo cercato. Ero talmente scoraggiato che sebbene li avessi proprio di fronte, che anzi scavavano dentro di me, non li avevo riconosciuti.

C'è gente che si fa spazio nella vita altrui a picconate. Pur di entrarci, è disposta a tutto. A lei, a Jude, erano bastati un paio di sorrisi per farsi posto nella mia.

E per la prima volta ero il primo in qualcosa, in qualcuno e non c'era che elemosinare da lei, lei sempre pronta ad elargire a piene mani. Lei che se non ha qualcosa, se la inventa e la procura.

Non ci voleva poi chissà cosa, avevo capito. Jude si era permessa di dirmi solo una frase, due parole. Mi aveva sussurrato 'puoi farcela' ed io ci avevo creduto, tanto quanto ci credeva lei.

Il progetto del mio studio di fisioterapia era ripartito e stavolta non mi sarei fermato davanti a niente. Ci voleva così poco. Solo qualcuno che mi sostenesse, qualcuno da rendere fiero. E adesso c'era Jude.

Il suo viso sereno era appena illuminato da un debolissimo raggio di luce che filtrava dalla finestra. Alla fine si era addormentata dopo quella serata da dimenticare per entrambi. Sapevo però che non avrei mai scordato la fitta alla bocca dello stomaco mentre Dave mi raccontava cosa stava succedendo. Di quel tipo, liberissimo di uscire con Jude, mente io ero intrappolato in una squallida cena con i figli dei cugini dei nonni... E la pungente consapevolezza che se anche non fossi stato impegnato, io non avrei mai potuto portare Jude fuori, in un ristorante, al cinema, alla fontana dell'acqua all'angolo della via. Io non potevo niente, se non aspettare che tornasse da me, mentre un sentimento strano mi avvelenava dentro. Non solo gelosia. Invidia. Odio verso me stesso. Perché tutta quella situazione era colpa mia e di nessun altro. Forse me lo meritavo, dopotutto.

Ma lei ancora una volta si era presa la colpa di tutto. Lei che in definitiva non c'entrava niente, si era scusata ed io ero rimasto ad ascoltarla, ammutolito dal dolore, come anni prima, caduto dalla bicicletta.

Le accarezzai i capelli sciolti, lunghi e scompigliati immaginando la sua faccia quando si sarebbe svegliata e li avrebbe trovati tutti ingarbugliati. Si sarebbe messa davanti allo specchio e avrebbe sbuffato, prima di scoppiare a ridere e snodarli con la spazzola rossa posata vicino al lavabo.

Qualcun'altra sarebbe corsa dal parrucchiere scandalizzata, invece.

Mi odiavo per quello che le stavo facendo. Sapevo di doverla lasciare, che se avessi continuato quella storia l'avrei distrutta. Per la prima volta mettevo il bene di qualcun altro davanti al mio e anche se non lo dicevo ad alta voce, a Jude tenevo davvero. Per quanto fosse paradossale, l'unico modo che avevo di amarla come meritava, era quello di lasciarla andare.

Le baciai la fronte. Era tardi e dovevo correre allo studio. Feci per sfilarmi dalle sue braccia, ma in quell'esatto istante le sue dita si strinsero attorno alla mia maglietta. Le sue ciglia tremarono e i suoi occhi assonnati cominciarono ad aprirsi lentamente. In un attimo la paura le dilatò le pupille e sentii distintamente il battito del suo cuore accelerare.

L'idea di neanche un secondo prima svanì all'istante e lasciarla mi sembrò il pensiero più stupido che avessi mai avuto in tutta la mia vita.

«Tranquilla, vado solo allo studio. Ti chiamo più tardi» sussurrai.

Intontita dal sonno, Jude mugolò qualcosa e richiuse gli occhi. Probabilmente stava pure sognando. Recuperai le mie cose e cercando di non fare il minimo rumore andai via.

Ma l'angoscia mi seguì anche sul pianerottolo e per tutto il tragitto verso lo studio, attanagliandomi lo stomaco in una morsa.

 

Disse Richard Bach: “Se la tua felicità dipende da quello che fa qualcun altro, credo proprio tu sia alle prese con un bel problema”.

Beh, io ero proprio fottuta e non ero mai stata così felice di esserlo.

Avevo tanti ricordi confusi, tutti accavallati. Diverse sensazioni, mescolate insieme: dolore, tristezza, speranza, sollievo e paura, soprattutto un'inspiegabile e soffocante paura. Avevo un'immagine distorta di Ryan che andava via, ma non capivo se fosse reale o se invece appartenesse a qualcuno dei miei incubi.

No, era reale. Il resto del letto era vuoto. Diedi una sbirciata alla sveglia. Tutto nella normale prassi di ogni volta. Era già andato a lavoro. Cosa che dovevo fare pure io a dir la verità.

Con fatica mi tirai su. Chissà lui come stava. Io mi sentivo come se mi fosse passato sopra un tir carico di bestiame pesante. Mi facevano male pure le ossa. L'avevo letto da qualche parte, i dolori psicologici ne causano di fisici. Ne avevo avuto la prova.

Lasciai tutto in disordine, feci solo la doccia, mi vestii e partii in direzione del negozio. L'umore era sotto i tacchi, ma dovevo far finta di niente e comportarmi da brava commessa. Indossai un bel sorriso ed entrai. Christie e Sarah mi salutarono con uno sbadiglio.

«Ore piccole?» chiesi loro.

«Veniamo dritte dalla discoteca» mi rispose Sarah accasciandosi sul bancone. Mi venne involontariamente da ridere.

«Vi stimo» dissi scuotendo la testa.

Si prospettava una giornata tranquilla e così fu. L'andirivieni fu costante ma niente di ingestibile. Alle undici sia Sarah sia Christie avevano un po' ripreso conoscenza dopo tre caffè ciascuno. Avevo scommesso che le avrei viste crollare prima di pranzo e stando al modo in cui camminava Christie avevo buone se non ottime probabilità di vincere.

Almeno loro si erano divertite. Vanessa dal canto suo era scomparsa. Se avevo ragione, aspettava che fossi io a cercarla. Possibilmente era pure arrabbiata con me perché non ero stata al suo gioco, recitando la parte che nella sua testa mi aveva affidato senza neanche chiedermi se mi interessasse o meno fare il provino, figurarsi la protagonista.

Per quello che mi riguardava, poteva benissimo continuare ad aspettare.

Avevo deciso di sistemare la vetrina. C'erano gli stessi abiti esposti da almeno due settimane ed era ora di cambiare.

Solerte, mi misi a spogliare i manichini dopo aver deciso cosa far loro indossare di nuovo. Era da poco arrivato un vestitino bellissimo che mi ero pure portata a casa. Non potevo resistere. Avrei esposto quello e qualcos'altro della nuova collezione. La nuova moda prevedeva fiori dappertutto, così avevo chiesto a Strawberry di procurarsi qualche bouquet finto da smembrare per spargerne i petali a terra e dare un po' di colore alla vetrina. Mi piaceva la mia idea.

Stavo svitando il braccio del secondo manichino, quando mi parve di intravedere una faccia conosciuta. Un ragazzo longilineo, non eccessivamente alto, bruno. Mi venne in mente la prima volta che lo avevo visto. Lo avevo definito anonimo. Vicino a Ryan chiunque lo sarebbe stato, ma da solo potevo pure ammettere che faceva la sua figura.

«Dave!» lo chiamai.

Lui si voltò, sorpreso. Camminava con le mani in tasca, nelle orecchie gli auricolari del lettore mp3.

«Ehi Jude».

Tornò indietro per raggiungermi. Sembrava tranquillo. Chissà come era finita la sua serata ieri.

«Non sapevo lavorassi qui. Ci viene spesso...». Lasciò la frase in sospeso per non girare il coltello nella piaga.

«L'ho scoperto a mie spese» sospirai.

Dave fece una smorfia. Ero sicura che avesse compreso a pieno quanto quelle spese fossero state care.

«Tu che fai in giro?».

«Ho preso un giorno di permesso e mi seccava restare a casa» spiegò.

Mi strofinai le mani per pulirle. Era quasi mezzogiorno e non ero ancora andata in pausa.

«Vai di fretta? Ti andrebbe un caffè?» proposi. Almeno mi sarei in parte sdebitata per avermi salvato la vita.

Lui annuì. Comunicai alle ragazze che mi sarei assentata un poco ed insieme a Dave mi avviai verso un locale vicino.

Era uno di quelli con i tavolini sulla strada, coperti da pesanti tendoni che impedivano ai raggi di sole di filtrare e creavano ombra. Sebbene facesse ancora freddo la giornata meteorologicamente era stupenda.

Ci sedemmo proprio fuori, ordinammo due caffè e nell'attesa ci mettemmo a parlare. Inevitabilmente la conversazione andò a parare in un punto ben preciso.

«Come sta? Lo hai visto?» mi chiese Dave. Lo conosceva bene, meglio di quanto lo avrei mai conosciuto io, mi resi conto amaramente e la sua preoccupazione era più che giustificata.

«L'ho trovato a casa mia. Non sprizzava allegria da tutti i pori».

«Lui purtroppo è così. Deve sbatterci la testa prima di capire qualcosa».

Lo guardai stranita. Cosa doveva capire? In quel modo soprattutto. Rabbrividii al solo pensiero di quel che gli passava in mente in questo momento. Ryan che rimuginava mi metteva il terrore.

«Qualunque cosa abbia capito da questa storia, ho paura che non sia buona. Lo ha già fatto una volta, sai? Allontanarsi per il mio bene».

La cameriera ci portò i caffè. Poggiò pure una brocca d'acqua cristallina e due bicchieri di plastica e tornò dentro al suo lavoro, consentendoci di continuare il nostro discorso.

«E com'è andata?».

«Indovina».

Dave sospirò.

«Che situazione!» esclamò e la sua voce si riempì di tutta quell'esasperazione che da mesi ero io a trattenere. «Tu come la vivi?».

Mi lasciai sfuggire una mezza risata nervosa. Per la prima volta avevo la possibilità di essere sincera al cento per cento riguardo a quella storia con una persona che non fossi io. La domanda era: approfittarne o continuare a raccontare bugie? Probabilmente Dave ne avrebbe parlato con Ryan prima o poi, o forse non avrebbe mai fatto parola di quella conversazione con nessuno. Non potevo saperlo, ma il peso di quella relazione diventava ogni giorno più grande per tenermelo tutto dentro.

«E' difficile...» dissi con prudenza. «Quando lui non c'è, è molto difficile. Vivo nella perenne paura di vederlo andare via e non so cosa farò quando succederà, perché succederà, lo so. Certe volte mi sento impazzire. Vorrei controllare tutto di lui, sentirlo ogni secondo, ma poi mi rendo conto che lo soffocherei e allora soffoco me stessa, pur di averlo. Pur di non perderlo, sono disposta a fare del male a me stessa».

«Hai mai pensato di chiedergli di scegliere?».

Inorridii di fronte a quella domanda, più che altro perché in cuor mio lo avevo fatto ed ogni volta la verità era una pugnalata allo stomaco.

«Non lo farò mai».

«Perché?».

«Tu chiederesti a Vanessa di scegliere tra me e te?» chiesi ben consapevole che lui non ne sarebbe stato proprio capace.

Dave si zittì. Era un tipo molto riflessivo. Ci pensava due volte prima di parlare. Mi piaceva pure per quello.

«Non è la stessa cosa, lo so, ma ugualmente non ho il diritto di fare una cosa del genere. Non sono nessuno».

Lui si pietrificò. Avrei tanto voluto che mi dicesse che mi stavo sbagliando. Che lui e Ryan ne avevano parlato e non era vero che non ero nessuno, che Ryan a me ci teneva più di quanto non dimostrasse e dovevo solo pazientare un po', che tra poco tutto si sarebbe risolto. Invece non disse nulla. Rimase in silenzio e rimuginare e sul mio cuore si formò un'altra cicatrice.

«Dovresti parlarne con Vanessa» insistette, come se la spiegazione che gli avevo dato allo stadio sul perché mantenessi il segreto con la mia migliore amica non fosse abbastanza chiara.

«Dave, pensa a cos'ho io e a cosa ha lui. Chi ha di più da perdere?».

«Stai scegliendo lui». Tirò le fila del discorso in men che non si dica.

«Se lei potesse farebbe lo stesso». Stavolta non riuscii a trattenermi.

Dave trasalì a quell'eventualità. «Non lo farebbe» disse deciso.

«Lo ha già fatto invece. Fa sempre così».

Incredulo, il mio nuovo amico, poggiò la tazza da cui stava sorseggiando il suo caffè sul tavolo e mi guardò profondamente cercando di carpire tutti i segreti che mi tenevo dentro, le ferite che negli anni avevo accumulato e che mi avevano rendevano quella che ero. Decisi di intervenire prima che fosse troppo tardi, che andasse troppo a fondo e capisse cose che non era dato sapere a nessuno.

«Comunque, falle del male e ti pesto». Cambiai discorso in quattro e quattr'otto.

«Non lo faresti» rispose ritornando alla realtà.

«Io al posto tuo, il dubbio me lo farei venire».

«Sai, non ero molto convinto dei gusti di Ryan riguardo alle ragazze, ma ammetto che devo ricredermi».

Mi misi a ridere.

Non valeva niente, lo sapevo. Agli occhi del mondo era tutto totalmente sbagliato, ma avere l'approvazione di Dave mi rendeva felice, un po' più giusta.

Un po' meno puttana.

 

Poco dopo tornammo sui nostri passi. Avevo un po' esagerato con la pausa, ma non me ne facevo una colpa così grande. In assenza di Strawberry la titolare ero io, di conseguenza potevo fare quel che volevo, nei limiti del decente ovviamente.

«Posso chiederti una cosa?».

Eravamo arrivati davanti all'ingresso del negozio e d'un tratto la faccia di Dave era diventata scura, come se non gli tornasse qualcosa.

«Certo». Pensavo si trattasse di qualche curiosità su Vanessa e invece mi spiazzò.

«Tu lo ami davvero? Nonostante tutto?».

Mi guardai intorno prima di rispondere. Avevo bisogno di prendere fiato prima di aprire bocca e spiegargli, per quanto fosse incomprensibile, cosa mi spingeva a tanto sacrificio.

«Certo. Anche quel nonostante tutto è parte di lui. Se non lo accettassi, se non lo volessi, sarebbe come rifiutare anche lui ed io sono per il tutto o niente. Di lui voglio tutto».

«Anche il male che ti fa» aggiunse lui sottovoce.

«E quello che io faccio a lui. Non sono innocente, Dave».

Lui sospirò e scosse la testa come davanti ad un bambino capriccioso che non vuole rinunciare alle caramelle sebbene abbia i denti pieni di carie.

«Sei messa male, Jude!» esclamò, in netto contrasto con le parole che avevamo scambiato in precedenza.

«Vero? Non me n'ero accorta!».

Ridemmo entrambi e non solo per l'espressione che mi si era stampata in faccia, ma soprattutto per il tono che avevo usato, quell'inclinazione di voce che tanto amavo e che involontariamente avevo imparato. Anche Dave l'aveva riconosciuta. Lui più di chiunque altro la sentiva più o meno da sempre e quest'altro piccolo pezzo si aggiunse al puzzle che stava creando nella sua testa.

«Sii paziente» mi disse soltanto con tenerezza e presi quel consiglio preziosissimo come un regalo di compleanno da parte di un amico lontano. Abbozzai un sorriso grato.

Il cellulare vibrò tra le mie mani. Sul display illuminato comparve il nome di Ryan ed il sorriso di allargò al solo pensiero di sentire quella voce appena ricordata.

Dave capì all'istante, mi fece l'occhiolino e salutando con la mano andò via.

 

I can't win

I can't reign

I will never win this game

without you

without you

 

I am lost

I am vain

I will never be the same

without you

without you

 

Come stai?”.

Io bene, tu?”.

Sono stanco. E' stata una giornata pesante”.

Pensavo a quelle poche parole, spiccicate a bassa voce da un cellulare surriscaldato mentre immaginavo Jude camminare in tondo ascoltando quello che in realtà non le stavo dicendo, la confusione, lo sforzo, l'angoscia dietro quella piccola enorme richiesta.

Ti dispiace se oggi non ci vediamo?”.

Il suo 'okay' tremante accompagnato da un sospiro soffocato che non avrei dovuto sentire.

Ma non si ribellava, mai, anche se avrebbe dovuto. Anche se qualunque persona sana di mente si sarebbe messa ad urlare, a litigare, lei no. Restava zitta ed accettava quell'ennesima ferita.

Non facevamo che distruggerci a vicenda e distruggere noi stessi nel vano tentativo di proteggere l'altro.

Ma lei me lo aveva detto chiaro e tondo: mai senza di me. E anche se io non glielo dicevo valeva lo stesso per me: mai senza di lei. Forse.

Era quel forse che mi fotteva. Quella stupida possibilità, la consapevolezza che io potevo farcela benissimo. Che sarebbe stata lei quella a farsi più male tra di noi, perché io dopotutto avevo a chi aggrapparmi. Lei no.

Lei non aveva nessuno a parte me.

Ed io dovevo scegliere, cazzo. Quell'altalena non poteva e non doveva continuare. Ne andava della mia sanità fisica e mentale.

La mia fortuna era il nostro vivere separati. Non volevo immaginare cosa sarebbe potuto succedere se per puro caso, una notte, dormendo insieme, dalla bocca fosse venuto fuori il nome di Jude. Probabile, dato che ormai popolava anche i miei pochi sogni.

Sdraiato sul pavimento dello studio, fissavo il soffitto ancora da pitturare e mi immaginavo davanti al bivio a cui ero arrivato.

A destra una strada, facile, conosciuta, ma triste e fatta di bugie.

A sinistra una viuzza in terra battuta circondata da rovi e spine da cui ero certo potevano nascere more e rose con le cure adeguate. Quelle di cui io non ero capace.

Sospirai per l'ennesima volta in quella giornata senza fine.

Il sole stava per calare, finalmente, ed avevo la gola secca.

Mi ero rintanato nello studio, così da sfuggire a tutto e a tutti. Non volevo vedere, sentire o dar retta a nessuno. Mi serviva un po' di tempo per me stesso, per pensare e rimettere un po' in ordine la mia vita una volta per tutte.

Ma ogni tentativo di far chiarezza risultava vano e le domande scritte in verde sulla lavagna magnetica diventavano ogni secondo più sfocate.

'Cosa voglio davvero?'.

'Chi?'.

Lì disteso, un braccio mi faceva da cuscino. Ficcai la mano dell'altro in tasca e tra le dita sentii qualcosa di tondo, piatto e duro. Mi portai davanti agli occhi quel piccolo pezzo di metallo dorato.

Lancia una monetina, dicono, non perché scelga al posto tuo, ma perché nell'esatto momento in cui sarà in aria, capirai cosa vuoi davvero.

Poteva funzionare. Con gli altri metodi non ero stato capace di cavare un ragno dal buco. Cosa mi costava dopotutto? Nel peggiore dei casi avrei rotto una mattonella, ma se era quello il prezzo da pagare per avere chiarezza, avrei volentieri rifatto tutto il pavimento.

Testa o croce. Una o l'altra. Destra o sinistra.

Chiusi gli occhi, presi un respiro profondo e lanciai la monetina.

Tre secondi e si infranse sul pavimento con un rumore cristallino.

A me ne era bastato solo uno per capire cosa volevo davvero.

Adesso mi serviva solo il coraggio.

 

I won't run

I won't fly

I will never make it by

Without you

Without you

 

I can't rest

I can't fight

All I need is you and I

Without you

Without you

 

Non mettevo piede in un bar da anni. Da quando mi ero fidanzato per la precisione. A lei non piaceva che io bevessi. A lei non piaceva che io dicessi le parolacce. A lei non piaceva il mio taglio di capelli, le mie camicie, il mio cronografo. A pensarci bene, per quale motivo stava con me, se non le andava giù niente di me?

Scossi la testa. Che importava ormai? Il tempo cancella tutto. Anche i motivi per cui due adolescenti si mettono insieme.

«Vino rosso, dolce» dissi al barman sedendomi su uno degli sgabelli alti al bancone. Non ne bevevo da un pezzo e non vedevo l'ora di tornare a sentire la gola pizzicare al suo passaggio.

Una volta riuscivo a resistere fino a dieci bicchieri. Ora a quanti sarei arrivato? Lo avrei scoperto tra breve.

Presi il primo bicchiere e lo mandai giù tutto d'un fiato. Il vino arrivò dritto allo stomaco vuoto. Lo sentii attraversare ogni centimetro dell'esofago e lasciare una scia calda. Schioccai la lingua soddisfatto.

«Un altro» ordinai al barista. Questi mi riempì il bicchiere e poi andò da un altro cliente. Stavolta lasciai decantare il vino per un minuto buono e lo divisi in due sorsi per assaporarlo meglio. Era dolce quanto bastava per dare presto alla testa.

Il terzo e quarto bicchiere andarono giù che fu un piacere. Quel vino era buono davvero.

Alla quinta richiesta il barista storse il naso.

«Hai intenzione di sentirti male?» chiese schifato. Forse toccava a lui ripulire il vomito dei clienti.

«So reggerlo» risposi soltanto e alla fine lui cedette, anche perché mi si leggeva in faccia che se non mi avesse servito lui, gli avrei strappato la bottiglia di mano e avrei fatto da me.

Presi dalla tasca posteriore dei jeans il portafogli e ne tirai fuori una banconota da cento.

«Ti basta?» gli dissi allungandogliela, facendo cenno alla bottiglia e alla sua bocca chiusa.

Ci pensò un attimo, poi me la cedette ed intascò i soldi.

«Vacci piano» disse allontanandosi. Annuii in risposta tanto per farlo contento e mi dedicai di nuovo al vino.

Ripensare alle proprie vittorie è sempre facile. Sono gli errori, gli sbagli, quelli difficili da ammettere.

Jude era al tempo stesso la cosa più giusta e più sbagliata che avessi mai fatto.

Ero felice con lei, ma mi odiavo. Perché la ferivo, ogni volta, standole lontano, obbligando lei a stare lontana da me, costringendomi a non amarla come era giusto che fosse, come chiunque altro avrebbe fatto volentieri e forse di più. Come si poteva non amare Jude? Con che coraggio si poteva rifiutare qualcuno come lei?

Ma ormai mancava poco. La decisione era stata presa e tra poco quella storia sarebbe finita, una volta per tutte.

 

I can't erase so I'll take blame

but I can't accept that

we're estranged

without you

without you

 

I can't quit now

this can't be right

I can't take one more sleepless night

without you

without you

 

Erano le due del mattino passate. Mi ero appisolata sul divano, stretta in un plaid colorato, con la televisione come unica fonte di luce a rischiarare la stanza, il volume talmente basso da poterci capire qualcosa solo seguendo il labiale.

Ero triste. La telefonata di Ryan mi aveva rovinato la giornata. Il pensiero di non vederlo aveva offuscato qualunque altro motivo di poter sorridere. Neanche un biglietto vincente della lotteria mi avrebbe restituito il buonumore.

Avevo saltato la cena a causa dello stomaco chiuso per la brutta notizia ma di dormire non se ne parlava. Troppi pensieri mi affollavano la testa. Dubbi e paure che non volevano proprio lasciarmi in pace e tormentavano quelle ore infinite lontano da Ryan.

Ripensavo al consiglio di Dave di portare pazienza. Aveva ragione, ma non c'era nulla di più difficile. Volevo Ryan e lo volevo subito. Per sempre.

In TV passavano le immagini di un film che non avevo mai visto. Lei moriva in un incidente d'auto ma a lui veniva data una seconda possibilità per salvarla. Stava per terminare e avevo già capito come sarebbe andata a finire. Sarebbe morto lui per salvare lei. Che idiozia!

Perché non succede mai che a restare siano i maschi? E' sempre l'uomo a morire e la donna resta a piangere, piangere e piangere in un abisso di disperazione senza eguali. Perché loro, i maschi non soffrono mai? Perché tutto il dolore lo lasciano sopportare a noi?

Il cellulare, poggiato sul solito tavolo, si illumino e cominciò a squillare a tutta potenza. Nel silenzio della stanza, la suoneria sembrava più assordante del normale.

Spaventata lo afferrai e guardai sul display il nome che lampeggiava. In un attimo il panico mi attanagliò lo stomaco.

«Ryan!» risposi senza tanti convenevoli, ma la voce all'altro capo del telefono non era la sua.

«Ciao, non sono Ryan».

Che razza di scherzo era?

«E allora chi sei? Lui sta bene?» le domande partirono a raffica lasciando a malapena il tempo al tizio di rispondere.

«Calma, il tuo amico è qui, solo che si è preso una bella sbronza. Potresti venirlo a prendere?».

Mi diede l'indirizzo di un bar poco lontano dal centro in cui non ero mai stata e mi pregò di fare presto. Secondo lui non stava così male, ma di certo non era un bel vedere.

«Arrivo».

Saltai in piedi, corsi in camera da letto a prendere la borsa, agguantai le chiavi e con indosso un'orribile tuta, mi precipitai in garage.

L'istinto di affondare il piede sull'acceleratore fu fortissimo, ma mi costrinsi a calmarmi. Le strade per fortuna a quell'ora erano quasi del tutto deserte e questo mi permise di filare dritta senza impedimenti fino alla mia meta.

Ero troppo preoccupata. Cosa diamine gli era passato per la testa? Cercai di crearmi qualche spiegazione plausibile mentre tra i fasci di luce dei lampioni attraversavo la città e l'unica che mi venne in mente fu che doveva aver litigato con la sua ragazza. Quale altro motivo poteva spingerlo a tanto?

Un'insegna al neon mi avvertì che ero arrivata. Parcheggiai rischiando di investire un gruppo di adolescenti poco vestite. Il ragazzo di una di loro mi urlò contro. Non gli diedi ascolto e sbattendo la portiera mi precipitai dentro il bar.

Dentro faceva caldo. Mi guardai intorno alla ricerca di Ryan, ma non lo vidi da nessuna parte. Dal bancone un ragazzo alto, i capelli biondissimi, mi fece un cenno ed indicò verso il basso.

Riconobbi subito la sagoma imponente delle spalle di Ryan accasciate sul piano del bar.

Lo raggiunsi di corsa, scartando i vari clienti che a turno mi si ponevano davanti.

Quando fui a portata d'orecchio il ragazzo biondo mi chiamò per nome.

«Jude?».

Annuii in risposta controllando per prima cosa in che condizioni era Ryan.

«Come diamine ha fatto a ridursi così?» chiesi sbalordita e preoccupata al barista.

Lui indicò due bottiglie di vino accanto al gomito di Ryan, di cui una completamente vuota. Dall'altra mancava più di metà del suo contenuto. Nel mio gruppo dovevamo metterci d'impegno almeno in quattro per un risultato del genere.

«Tieni» il ragazzo mi porse un cellulare che riconobbi subito come quello non ufficiale di Ryan. «Eri la prima fra le chiamate in uscita» mi spiegò.

«Hai fatto bene. Ti ringrazio».

Fece un cenno con la mano e se ne andò.

Io diedi un paio di scossoni a Ryan, profondamente addormentato sul bancone come sul letto di casa sua, per svegliarlo.

«Ryan, su, sveglia», ma parlavo da sola. «Amore, per favore» lo supplicai.

Lui aprì prima un occhio, poi un altro. Totalmente stralunato.

«Jude» biascicò sorpreso. Puzzava di vino in maniera assurda.

«Sì, sono io. Su, aiutami, usciamo di qui».

Si tirò in piedi con difficoltà. Lo sostenni per la schiena, facendogli passare il braccio sinistro dietro il mio collo per dargli più stabilità. Girando, con la mano libera, afferrò la bottiglia non del tutto vuota e fece per portarsela dietro.

«No, no, no, no, no, questa resta qua». Gliela strappai di mano e la porsi ad un tizio dai capelli ricci, seduto vicino a noi. Quello ci guardò come se fossimo impazziti e consegnò la bottiglia al cameriere che lo stava servendo.

Con una fatica immane, trascinai Ryan fuori da quel locale. Lo feci appoggiare allo sportello posteriore mentre aprivo quello del passeggero e poi lo aiutai a sedersi, ancorandolo ben bene al sedile con la cintura di sicurezza.

Mi misi al volante, senza perdere un istante di più del necessario e partii filata verso casa mia.

Ogni tanto lo sentivo mugugnare. Le luci gli davano fastidio ed ero certa che le curve della strada non lo aiutassero a non dare di stomaco. Pregavo che non vomitasse solo per risparmiargli quell'umiliazione. Non se lo sarebbe mai perdonato se non avesse resistito.

«Stai guidando» disse all'improvviso. Aveva gli occhi chiusi per metà e non riusciva a tenere ferma la testa.

«Te l'avevo detto che prima o poi mi sarebbe servita» scherzai.

Le sue labbra si curvarono in un sorriso appena accennato. Era stupendo anche da ubriaco. Non disse più niente per tutto il tragitto.

Arrivati sotto casa mia, dieci minuti dopo, sembrava di nuovo essersi addormentato, ma quando lo chiamai rispose al primo tentativo.

Gli aprii lo sportello e di nuovo lo accompagnai per le scale, fino al portone di casa mia.

Barcollando entrò in salotto, trascinandosi accanto al muro. Non aveva per niente una bella cera.

«Mi dai un'aspirina?» biascicò. Si era seduto sul divano e si teneva la testa fra le mani. Sapevo bene come si sentiva. Quello che non sapevo era perché arrivare a tanto. Litigata o no era semplicemente assurdo.

«Adesso? Ti farà male» provai a dissuaderlo.

«Vai, per favore».

Non dissi altro. Andai verso la camera da letto, lasciandolo solo, in preda alla sua sbornia.

Dovevo avere qualche compressa nel primo cassetto del comodino di sinistra, o almeno speravo. In caso contrario sarei uscita a comprarle.

Stavo rovistando tra pigiami e calzette varie e delle aspirine nemmeno l'ombra, ma dalla parte opposta del corridoio un rumore sordo mi fece trasalire di nuovo. Mi precipitai fuori. La porta del bagno era spalancata, sebbene la luce fosse spenta.

Feci per entrare, ma la paura mi bloccò sulla soglia e dovetti appoggiarmi agli stipiti per non crollare a mia volta.

Ryan era inginocchiato, la testa quasi infilata nella tazza del water, a vomitare anche l'anima.

«Ryan!» esclamai e in un attimo fui accanto a lui per sorreggergli la fronte.

A fatica rantolò 'vattene' ma non gli diedi ascolto.

«Vattene» ripeté di nuovo tossendo.

«No!» gli risposi decisa come mai ero stata prima con lui. Da sempre avevo avuto timore di mostrarmi troppo invadente nei suoi confronti, ma quella sera non mi importava. Non lo avrei lasciato solo.

Mi bagnai le mani con dell'acqua fredda e gliele poggiai sul viso e sul collo per ristorarlo un po'.

Traballante, si sedette sul pavimento e lasciò andare la testa contro il mobile del lavandino. Era esausto e pallido come uno spettro.

Gli porsi una salvietta che mi ero premurata di inumidire e lui, grazie al cielo, la accettò senza tante obiezioni.

Rimanemmo lì seduti per un quarto d'ora buono. Non volevo costringerlo a far niente. Semplicemente aspettavo.

Dopo un po', cercò alla bene e meglio di tirarsi su. Lo aiutai e lo sorressi mentre si sciacquava la bocca per mandar via il sapore acido del vomito.

«Ce la fai?» chiesi con un filo di voce.

«Fammi sdraiare».

Gli ciondolava la testa per la stanchezza e la fatica. Lo guidai verso la camera da letto, sostenendo il suo peso nemmeno io sapevo come. Un passo falso e saremmo arrivati entrambi a terra.

Raggiungere il letto fu un sollievo enorme. Lui stesso sembrò capirlo e si lasciò andare sul piumino colorato come un profugo finalmente a casa.

Gli tolsi le scarpe e lo aiutai a stendersi del tutto. Aveva chiuso gli occhi e il respiro affannato si stava piano piano regolarizzando.

Rimasi a guardarlo per un po'. Nella mia testa almeno un centinaio di domande che si affollavano le une sulle altre, alla ricerca spasmodica di una risposta valida, ma sapevo che l'unico modo per averne era chiedere.

«Ryan?» sussurrai incerta.

La sua risposta fu un semplice mugugno.

«So che non è il momento adatto, ma... perché? Voglio dire, perché ti sei ridotto così?».

Lui restò in silenzio. Credetti quasi che si fosse addormentato.

«Ne avevo bisogno» confessò infine lasciandomi spiazzata. «Avevo bisogno di un momento per me. Non ce la faccio più a vivere così, sempre costretto a fare la cosa giusta per gli altri. Per una volta, volevo essere io il padrone della mia vita».

Abbassai il capo, colpevole. Mi resi conto che era principalmente colpa mia se le sue catene cominciavano a stringere troppo e a soffocarlo. Colpa mia e del mio stupido egoismo che non mi permetteva di lasciarlo, sebbene fossi estremamente consapevole del fatto che stargli lontana era l'unico modo per renderlo davvero felice.

Ma come potevo accettare di mandarlo via? Lui era il mio tutto ed io senza di lui ero assolutamente niente. Svuotata e priva di senso come una canzone senza note. Sarei stata un vagabondo cieco, senza cuore e senza respiro, persi in chissà quale angolo di strada terrosa, impossibili da ritrovare, nascosti dietro qualche nuvola di polvere densa.

 

I won't soar

I won't climb

If you're not here I'm paralyzed

Without you

Without you

 

I can't look, I'm so blind

I lost my heart, I lost my mind

Without you

Without you

 

«So che non è abbastanza, ma per quanto possa valere, in questa casa sarai sempre e solo tu il tuo padrone».

Feci per alzarmi e lasciarlo così da solo. Non volevo imporgli ulteriormente la mia presenza.

Lui percepii le mie intenzioni e in uno scatto mi prese per il polso, impedendomi di allontanarmi.

«Dammi solo un po' di tempo, okay? Solo un altro po' di tempo». Non riuscivo a decifrare quella sua richiesta. Tempo? Per cosa? Per capire? Per decidere? Per restare?

«Tutto quello che vuoi» gli risposi.

Gli sfiorai le labbra con un bacio debole, per la prima volta davvero dolorante. Sentivo che sarei potuta scoppiare a piangere da un momento all'altro e non volevo aggravare la situazione già pessima.

Avrei fatto del male a lui ed era una possibilità da neanche prendere in considerazione.

Mi avviai verso la cucina per prendergli dell'acqua. Ne avrebbe avuto bisogno durante la notte.

«Ti amo».

Fu un sussurro. Uno spiffero di vento penetrato dalle fessure di una porta che non si chiude bene, col suono della sua voce.

Mi bloccai sulla porta, basita, col cuore fermo, impaurito di tornare a battere per non turbare quel momento col suo rumore sordo e vuoto in confronto.

La fantasia mi giocava brutti scherzi. Non potevo averlo sentito.

Lui non poteva averlo detto.

Era ubriaco. Dormiva già. Sicuramente stava sognando. Credeva di avere vicino lei.

O forse lo aveva detto davvero. Forse non me l'ero immaginato.

E' questo il bello delle sbronze, sciolgono la lingua e i pensieri.

«Anch'io» bisbigliai a mia volta e socchiusi la porta per impedire alla luce del corridoio di infastidirlo.

Poi, in cucina, lontana dalle sue orecchie, mi accasciai a terra e piansi anche le lacrime che non avevo.

 

I am lost

I am vain

I will never be the same

Without you

Without you

 

Without you

 

 

Non sto molto bene, quindi non mi dilungo.

Volevo ringraziare tutti voi che mi seguite, nonostante i ritardi e le imperfezioni di questa storia. Ho deciso che una volta conclusa la revisionerò totalmente cercando di migliorarla.

Un grosso ringraziamento va ad Oriana che mi ha aiutato con la parte sugli alcolici, visto che per quel che mi riguarda non ne so proprio niente e pure a Dajana per lo stesso motivo. Grazie ragazze.

Un appunto speciale per la mia amica Anadiomene: non scoraggiarti mai, mai, mai! Hai tutte le capacità di questo mondo. Puoi farcela! Io ti sono vicina per quel che vale :)

Vi do appuntamento al prossimo capitolo, il penultimo. Mi metterò a lavoro non appena rimessa. Non dimenticatevi di me!

Serenity

 

   
 
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