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Autore: BlueSkied    15/07/2013    1 recensioni
La notte dell'Epifania del 1537 Alessandro de'Medici, detestato duca di Firenze viene assassinato dall'amico e congiunto Lorenzaccio de'Medici.
Tocca allora a Cosimo de'Medici, figlio del capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere ed erede del ramo popolare della famiglia, prendere il potere.
Tra raffinato mecenatismo artistico, nuove politiche e disgrazie familiari, condurrà la Toscana verso il Granducato, con la cauta inesorabilità del suo motto.
Note: mi sto documentando il più possibile, per rendere la storia verosimile, ma qualcosa potrebbe sfuggirmi, anche perché spesso le fonti si contraddicono.
Per finalità di trama, alcuni passaggi potrebbero essere violenti.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Rinascimento
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11.


Febbraio 1548



La nota giunse a tarda sera.
Il duca rilesse un paio di volte le poche righe consegnate dal suo fedele cameriere, Sforza Almeni. Nel ricevere la lettera, Cosimo aveva alzato lo sguardo sul servitore, che innegabimente ne conosceva il contenuto. Si era chiesto se lo stesse giudicando, in cuor suo, e si era detto che era un vero peccato non poter indagare nel pensiero, come si faceva con le azioni.
Per quanto avesse desiderato quella notizia, si accorse di non provare nessuna gioia. Era un successo che non dava vera soddisfazione. Però, andava fatto, ammise, ragionando logicamente, come sempre faceva. La logica voleva che lui, il duca, anteponesse l'onore e lo Stato anche a sé stesso.
Lorenzino era un traditore: da Medici, aveva versato, impunemente, il sangue di un altro Medici per consegnare lo Stato ai nemici della famiglia. In questo caso, il suo assassinio si poteva definire giustizia, non vendetta.
Il duca ripiegò la lettera e la unì al resto del carteggio giornaliero. Aveva imparato presto il valore delle parole, e di quanto di quelle troppo ornate si dovesse diffidare, e " Giustizia " non era che un ornamento di " Vendetta ", questa volta. Sapere Lorenzino ancora libero dopo undici anni era insopportabile. Non certo per affetto verso il morto Alessandro, ma per tacitare possibili accuse, prima ancora che potessero prendere forma.
Il suo potere nasceva dal sangue versato, questo non poteva dimenticarlo. Se non avesse agito contro il traditore, si sarebbe potuto pensare che lui c'entrava qualcosa col vecchio delitto.
- Siete stati due idioti - disse fra sé, a voce alta, come se li avesse davanti, Alessandro e Lorenzino, entrambi trafitti dalle spade che avevano posto termine alle loro esistenze.
Il secondo, se possibile, era stato più idiota del primo: si era atteggiato a difensore della libertà e aveva scritto una apologia per sé stesso. Ancora parole, che non gli erano servite a nulla. Perché nessun Medici poteva spargere di sua mano il sangue di un altro Medici.
Ed era scappato, come una lepre tallonata dai cani, era corso nelle braccia dei nemici della casata, traditore, traditore del proprio sangue!
Come poteva, adesso, Cosimo nobilitare col nome di giustizia la sua vendetta?
Aveva fatto promesse, si era affidato a due disgraziati e ai suoi legatari, perché compissero quell'ordine. Doveva difendere lo Stato e la famiglia, queste erano le sue intenzioni e questo sarebbe stato detto e pensato, ma lui, nella sua coscienza, sapeva com'era la reale disposizione dei suoi intenti.
Lorenzino era stato un idiota, abbagliato dagli ideali e dalle false rassicurazioni dei suoi protettori, avversi al suo nome ma non a lui, che aveva reso loro quel piccolo favore. Ma poi nessuno si era speso per difenderlo, perché nessuno vuole mai veramente sporcarsi le mani con gli esecutori materiali dei misfatti. Idiota, idiota mille volte.
- Così bravo con i versi e con la poesia, così ingenuo da fidarti di chi ti manovra. Ti sei ammazzato da solo - lo rimproverò Cosimo, sperando davvero che lo sentisse, dalle profondità dell'Inferno.
Anche quando erano ragazzi, Cosimo spesso riprendeva il cugino di cinque anni più grande, per quella sua volatilità di cervello, quel suo affidarsi ai palpiti del cuore e alla passione. Mai poteva immaginare che un giorno egli sarebbe stato ucciso per suo ordine, per mettere i conti a pari. Vendetta, nient'altro.
Cosimo de'Medici guardò fuori dalla finestra delle sue stanze e si chiese se fosse troppo tardi per far visita alla moglie a quell'ora. Non poteva pregare, per non commettere ipocrisia, quindi doveva affidare la sua anima alla sua ancora terrena. Ma Eleonora odiava essere svegliata nel mezzo della notte. Nessuna notizia che si nasconde alla luce può essere buona, gliel'aveva detto spesso.
L'aveva imparato qualche mese dopo essersi sposata, quando nella notte era arrivata una lettera che le annunciava la morte di sua madre, l'aveva ribadito l'estate prima, quando una serva, nella notte, le aveva detto che il loro bambino, Pedricco, si era addormentato e non più svegliato. Era il suo primo figlio perduto, e solo la nascita di Garzia, un mese dopo, l'aveva consolata. In effetti, aveva ragione: solo le cattive nuove si presentano con le tenebre.
Decise di lasciarla tranquilla: le avrebbe raccontato tutto l'indomani. Che almeno il suo sonno potesse essere sereno.

L'amore aveva tradito Lorenzino, come in una tragedia.
Viveva a Venezia già da qualche anno, sospettando di essere seguito e spiato dagli agenti del duca di Firenze, così si faceva chiamare messer Marco, e usciva sempre accompagnato, e mai se non era necessario.
La sua dannazione si presentò nelle sembianze della moglie di ser Zantani, un musicista, donna Elena Barozzi.
Così bella da essere diventata ispirazione per poeti, artisti, e intellettuali, folgorò Lorenzino de'Medici, che dimenticò ogni prudenza e cominciò a farle la corte.
Era riuscito a conquistarla, dopo grande fatica, e questo gli metteva i paraocchi. Non gli importava più dell'ira del suo lontano cugino, entrava e usciva dal palazzo dell'amata, ignaro degli occhi che lo seguivano.
Quella mattina del 26 Febbraio 1548, fu con animo scevro di devozione che Lorenzino s'inginocchiò davanti all'altare della chiesa di San Polo. Sapeva Elena sola in casa, e smaniava per correre da lei. Quasi non ascoltò le parole di salvezza, l'animo proteso nell'inganno dei sensi e nel richiamo da sirena della passione.
Appostati sotto un portico di fronte a San Polo, i sicari attendevano, anche loro in tumulto. Ebbri del coraggio vile che precede l'omicidio, non si guardavano fra loro: temevano di perdere la decisione, e quel compito era tutto.
Non sognavano le grazie di una nobildonna, Cecco e Bebo, ma una torre, quella che svettava nel cuore della loro città, Volterra.
Lontani da casa da troppo tempo, per colpe che li avevano inimicati alla giustizia ducale, potevano riscattare le loro vite, compiendo quell'atto di vendetta. Avevano il perdono assicurato, e uccidere non era poi così difficile. Si illusero anche di stare compiendo un'azione valorosa: assassinare un assassino. Le loro mani non tremarono più nello stringere l'impugnatura delle spade corte. Le campane iniziarono a suonare, annunciando la fine della messa.
Lorenzino era insieme a suo zio, Alessandro Soderini. Ancora assorto nei suoi vagheggi d'amore, non vide i due strisciargli alle spalle.
Suo zio fu più pronto, e accortosi del pericolo, s'intromise. Cecco gli urlò di togliersi di mezzo, ma l'uomo volle lottare: afferrò l'assassino per la giubba e gridò a Lorenzino di scappare. Cecco si fece prendere dal panico e accoltellò chi lo tratteneva.
- Salvati, Lorenzo! - esalò Soderini, scivolando a terra, sanguinante. Il giovane si voltò, atterrito e disarmato, poi si mise a correre, verso la casa di Elena. Bebo lo atterrò, facendolo cadere in ginocchio, ma Lorenzino riuscì a rialzarsi.  I sicari gli furono addosso insieme, trafiggendolo in un istante.
Lorenzino de'Medici sentì i loro passi dileguarsi in tutta fretta, mentre cadeva e gli occhi gli ri rovesciarono indietro. Il cielo era coperto di nubi.

Elena sentì le urla.
Incurante della gravidanza, corse al balcone, e poi giù, in piazza. Non c'era nessuno, tranne due corpi a terra e una manciata di persone loro intorno. Una donna in età reggeva tra le braccia uno dei cadaveri. Era l'unica a non piangere, benché il sangue del morto macchiasse il suo abito vedovile. Stringeva il corpo dell'unico figlio con lo sguardo perso nel vuoto e lo alzò solo quando sentì l'altra donna avvicinarsi.
Maria Soderini non sapeva che quella fosse l'amante di Lorenzino, ma non si chiese perché era lì. Non gl'importava più nulla, ormai.
Lasciò che Elena si chinasse accanto a lei. La giovane non trattenne le lacrime: coprì il viso dell'amante con il suo velo, e rimase in silenzio.
  
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