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Autore: Blue_moon    14/07/2013    4 recensioni
Terzo libro della trilogia Similitudini.
Per la comprensione della storia è necessaria la lettura delle prime due parti, Prigioni e Spie.
Sono passati tre anni da quando Loki è scomparso nuovamente con il Tesseract.
Nè sulla Terra, nè ad Asgard si sono più avute sue notizie.
Apparentemente le cose sono tornate alla normalità.
Ma nell'ombra antichi nemici stanno preparando la loro mossa, dritta al cuore.
Avvertenza: nella trama sono presenti forti SPOILER riguardo Thor: The Dark World e Iron Man 3, se non volete rovinarvi la sorpresa, non leggete.
AGGIORNAMENTI MOLTO LENTI
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Thor, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Similitudini'
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Sono in ritardissimo, ma questo capitolo ci ha messo molto a delinearsi nella mia mente. Stiamo per avvicinarsi al clou della storia, e quindi sentivo la necessità di delineare con chiarezza tutte le sottotrame che intendo affrontare (quanti paroloni per dire che ho avuto poco tempo per scrivere XDXD)
Comunque spero che sia valsa la pena, buona lettura, ci vediamo alla fine...




La nebbia si avviluppava lentamente intorno alle gambe dei soldati, solida e concreta come centinaia di serpenti traslucidi, rendendoli inquieti e rumorosi.
Malekith dedicò un lungo sguardo alle proprie truppe, stipate nella gola il cui nome ormai era stato dimenticato nei lunghi anni di degrado, l'angolo più buio di tutto il pianeta. Uno dei pochi luoghi dell'universo in cui lo sguardo dorato di Asgard non poteva giungere.
Un sorriso inquietante e soddisfatto ferì il volto dalla pelle scura, rendendo più evidenti le cicatrici ornamentali che lo solcavano.
«Non essere così compiaciuto, Elfo», sibilò la voce cavernosa del Chitauro alle sue spalle.
Malekith non si voltò.
«Perché affermi ciò, mostro?», chiese, calcando sull'epiteto che amava utilizzare, per riferirsi al comandante in carica dell'esercito di creature a metà tra macchine ed esseri viventi.
Per un guerriero come Malekith, che affondava le radici del proprio potere nella forza bruta e nella semplicità della violenza, diavolerie tecnologicamente avanzate come i Chitauri e le loro armi erano semplicemente fonte di preoccupazione.
Più un grattacapo che un reale vantaggio.
Eppure aveva dovuto accettare l'alleanza con il Signore Rosso e il suo esercito di macchine.
Dopo anni di tirannia, Asgard aveva reso il suo popolo l'ombra di ciò che era stato, vicino alla più umiliante delle estinzioni.
L'Elfo Oscuro trattenne un ringhio di rabbia e disprezzo.
Odino aveva ripagato anni di servizio fedele, di sangue versato e vite spezzate con un governo duro e spietato.
E per ripagare quale torto?
Solo la legittima richiesta di indipendenza di un popolo fiero che meritava qualcosa di più di una vita all'ombra ingombrante di Asgard. Era stato lo stolido rifiuto del Padre degli Dei a trasformare quella richiesta in una cruenta rivolta che gli eserciti di Asgard avevano affogato nel sangue degli Elfi, sterminando la famiglia reale.
L'unico sopravvissuto era stato il suo antenato, che portava il suo stesso nome. Lui, che insieme alla sua forza, gli aveva trasmesso anche l'odio più puro e viscerale per qualsiasi cosa che provenisse da Asgard, desiderando solamente cancellare per sempre quella luce perfetta che ne proveniva.
E adesso, grazie anche a quell'esercito di mostri, aveva la possibilità di rendere il suo desiderio, la sua brama, realtà.
Non capiva proprio perché non avrebbe dovuto essere soddisfatto.
«Perché è stata la spavalderia, a far crollare il tuo predecessore», rispose con calma serafica il Chitauro, l'espressione di scherno nascosta dall'ingombrante elmo dorato.
Lo spadone ricurvo di Malekith minacciò la gola della creatura, costringendola contro il muro.
«Come osi paragonarmi a quella feccia asgardiana?», sibilò, spuntando le parole come un cobra sputa il veleno.
«È ciò che sei», intervenne la voce cavernosa di Thanos, alle loro spalle.
I suoi passi, pesanti come macigni, risuonarono per la conca, acquietando la massa agitata dell'esercito. Malekith lasciò andare il Chitauro con un scatto e, schiumando di rabbia, fronteggiò il Titano, ancora con la spada in pugno.
Lo sguardo di ghiaccio di Thanos spense in fretta il suo furore.
Un mezzo sorriso affiorò sulle labbra del Titano. «Devi imparare, giovane Principe, dagli errori di chi è venuto prima di te», lo ammonì, con il fare saggio di un mentore che rimbrotta un allievo cocciuto.
Malekith ingoiò le proteste, e si affrettò a fare un cenno d'assenso.
«Che novità mi porta, mio signore?», domandò, senza adulazione, ma con reale rispetto.
Gli Elfi Oscuri non erano esseri privi di onore, e sapeva riconoscere i meriti di guerrieri capaci. Thanos era il primo individuo che si interessava alla sua sorte, e di questo gli era, intimamente, riconoscente.
«Il nostro contatto non ci ha ancora comunicato alcun cambiamento», espose tranquillamente il Titano.
Malekith trattenne la delusione. «Quando agiremo?».
«Non appena il Portatore sarà giunto ad Asgard», replicò Thanos, poi gettò un lungo sguardo penetrante alla massa informe dell'esercito, che aveva ripreso a muoversi, agitata come onde del mare. «Allora, potrete placare la vostra sete di vendetta», esclamò a voce alta, scatenando un boato d'esultanza tra i soldati, che picchiarono le lance sul terreno e le spade contro gli scudi di metallo. «Ora vai dai tuoi soldati, Elfo», concluse Thanos, congedando il Principe con un vago gesto della mano.
Quando Malekith si fu allontanato abbastanza, il Chitauro soffiò tra i denti, in un sibilo simile a quello di un gatto infastidito. «Quando avrò il permesso di ucciderlo?», chiese.
Thanos ghignò. «Non ne avremo bisogno. Ci penserà la sua vendetta a spingerlo tra le braccia della Morte», mormorò, poi accennò all'esercito radunato sotto di loro. «Sono sempre di più», commentò.
«Continuano ad arrivare», confermò il Chitauro. «Saranno perfetti per distrarre Asgard dal vostro vero obiettivo».
«Taci», intimò Thanos, improvvisamente solenne. «Non è ancora il momento. Per prima cosa, il Tesseract», precisò.
La Morte pochi passi avanti a lui, sorrise, felice e spietata.
«L'universo sarà mio, per sempre».

Asgard non era cambiata da come Khalida la ricordava.
L'improvvisa e violenta dipartita della sua Regina non aveva scalfito la bellezza immutabile della Città Eterna. Per i suoi abitanti, invece, le cose erano decisamente differenti.
A parte il Guardiano, Heimdall, sfavillante nella sua armatura dorata, ogni singolo asgardiano che incrociava la sua strada e quella di Thor era vestito a lutto, dal più nobile all'umile serva.
Il mantello scarlatto del Dio del Tuono feriva quell'assenza di colore come una macchia di sangue troppo indelebile per essere lavata via.
Per la prima volta Khalida si fermò a riflettere sui motivi che avevano spinto Thanos ad agire in quel determinato modo.
Era ovvio che volesse stanare Loki, scatenando la sua ira, privandolo dell'unica persona per cui il Dio non provasse l'odio viscerale che riservava ad Odino, Thor e all'intera corte di Asgard. Ma l'intento del Titano era più profondo.
Attaccando Asgard, ferendola in profondità, provando la vulnerabilità del suo stesso sovrano, Thanos puntava anche a mettere in ginocchio l'intera Città Eterna.
Per cui era ovvio che il primo attacco si sarebbe presto ripetuto, e questa volta l'esercito di Elfi di Thanos non si sarebbe limitato ad una scaramuccia.
Khalida fissò la schiena di Thor, diversi passi avanti a lei.
Il Dio del Tuono non si poteva certo definire un tipo brillante, ma la donna era certa che avesse compreso il piano del suo nemico, dato che la lingua della guerra era quella con cui era cresciuto, e proprio per quello in quel frangente sapeva di potersi fidare di lui.
Khalida accelerò il passo, faticando a stare al passo con l'asgardiano.
Al loro arrivo, Heimdall aveva comunicato, non senza un'ombra di sollievo nella voce monocorde, che Odino si era risvegliato dal suo Sonno e che, sebbene ancora troppo debole per sedere sul trono, attendeva entrambi nei suoi alloggi.
Thor si stava trattenendo a stento dal correre, animato da un sollievo purissimo.
Ora che Padre era nuovamente in salute, si sentiva più sicuro, e quel peso sul petto diventava di minuto in minuto più leggero. La sua decisione gli appariva migliore, più giusta, certo che Odino sarebbe stato fiero di lui.
La mano di Khalida scattò all'improvviso, afferrandogli un polso con vigore. «Non sono veloce come te», lo ammonì, costringendolo a fermarsi.
Come risvegliandosi da un sogno, Thor annuì, sentendosi nuovamente in colpa.
Non era mai stato bravo a comprendere i sentimenti dei propri compagni.
Osservò Khalida. Ansimava leggermente, la pelle coperta di sudore nonostante la temperatura gradevole. Le dita della mano destra stringevano convulsamente l'arma, che emetteva un vago bagliore azzurro lungo i contorni affilati.
«Stai bene?», le domandò d'istinto.
Khalida inarcò le sopracciglia. «Non importa, muoviamoci», tagliò corto.
Thor non accennò a muoversi.
Quell'umana aveva il potere di farlo sempre sentire inadeguato.
Era sempre stato così, sin dal loro primo incontro.
Una sensazione che gli ricordava incredibilmente Loki che, con il suo acume e la scioltezza di lingua, l'aveva sempre affascinato e spaventato in ugual modo. Forse per questo a volte era stato crudele con lui, definendo le differenze tra loro con il sarcasmo pungente dei bambini.
«Khalida io...», iniziò.
«Thor», lo fermò immediatamente lei. «Qualunque discorso tu voglia affrontare, non è il momento. Tuo padre ti aspetta».
Il Dio del Tuono strinse un pugno.
Lo stava rifacendo, forse la sua era solo una tattica per fargli perdere il controllo, o semplicemente la divertiva metterlo in difficoltà, ma non aveva intenzione di cedere alla provocazione.
Khalida aveva ragione, non era il momento. «Seguimi», le intimò.
Tenendo un passo più calmo, Thor la condusse all'interno del palazzo.
Mormorii sorpresi rimbalzarono sulle pareti, man mano che si diffondeva la notizia del ritorno di Thor, accompagnato da quella donna strana, vestita in modo inusuale e con quell'arma dall'aria pericolosa impugnata con disinvoltura, quando solo i membri della famiglia reale erano autorizzati a presenziare armati davanti al Padre degli Dei.
Le orecchie di Khalida non potevano cogliere ogni mormorio, ma alla base della nuca una fastidiosa sensazione di pericolo la tormentava. Non avrebbe mai potuto sentirsi a suo agio in quel luogo troppo perfetto per essere vero.
Due guardie in armatura stanziavano accanto all'ingresso della camera di Odino, impugnando lunghe lance affusolate. Scattarono sull'attenti non appena riconobbero Thor, ma esitarono un minuto di troppo quando si accorsero della presenza di Khalida.
«È con me», si affrettò a specificare il Dio del Tuono. «Ora conducetemi da mio Padre», ordinò, ammantandosi di un'aura improvvisamente altera e autoritaria che Khalida non riconobbe.
Benché non si fosse comportata in modo diverso dal solito nei suoi confronti, aveva constatato immediatamente un cambiamento in Thor. Gli anni passavano anche per lui, e stava maturando. Probabilmente la morte di Frigga gli aveva scaricato addosso una valanga di improvvise responsabilità e consapevolezze che lo avevano reso più conscio del suo ruolo all'interno della corte.
Mormorando un “sì maestà”, le guardie ubbidirono e spalancarono gli alti battenti rivestiti di metallo lucido.
La camera era più piccola di quanto Khalida si aspettasse. Il grande letto dalla struttura imponente, di un metallo lucido che assomigliava al platino, la occupava quasi per intero, e il Padre degli Dei appariva un qualunque vecchio malato, sprofondato nelle lenzuola candide, con la schiena appoggiata ai cuscini.
Insieme a Sif e i Tre Guerrieri, un'altra donna dall'aspetto imponente e dalla bellezza voluttuosa scrutò con interesse il suo arrivo e quello di Thor. Khalida non aveva ricordi di averla vista, nel suo breve soggiorno ad Asgard, e istintivamente la esaminò con attenzione.
Era vestita come i soldati che presidiavano l'ingresso della stanza, di rosso ed oro, ma qualcosa nei suoi abiti aveva un indubbio taglio femminile, sotto braccio teneva un elmo dorato decorato da due grandi corna di montone e al fianco cingeva una lunga spada dall'elsa finemente lavorata, il pomolo era una testa di serpente impreziosita da grossi smeraldi. Benché fosse vestita come tale, Khalida dubitò immediatamente che quella donna fosse una semplice guerriera come Sif. Il suo portamento era troppo fiero e i suoi occhi accesi di un'intelligenza feroce e indagatrice.
La donna ricambiò a lungo il suo sguardo, poi fece un breve sorriso, senza dire niente.
Khalida rabbrividì istintivamente, ma ignorò la sensazione, concentrandosi sulla conversazione, di certo complicata, che la attendeva.
Thor accennò un inchino. «Padre, vederti finalmente in salute mi riempie di sollievo», esclamò, dirigendosi verso il capezzale del padre.
Questi sollevò lentamente una mano, in un gesto di saluto.
«I tuoi amici mi hanno già spiegato», iniziò Odino, fissando immediatamente Khalida, che era rimasta nei pressi della porta, quasi a volersi accertare di avere una via di fuga. «Avevo sperato di non rivederti più umana», disse.
Khalida strinse le labbra e decise che quella volta non avrebbe rivolto nessun segno di rispetto nei confronti del sovrano di Asgard.
«Sono qui solo su richiesta di Thor. Anche io speravo di non doverci tornare mai più», replicò, con voce dura.
Odino accettò le sue parole con un cenno del capo. «Quindi, vuoi trovare Loki?», domandò, rivolto al figlio.
Thor si sedette sul materasso, a rispettosa distanza dal padre. «Può aiutarci, Padre. Lui conosce il nemico», disse, ripetendo la stessa spiegazione che aveva già dato a Khalida.
Odino scosse la testa. «La sorte di Loki ormai appartiene a lui soltanto. Non hai diritto di andare a cercarlo».
Thor si irrigidì improvvisamente. «State dicendo che non approvate la mia decisione?».
«La tua è una speranza labile e infantile», iniziò Odino. «È trascorso troppo tempo, e Loki non è più la persona che conoscevi. Ed ora è potente».
Khalida era confusa quanto Thor da ciò che udiva.
C'era un logica di fondo nelle parole del Padre degli Dei, ma Odino sembrava provato, affaticato perfino, e nei suoi occhi brillava una luce sinistra. Un luccichio che la donna riconobbe immediatamente. «Perché non dice chiaramente di cosa ha paura?», intervenne.
L'insinuazione velenosa di Khalida provocò la reazione della guerriera che non conosceva, che portò la mano alla spada. «Come osi, midgardiana?», sibilò.  
«No, Lady Amora, ha ragione», disse Odino, fissando l'unico occhio in quelli di Khalida. «Ho paura, umana, di ciò che Loki potrebbe fare all'unico figlio che mi è rimasto. Ha già causato indicibile sventura alla mia famiglia».
Thor, sconvolto da quella prospettiva, lasciò cadere improvvisamente il Mjolnir a terra. «Loki non mi ucciderebbe», affermò con sicurezza. «Tutte le volte che ne ha avuto l'occasione non l'ha mai fatto».
«Tuo fratello ci ha rinnegati!», esclamò Odino, alzando improvvisamente la voce.
«Ma io non ho rinnegato lui», replicò Thor, sullo stesso tono, scattando in piedi. I pugni stretti lungo i fianchi come a trattenere gesti inconsulti.
Khalida fece un passo avanti, la luce nel cristallo di Match brillò più intensamente e i Tre Guerrieri si allarmarono, portando le mani alle armi. «Lei teme il Tesseract, l'ha sempre temuto. Per questo l'aveva nascosto sulla Terra».
Odino la fissò come se volesse ucciderla. «Non hai il diritto di giudicarmi, umana».
«Né lei ha il diritto di giudicare Loki, quello l'ha perso la prima volta che gli ha mentito», calcò Khalida, senza pietà.
Odino fece un gesto improvviso, come se si volesse alzare in piedi, ma la donna che aveva chiamato Amora gli mise una mano sulla spalla, mormorando qualcosa che Khalida non udì. «Quel potere corromperebbe il più nobile degli asgardiani», continuò Odino. «Non possiamo sapere cosa ne ha fatto di Loki».
«Loki non è un asgardiano», precisò Khalida.
Un silenzio glaciale serpeggiò tra i presenti, fino a che Thor non ruppe la propria immobilità.
Affiancò Khalida, allontanandosi dal giaciglio del padre. «Desidero scoprirlo, Padre. Non possiamo sapere quando Thanos attaccherà di nuovo e noi abbiamo il dovere di proteggere il popolo. Ad ogni costo».
«Non mi ingannerai facendomi credere che vuoi trovare Loki per il bene del popolo. Lo fai unicamente per te stesso. Non sei molto diverso dal ragazzo egoista che esiliai sulla Terra poco tempo fa», infierì Odino, cedendo subito dopo a un colpo di tosse secco che venne seguito subito da molti altri.
Lady Amora si affrettò a porgere una coppa colma di liquido trasparente al Padre degli Dei, mormorando ancora qualcosa che Khalida non riuscì a sentire. Odino sembrò ascoltarla con attenzione, e annuì un paio di volte, abbandonando il capo contro i guanciali alle sue spalle.
«Cosa succede?», chiese Thor con ansia, forse per il litigio, forse per l'improvviso pallore che si era fatto strada sul volto rugoso del padre.
Amora raddrizzò le spalle. «Vostro Padre ha bisogno di riposare, è ancora debole», spiegò, voltandosi. «Andiamo a discutere in un luogo più consono», li incitò, accennando con il capo alla porta.
Tentennando, Thor spostò più volte lo sguardo tra l'Incantatrice e il Padre, ma questi sfuggì il suo sguardo e, dopo pochi secondi, parve assopirsi definitivamente.
Ad un gesto secco di Amora, i soldati di guardia chiusero i pesanti battenti sul volto preoccupato di Thor, che rimase imbambolato per qualche secondo, risucchiato in pensieri troppo oscuri, per il solare Dio del Tuono.
«Cosa diavolo succede?», domandò a mezza voce, quasi rivolto a sé stesso.
Amora gli posò delicatamente una mano sulla spalla.
«Vostro padre è molto provato, Principe. Si è risvegliato troppo presto dal suo Sonno, e ora il suo giudizio sembra annebbiato. A volte chiama ancora il nome della Regina, come se non rammentasse gli ultimi avvenimenti», spiegò, con voce calma, venata di preoccupazione sincera.
«Cosa dicono i guaritori?», chiese Thor.
«Stanno facendo ciò che la loro arte gli consente di fare», sospirò la donna. «Ma il Padre degli Dei ha molti anni sulle spalle e, per quanto longevi, non siamo immortali».
Il Dio del Tuono si voltò improvvisamente, fronteggiando la donna con un'espressione improvvisamente piena di rabbia. «Cosa sta cercando di dirmi, Lady Amora?».
La donna non sembrò turbarsi. «La responsabilità è su di te, Thor», disse, passando improvvisamente al tu, con una naturalezza che Khalida notò immediatamente. «Odino non è in grado di guidarci in questo momento, e ora Asgard conta solo su di te. Le tue decisioni avranno effetti diretti su tutti i Nove Mondi».
Reagendo con una solidità che Khalida non gli aveva mai attribuito, Thor raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. «Ne sono consapevole».
«Ritieni che cercare Loki sia il miglior modo di agire?», domandò Amora.
«Sì», replicò immediatamente il Dio del Tuono.
Gli occhi verdi della Dea lampeggiarono. «Allora ti appoggerò. Penso come te che le conoscenze del Principe Loki possano aiutarci a comprendere la situazione. In più, se è ancora in possesso del Tesseract, il suo potere ci darà un grosso vantaggio».
«Thanos vuole Loki, portandolo qui ce lo attireremo addosso», protestò Fandral.
Lady Amora lo fulminò con un'occhiataccia. «È proprio questo il piano. Se sappiamo dove attaccherà, e perché, sarà più facile creare una controffensiva efficace».
Thor annuì. «Desidero che richiami i nostri alleati, Lady Amora. Avremo bisogno di tutto l'aiuto possibile», disse, con tono solenne. «Thanos potrebbe attaccare da un momento all'altro».
«Li convocherò con la scusa delle esequie della Regina», annuì l'Incantatrice.
Volstagg colpì Fandral con una gomitata. «Avevo proprio voglia di una bella guerra. Mi mettono appetito», ridacchiò, sottovoce.
Khalida si schiarì rumorosamente la voce, attirando l'attenzione su di sé.
«State dimenticando una cosa», disse.
«Cioè?», domandarono Thor e i Tre Guerrieri in coro.
Khalida sorrise, con fare quasi conciliante. «Prima dobbiamo riuscire a trovare Loki».
Gli asgardiani si guardarono a vicenda, come cercando qualcosa da dire.
Fu Amora a rompere gli indugi. «Come hai intenzione di farlo, umana?».
Khalida picchiò lentamente un dito sull'estremità luminosa di Match. «Con questa. Quando me la diede, Loki disse che avrebbe potuto rintracciarmi finché l'avessi tenuta con me. Presumo che valga anche il contrario».
Amora strinse leggermente gli occhi, come se dubitasse delle parole di Khalida, ma non disse niente.
«Cosa ti serve, Khalida?», domandò Thor.
La donna ammiccò. «Un letto, e del cibo... tanto cibo».
Volstagg si animò dondolando sui talloni, sfregando il ventre prominente con le mani. «A quello ci penso io! Vedrai umana, nessuno è più esperto di me su Asgard».
Le risa di Thor e dei suoi compagni riecheggiarono tra le pareti dorate, scacciandone via, almeno per qualche attimo, tutto il dolore e il rimpianto.

Chiusa in quella stanza che le ricordava drammaticamente una scatoletta di sardine, il tempo sembrava non passare mai. Solo un lieve attenuarsi delle luci alogene segnava la differenza tra giorno e notte e, con una buona dose d'intuito, Ivy immaginava che fuori il sole stesse per sorgere. Immobile, seduta al centro del materasso a gambe incrociate, respirava a fondo, come le aveva insegnato Khalida, per calmarsi ed espandere i polmoni.
Non aveva dormito molto, tormentata da mille interrogativi.
Naturalmente, dopo averla acciuffata, i Vendicatori non avevano voluto darle una sola risposta.
In compenso, le avevano rivolto un milione di domande inutili, ma lei era rimasta muta.
Non vedeva perché avrebbe dovuto degnarli di maggiore considerazione di quella che loro mostravano a lei.
Esasperati e sfiniti, i Vendicatori si erano limitati a consegnarla nella mani di Coulson e a sparire.
Solo Steve Rogers aveva esitato un attimo, rivolgendole uno sguardo intenso, vagamente intenerito. Quasi si fosse reso conto solo in quel momento che quella che avevano bistrattato in fondo era solo una ragazzina, le aveva domandato se si sentisse bene.
Ed Ivy era scoppiata a piangere come una bambina, in modo incontrollato.
Phil, di solito sempre presente e puntuale si era ritrovato completamente spiazzato, ed era stato Steve a prendere in mano la situazione, mettendo una mano sulla spalla della ragazza e accompagnandola in silenzio lungo il corridoio, mentre Coulson gli faceva strada.
Anche se gli era stata grata per quella considerazione, Ivy era un tale concentrato di rabbia e delusione, che non era riuscita a dire una parola. Si era chiusa la porta metallica della stanza alle spalle, gettandosi sul letto e affogando le urla e gli insulti nelle piume del cuscino.
A distanza di qualche ora, si sentiva più calma, ma lo stesso quella rabbia pungente la tormentava da quando aveva smesso di essere una bambina e che in quegli anni credeva di aver sconfitto, le pungeva sottopelle, pronta ad uscire.
Scalciò con decisione la coperta dalle gambe e si alzò, indossando in fretta un paio di pantaloni da yoga neri e una canotta larga dello stesso colore. Aveva bisogno di muoversi, e questo nemmeno Fury poteva impedirglielo.
Aprì la porta di scatto e, senza capire bene come, qualcuno le rovinò addosso, lanciando imprecazioni a caso.
In un groviglio di braccia e gambe, Ivy tentò di alzarsi, inutilmente.
«Ma che diamine fai?», la rimproverò una voce profonda ma con qualcosa di adolescenziale, come i ragazzi che sono appena entrati nella pubertà.
«Eri tu che dormivi appoggiato alla porta, idiota!», scattò Ivy, rabbiosa, fulminando il malcapitato con un'occhiata assassina.
Lo riconobbe quasi immediatamente.
Era l'agente che le aveva sorriso, prima di accompagnarla sul jet ad Haiti. Ora che lo vedeva da vicino, sembrava davvero giovane, forse non aveva più di venti o ventidue anni.
Il giovane agente si schiarì la voce, sottolineando con un movimento delle sopracciglia il fatto che Ivy era praticamente seduta sul suo braccio.
Arrossendo, Ivy si scostò, pur mantenendo l'espressione irritata. «Che diavolo ci facevi davanti alla mia porta?», domandò alzandosi in piedi, imitata in fretta dal giovane.
«È il mio lavoro», si difese l'agente, spolverandosi i pantaloni della divisa.
Ivy aggrottò le sopracciglia. «Cioè?».
Il ragazzo si passò una mano tra i corti capelli rossicci. «Bé... sono la persona più giovane di questa base. E l'agente Coulson ti ha affidata a me, mentre lui è impegnato con questioni più... urgenti», spiegò, nascondendo un lieve sorriso furbo.
Ivy sbuffò. «Quindi sei il mio baby sitter», concluse, con tono acido, ravvivandosi i capelli. Fissò il ragazzo in tralice, poi rilassò le spalle.
«Come ti chiami?».
«Agente Whedon», replicò, ma all'occhiataccia della ragazza, si affrettò ad aggiungere. «Drew».
Ivy incrociò le braccia. «Bene Drew. Ora, se non ti dispiace, io vado a correre», annunciò, facendo il gesto di uscire dalla stanza.
L'agente Whedon la fermò per il braccio. «Non puoi andartene in giro da sola», protestò.
«Allora vieni con me», ammiccò Ivy, provocando un lieve rossore tra le lentiggini rosate del giovane agente.
Il ragazzo recuperò in fretta un contegno. «È meglio che tu non vada in giro a correre per i corridoi. Alcuni di noi sono... suscettibili».
Ivy ripensò al modo in cui la Vedova Nera l'aveva sbattuta contro le pareti dell'ascensore. «L'ho notato», masticò, a mezza voce.
Drew sembrò non capire, ma preferì tacere. Precedette Ivy fuori dall'alloggio. «C'è una palestra su questo livello. Se proprio ci tieni, posso accompagnarti», propose, con una sorta di cautela educata che Ivy apprezzò immediatamente.
«Fammi strada», annuì, ritrovando, almeno per un attimo, qualcosa di cui sorridere.

Per la maggior parte della sua vita Ivy non aveva avuto nessuno accanto, nessuno che le dicesse cosa era meglio fare, come comportarsi e come interpretare ciò che le accadeva.
Come la maggioranza delle persone cresciute completamente abbandonate a sé stesse, Ivy aveva un carattere diffidente, aggressivo e solitario. Con la cocciutaggine dell'adolescenza, aveva respinto tutte le persone che aveva tentato di aiutarla, ferendole per convincerle che non meritava niente di buono, dato che la vita aveva scelto di toglierle tutto.
Solo Keira, con la sua pazienza e l'incredibile realismo con cui affrontava la vita, era riuscita a farla aprire, facendo emergere la sua vera indole, trasformando quel grumo di rabbia che Ivy portava sempre con sé in una forza d'animo che non avrebbe mai creduto di possedere.
La gratitudine che la ragazza provava nei confronti di Khalida, nonostante la delusione iniziale che aveva provato scoprendo la verità su di lei, non conosceva nessun confine, perché senza di lei non aveva idea di dove sarebbe finita.
Probabilmente morta ammazzata, oppure invischiata in qualcosa di addirittura peggiore.
Haiti non era certo un paradiso, e per una ragazza di strada come lei, le probabilità di sopravvivenza non erano mai state molto elevate. Ivy se l'era cavata bene, inventandosi i modi più disparati per sopravvivere, ma lei aveva sempre avuto la sensazione di camminare su un filo molto sottile, costantemente indecisa su quale fosse il limite da non attraversare mai.
Khalida, invece, le aveva insegnato un modo diverso di vivere, qualcosa di più che il semplice continuare a respirare e quel filo sottile era diventato improvvisamente una strada sicura, fatta per essere percorsa in due.
Durante lunghe conversazioni, e anche con il suo esempio, Khalida le aveva trasmesso una filosofia di vita che scrutava il significato profondo delle azioni senza classificarle secondo un concetto canonico di bene e male, ma basandosi su qualcosa al di là, qualcosa che era più correlato al rispetto di sé stessi, e della propria natura.
In fondo non era riuscita ad odiare Khalida per averle mentito perché, in modo viscerale, sapeva che niente di tutto quello che le aveva insegnato era una falsità, che l'unica cosa che le aveva davvero nascosto era stata il proprio nome, mentre tutto il resto, in un modo e nell'altro, glielo aveva trasmesso sinceramente.
Per cui, anche ora che erano separate per la prima volta, Ivy aveva intenzione di onorare tutto ciò che Khalida le aveva insegnato, a cominciare dall'allenamento mattutino che facevano insieme, che consisteva in cinque chilometri di corsa. Avrebbe preferito correre nuovamente sulla spiaggia, con la rilassante risacca dell'oceano nelle orecchie, piuttosto che farlo su uno sterile tapis roulant sotto la sorveglianza vigile, e anche un po' divertita, dell'agente Whedon, che non le staccava gli occhi di dosso, ma poteva accontentarsi.
L'attrezzo sotto di lei emise un lieve bip, annunciando la fine della sessione di allenamento ed Ivy rallentò il passo a ritmo con il nastro, respirando profondamente e godendosi la sensazione del sudore che le colava lungo il viso e la schiena. Si sentiva meglio ora, più lucida.
Massaggiandosi la nuca per sciogliere il nodo rigido di tensione che si era accumulato durante la notte insonne, scrutò Drew da sotto le ciglia. Forse era un bene che le avessero messo alle calcagna un ragazzo tanto giovane, che più di una volta l'aveva guardata dove non avrebbe dovuto.
Se giocava bene le sue carte, avrebbe potuto ottenere da lui parte delle informazioni che voleva. «Cosa fai, quando non sei impegnato a fare il baby sitter?», chiese, con tono leggero, concedendogli un sorriso.
L'agente esitò un attimo, ed Ivy lo incalzò. «Lavori con Coulson?».
«No. Lui è un pezzo grosso. Io sono solo un ingegnere informatico», replicò Drew, muovendosi nervosamente da un piede all'altro.
Ivy si pettinò i capelli con le dita. «Suona noioso», brontolò.
Lui sorrise. «Non sempre», ammiccò.
Lei gli si fece più vicina.
«Che ne dici di raccontarmelo mentre mi accompagni a fare colazione?».

Qualche metro sopra Ivy e l'agente Whedon, Clint Barton osservava la scena con un lieve sorriso sulle labbra.
Seduto a cavalcioni di una delle travi che sostenevano le grosse lampade a led che illuminavano la palestra, riprese a giocherellare con una delle sue frecce, facendola ruotare nel palmo della mano solo con dei lievi movimenti delle dita.
Alle sue spalle, passi leggeri annunciarono l'arrivo di Natasha lungo la passerella di metallo.
Clint ormai ne sapeva riconoscere la camminata, e provava uno strano misto tra orgoglio e gratitudine per il fatto che solo con lui Natasha si concedeva di essere rumorosa.
Per il resto del mondo, la Vedova Nera era perfettamente invisibile, silenziosa e letale.
Aspettò che lei gli si accomodasse accanto, prima di voltarsi.
Era in borghese, stretta in un'anonima tuta scura, i capelli rossi sciolti sulle spalle in onde confuse, agitate come le onde del mare.
Qualcosa si mosse all'altezza del suo stomaco.
All'inizio aveva associato i suoi sentimenti per Natasha, anche se forse sarebbe stato più corretto parlare di pulsioni, ad una naturale conseguenza della sua glaciale bellezza. Qualcosa di puramente fisico, quasi biologico, che sarebbe svanito con l'abitudine, man mano che si sarebbe assuefatto alla sua presenza.
Ma l'assuefazione non era mai arrivata, presto rimpiazzata da una sorta di dipendenza venefica.
Nel corso del tempo era dovuto ricorrere a vari espedienti per passare lunghi periodi lontani da Natasha, come accettare missioni dall'altra parte della pianeta ed evitarla del tutto nei momenti in cui si sentiva più vulnerabile.
Avere una relazione con una collega non era proibito dalla regole dello S.H.I.E.L.D., ma fortemente sconsigliato*, e Clint, benché non si ritenesse una cima, era in grado di leggere tra le righe.
Ciò che provava gli avrebbe solo intralciato il lavoro, e la sua stessa vita di conseguenza, per cui si era adoperato per soffocare ogni briciolo di attrazione che sentiva per Natasha.
Poco importava se lei lo ricambiasse o meno, quei sentimenti andavano decisamente accantonati, per il bene di entrambi.
Poi era arrivata Budapest, e le cose erano diventate improvvisamente chiare come il sole.
Da diversi mesi era lontano dalla base, rimasto confinato nel sud est asiatico per più del necessario, quando Fury l'aveva richiamato per fornire supporto tattico all'agente Romanoff, rimasta impantanata in un operazione sotto copertura finita male.
La sparatoria che avevano scatenato per coprire la loro fuga era degenerata, e si erano ritrovati in trappola, stretti tra due ali di fuoco ostile. Per uscire dalla situazione ingarbugliata in cui erano finiti Clint aveva fatto una valutazione troppo frettolosa ed avventata.
Arrogante, l'avrebbe definita la Vedova Nera, nel successivo rapporto.
Per coprirlo Natasha si era esposta al fuoco nemico ed era stata colpita alla schiena.
La squadra di supporto era arrivata giusto in tempo per evitare il peggio.
Benché la ferita di Natasha non fosse grave, poco più di un graffio, vederla sanguinante per un suo errore, gli aveva scatenato una girandola di sentimenti che erano sfumati velocemente da un bruciante senso di colpa ad una una rabbia feroce, violenta e incontrollata.
Gli agenti più giovani di lui l'avevano dovuto tenere fermo, impedendogli di scagliarsi su uno dei responsabili del ferimento di Natasha.
Quando era riemerso dalla nebbia rossa della furia, Clint si era sentito svuotato, consapevole che tutti quei mesi di lontananza non erano serviti a niente.
Lui, considerato uno degli agenti di punta dello S.H.I.E.L.D., aveva una debolezza, una di quelle che prima o poi finisce per ucciderti.
In un lampo di lucidità, quasi un'illuminazione, aveva realizzato cosa fosse davvero quel groviglio di sensazioni che Natasha era in grado di scatenargli dentro.
E l'unica soluzione gli era sembrata, paraddosalmente, la fuga.
Si era eclissato in nuove missioni e prima degli avvenimenti di New York, non l'aveva più rivista.
Dopo il suo ricalibramento cognitivo fra loro si era instaurata nuovamente una confidenza appena superiore a quella normalmente esistente tra semplici colleghi, ma entrambi erano consapevoli del nuovo muro che l'arciere aveva eretto fra loro e Natasha sembrava rispettarlo, se non addirittura apprezzarlo.
Apparentemente, la tecnica stava funzionando.
Durante la battaglia di Los Angeles, quando aveva rischiato di perderla di nuovo, la pietosa scena di Budapest non si era ripetuta, anche se solo lui sapeva quanto aveva dovuto combattere per non far trapelare ciò che stava passando durante le lunghe ore d'attesa, in cui la vita di Natasha sembrava appesa ad un filo.
La risata acuta della ragazzina, Ivy, salì fino a loro, interrompendo i pensieri di Clint.
Natasha stirò lentamente le labbra in un sorriso freddo. «Sembra che l'abbia presa abbastanza bene», commentò.
Clint gettò uno sguardo indifferente verso il basso, seguendo l'uscita di scena di Ivy e dell'agente Whedon. «Non capisco perché Fury abbia deciso di tenerla qui», disse invece.
Natasha scrollò il capo, e la punta dei suoi capelli sfiorò la spalla di Occhio di Falco.
«Tu ragioni da combattente, come al solito», lo rimbrottò, con fare pigro. «Fury è uno stratega, e sa perfettamente come tratte il maggior vantaggio possibile da ogni circostanza», espose, con logica disarmante.
Su una cosa non c'era dubbio, Natasha sapeva sviscerare le persone con una sola occhiata. «Cosa intendi?», le chiese.
«La ragazza è merce di scambio. Finché Fury l'avrà in pugno, lo sarà anche Khalida Sabil».
L'agente Barton aggrottò le sopracciglia.
Il ragionamento non faceva una piega, era spietatamente lucido e limpido, pericoloso come un veleno potente. Ma era inumano, e nonostante la sua lunga carriera piena di ombre, Clint si sentiva ancora un essere umano in tutto e per tutto. Ed era fiero che quell'umanità lo portasse ad avere ancora un minimo di sensibilità.
«Non ti riferisci solamente al ricattare Khalida, vero?», indagò.
Natasha raddrizzò la schiena, impassibile lo guardò in volto. «Hai visto come ha sfilato quel fascicolo dalle mani di Stark? Ha talento. Con un po' di lavoro, diventerebbe una brava agente».
Qualcosa dentro Clint si ribellò. «Ho letto il suo fascicolo, quella ragazza merita di essere lasciata in pace. La sua storia è orribile».
La Vedova Nera lo freddò con un'occhiata gelida.
«Non lo è quella di tutti noi?».
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* questo concetto non è mio ma viene dalla bellissima One Shot di Evilcassy Washing The Spider Out, leggetela, anche se non siete fan dei Clintasha, perché merita davvero.

Qualcuno probabilmente storcerà il naso di fronte alla mia interpretazione di Malekith, ma ho preferito rappresentarlo così, accumunandolo, almeno per situazione di partenza, a Loki.
La spiegazione sulla natura dei Chitauri è completamente di mia invenzione e personale.
Per la parte asgardiana... so che Odino sembra un vecchietto con la demenza senile... tutto sarà chiaro con il tempo.

L'agente Whedon, naturalmente il cognome è un tributo a Joss Whedon regista di The Avengers, nel mio immaginario è il giovane agente che gioca a Gallaga e che viene sgamato da Tony in The Avengers. è un personaggio di "riempimento" volevo dare ad Ivy una controparte giovane con cui confrontarsi.

La parte finale... adoro letteralmente Clint, è stata il personaggio di Avengers che più mi ha colpito, quello di cui mi è rimasta la curiosità di sapere di più, e sono contenta di essere riuscita a dargli questo piccolo spazio. non sono una fan accanita della clintasha, ma ho voluto mantenermi fedele ai fumetti, in cui comunque Clint è innamorato di Natahsa, almeno per un periodo. Ho preferito mantenermi sul vago per quanto riguarda la vedova nera, forse affronterò in seguito l'argomento, forse no...

Ok, è tutto, spero che il capitolo vi piaccia, al prossimo capitolo!! (che spero non arrivi fra un mese!)

PS: dimenticavo, il 27 luglio sarà un anno che ho iniziato questa trilogia, volevo ringraziare tutti quelli che mi seguono dall'inizio, chi si aggiunto nel frattempo e chi continua a sostenermi, Red Sayuri!
Un bacione!
  
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