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Autore: alwaysbeenweird    15/07/2013    1 recensioni
"Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”
Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime."
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Non ho lasciato solo il piccolo Peter, tranquilli, c'è il suo angelo Jesse dagli occhi azzurri, seppur velati, che lo aiuterà a vivere. E che gli insegnerà ad amare gli altri e se stesso.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Hey there Delilah, what's it like in New York City? I'm a thousand miles away but girl tonight you look so pretty, yes you do...
Times Square can't shine as bright as you, 
I swear it's true...
Quel giorno, durante l'ora di svago, alla radio passavano la canzone "Hey there Delilah" dei Plane White Ts'. Non che Peter la conoscesse, si limitava a sentire i titoli delle canzoni che venivano trasmesse alla stazione radio meno conosciuta al mondo e a scriverli su un taccuino.
Forse era per ammazzare la noia. 
Forse perché quella stazione dimenticata dal Mondo gli piaceva particolarmente. 
Che discorsi! Semplicemente non ho nulla da fare, si era detto.
Però sentiva che c'era qualcosa di più. 
Da quando aveva visto quel ragazzo in cucina qualcosa l'aveva assalito. Una sensazione strana, mai provata prima. 
Percepiva un cambiamento nel suo stesso essere, una gioia che si alternava alla malinconia. O forse che si fondeva alla malinconia. 
Era strano sentirsi così, erano sentimenti già provati, -magari solo la malinconia- ma che mai avrebbe pensato si potessero fondere. 
Si chiedeva se fosse merito di... Jess? era così che si chiamava? oppure dei sedativi che gli davano quando aveva le crisi. 
Sì, aveva iniziato ad averne. 
E sì, cominciava davvero a pensare di essere pazzo.
Qualcosa che non andava in lui c'era sempre stato, ma era stato taciuto al Mondo sin dalla nascita, e ora che stava venendo fuori... non sapeva davvero come affrontarlo. 
Il mostro lo spaventava. Non sapeva come reagirgli. Non riusciva più a nasconderlo, a respingerlo, a reprimerlo e chiuderlo dentro di sé. 
E come se la situazione non fosse stata già abbastanza complicata ora ci si metteva anche quel ragazzo. Quel ragazzo e quei dannati occhi. 
Si era dato dello stupido subito dopo aver affermato che era bellissimo. Non era gay, dannazione. Non era nulla. Non poteva innamorarsi, o provare attrazione fisica o sentimentale per qualcuno. Il solo pensiero lo spaventava e lo obbligava a mettersi sull'attenti. Sarebbe stato troppo pericoloso. Per se stesso e per la persona interessata. Non sarebbe stato possibile, per lui, amare qualcuno senza metterlo in pericolo. 
Sicuramente il mostro avrebbe fatto di tutto per uscire e ucciderlo con le sue mani. Si sarebbe impossessato del suo corpo e avrebbe risucchiato la sua volontà in un buco nero, facendo sì che ogni pensiero, ogni tentativo di respingerlo, fosse inutile.
Non poteva assolutamente provare qualcosa per qualcuno. Non doveva interessarsi a niente al di fuori di se stesso. 
E, se possibile, nemmeno a quello. 
"E ora, dopo lo sketch comico di quei deficienti che ci ritroviamo in radio, passiamo With ears to see and eyes to hear degli Sleeping With Sirens!"
Pete, riscossosi dai suoi pensieri, scrisse il titolo della canzone e il nome del gruppo sul taccuino, poco prima che la voce del cantante iniziasse a infiltrarsi nelle sue orecchie.
"True friend lie underneath, this witty words I won't believe, I can't believe a damn thing they say anymore..."
Il ritmo gli riportò alla mente qualcosa, poi arrivò la parte successiva a scuoterlo completamente.
"Li-Li-Liar! Liar you'll pay for you sins.. 
 so tell me, how does it feel? How does it feel to be like you?
 I think your mouth should be quiet, 'cause it never tells the truth now!"
Ebbe un sussulto. Certo che gli era familiare, era la canzone che stava cantando Mike poco prima di avere la crisi. 
Dannato bugiardo cronico, aveva bisbigliato nel più piccolo dei sorrisi. Dopo quella volta era stato messo in isolamento. 
A Pete non era sembrato nulla di grave, ma a quanto pare i medici non la pensavano allo stesso modo. 
Gli mancava il suo compagno di stanza, anche se faticava ad ammetterlo persino a se stesso. Michael era una delle poche persone ancora vive che aveva visto da quando era entrato lì dentro. 
Tutti gli altri sembravano degli zombie ambulanti. 
Accecati dalla luce di un sole che lì nemmeno c'era. 
Schifose finestre.
Quasi non permettevano di far passare l'aria quei buchi quadrati o rettangolari scavati nel muro. Per non parlare della luce del sole, che filtrava a stento. 
Gli sembrava di essere intrappolato sotto una cupola di cemento, magari fosse stata di vetro, almeno avrebbe potuto vedere ciò che c'era intorno. Ora si trovava invece semplicemente rinchiuso in un cerchio di pietra freddo e duro.
Aveva spento la radio e stava sdraiato sulla poltrona di pelle tarocca marrone posizionata nel centro della sala del "centro ricreativo" -o come cavolo lo chiamavano- e giocherellava con la penna. 
Spingeva il pulsante per far uscire la mina e lo lasciava andare. 
Lo pigiava nuovamente e poi toglieva il dito.
Andava avanti così da circa un quarto d'ora. Gli piaceva il movimento che faceva, su e giù, ritmico, e il rumore della molla che veniva compressa e che poi scattava, libera. 
I muri della sala del centro ricreativo erano di un verde sporco, non per via del colore stesso quanto per le manate che i malati vi lasciavano sopra. 
Si guardò intorno. Gente che giocava a Scarabeo. Gli sarebbe piaciuto imparare quel gioco. L'aveva sempre affascinato. 
"Sbullalello!" urlò un uomo sulla quarantina dopo aver messo in fila le sue lettere. 
"Prima cosa, come diavolo hai fatto ad avere così tante lettere L?;
 seconda cosa, quando porca vacca l'hai sentita 'sta parola? Sbulla.. Sbulla-non-so-che-cosa, non esiste! HO VINTO IOOOOO!" rispose l'altro. 
Pete li guardava con la testa inclinata verso sinistra. Era incerto sul da farsi. Ridere o scuotere  la testa in segno di resa davanti a tanta demenza? 
Si alzò dalla poltrona: a quel punto la voglia di imparare a giocare a Scarabeo l'aveva del tutto abbandonato. 
Si diresse verso il corridoio, varcando la porta della sala. 
Per fortuna a quell'ora non c'erano infermiere in giro, sopratutto non quella che aveva scoperto chiamarsi Hannah, e che lo fulminava con lo sguardo ogni volta che lo vedeva in giro -perlomeno da quando aveva, a detta sua, "adocchiato" Jesse-.
Che stronzetta bisbigliò sorridendo. 
Spesso qui mi chiedo se siano più pazzi i pazienti o chi li dovrebbe controllare.
La sala del centro ricreativo era sullo stesso piano della cucina. Tentando di tornare al piano di sopra non poté far a meno di passarci accanto. 
Si fermò un secondo davanti alla porta. Posò la mano sullo sportello, tentando di spingerlo in avanti. 
Si sentiva però privo di forze. Il braccio gli ricadde lungo il fianco.
Abbassò il viso in uno sbuffo. Tornò indietro sui suoi passi, fece le scale non senza prima deglutire più volte e si ritrovò, dopo trentasei gradini e venti secondi di corridoio, nella sua stanza. 
La 307.
Aprì la porta. Vuota. 
Sì, gli mancava decisamente la compagnia di quel deficiente di Michael. Ma era abituato a stare solo, con un padre come quello che si era ritrovato. 
Si sedette sul davanzale, oggi non piove, pensò. 
Poi notò un edificio, proprio accanto all'ospedale.
Era un edificio non troppo imponente, anzi, se visto dalla finestra della sua camera, anche piuttosto basso. Le pareti esterne erano tinteggiate di celeste ed era circondato da miriadi di finestre di vetro.
Lì filtra eccome la luce, si disse Pete. 
Poi vide una finestra aprirsi e una testa sbucare fuori. 
Non era abbastanza vicino da poter distinguere se fosse uomo o donna, alto o basso, o se avesse gli occhi di un colore piuttosto che di un altro, ma notò i riccioli biondi. Boccoli dorati che non avrebbe dimenticato nemmeno per tutto l'oro del mondo, che mai avrebbe potuto eguagliare la loro lucentezza. 
I capelli di Jesse. 
Gli sembrò prematuro, ed azzardato, ma non poté fare a meno di pensare che quei dannati capelli li avrebbe riconosciuti fra mille. E anche quegli occhi, che dalla distanza da cui lo ammirava, non potevano essere scorsi.
E se non fosse lui? si domandò. D'altronde come poteva esserne così certo? L'aveva visto una volta, per puro caso, non sapeva nemmeno cosa ci facesse nel posto in cui l'aveva incontrato. 
Si sentiva così curioso, come quando si era fermato davanti a quella porta, così attirato da lui, come quando l'aveva varcata senza averlo nemmeno mai visto.
Scese dal davanzale con un salto, si scompigliò i capelli corvini con una mano e si avviò a passo svelto verso le scale. 
Questa volta, senza indugio, le percorse, addirittura rapidamente, facendo due gradini per volta, con gli occhi socchiusi per non avvertire i capogiri, riducendo i secondi in cui riusciva a percorrere tutte le rampe a diciotto.
Arrivò così al piano terra, affrontando tutte le scale a chiocciola che incontrava noncurante, troppo curioso, troppo attirato da quell'edificio e da quei capelli dorati. 
Che diavolo gli avevano fatto quei capelli? Erano stati forse una maledizione? O al contrario lo avrebbero salvato dalle pene dell'Inferno? 
Si sentiva così stupido mentre correva verso l'entrata, quasi convinto di poterla varcare senza problemi.
Un uomo sulla trentina, alto e robusto, gli si parò davanti a braccia aperte poco prima che arrivasse alla porta. Lui si fermò di scatto, tornando indietro di riflesso. 
Ancora col fiatone per le scale percorse correndo e il cuore a mille per la voglia di vedere Jesse non riusciva a credere di essere stato fermato pochi secondi prima di riuscire a raggiungere l'obiettivo.
"Pensate tutti che sia così facile uscire di qui? Tsk, poveri illusi!" gli aveva riso in faccia il sorvegliante.
Ecco un altro coglione. Se continuo a incontrarne così spesso perderò il conto. 
Tornò indietro sui suoi passi, con le mani che gli prudevano per l'insistente voglia di prendere a pugni l'ostacolo che gli aveva bloccato l'uscita. 
Si girò nuovamente a guardarlo. Il coglione stava con le braccia incrociate appoggiato alla porta, e lo fissava minaccioso.
"Ah, scusa amico, ho dimenticato di dirti una cosa!" gli urlò quand'era ormai in fondo alla sala, con le mani a coppa intorno alla bocca per amplificare la voce. 
"VAF-FAN-CU-LO!" e la sua voce si ruppe in una risata isterica accompagnata da una sezione di un quarto d'ora di acchiapparella con il sorvegliante che i medici punirono con due dosi di sedativo e l'esonero per due giorni dall'ora di svago. Inoltre, come se tutto ciò non bastasse, iniziò a essere tenuto sotto stretta sorveglianza, per via della mancanza di rispetto che aveva mostrato verso il personale, e sopratutto per il fatto che aveva tentato di scappare. O almeno così era stata interpretata la sua corsa da pazzo furioso verso l'uscita. 
"E che palle! Ma pure mentre piscio? Porco Giuda, volete venire a tenermi il pisello nel caso le mani mi tremassero e mi scappasse via?" 
Non ne poteva più del fiato sul collo degli infermieri, erano così opprimenti. Non era mica invalido. 
Ma guarda tu che rottura. 
Iniziava a mancargli la lametta. 
I riccioli biondi di Jesse l'avevano tenuto lontano dal pensiero per un po', ma poi si era detto dannazione, non sono mica gay io! e il suo caro amico rasoio aveva ricominciato ad essere al centro dei suoi pensieri. 
Il mostro è tornato. Ci ha provato, il caro angioletto, a salvarmi dal buio. Bella presa per il culo.
Da quand'era entrato là dentro si era fatto sempre più volgare. Volgare, cinico e ancor più pessimista di quanto già non fosse, se possibile. 
Però parlava di più. Forse perché lì dentro stavano tutti zitti e lui era abituato a essere diverso dagli altri. Infatti, a scuola, tutti parlavano ed era lui a stare zitto. 
Ammutolito da non si sa quale sconosciuta forza dalla mattina alla sera.
Ma guarda questi che mi rubano pure il mio esser diverso. 
Si chiuse in camera  307, 307, 307 ... aveva iniziato a ripetersi. Era difficile stare lontano da tutto. Per quanto sembrasse apatico, noioso, indifferente, anche lui aveva degli interessi. E aveva una vita, seppur nascosta nel suo cervello. Provava emozioni, anche se non le dava a vedere. Si chiese come sarebbe stato essere normale. 
Come sarebbe cresciuto se avesse avuto una madre, o anche se solo non l'avesse uccisa lui. Magari non avrebbe passato così tante notti insonni torturandosi il braccio e macchiando il tappeto di sangue. Al solo pensiero di quelle gocce che cadevano a terra si rendeva conto che la cosa che gli faceva più male di tutte era l'indifferenza che suo padre mostrava nei suoi confronti. Non si era mai interessato minimamente. 
Nonostante vedesse il sangue su quel dannato tappeto e sulle lenzuola, non si era mai accorto che c'era qualcosa che non andava. O perlomeno aveva fatto finta, di non accorgersene.
Non mi sembra di essere una ragazza e non mi sembra nemmeno di aver mai avuto il ciclo, accidenti a lui.  
Suo padre era solo uno schifoso codardo, ma ormai l'aveva capito e ci aveva fatto l'abitudine.
Si toccò il braccio. Chiuse gli occhi. Passò il dito sulle cicatrici. La prima, nonché la più vecchia, era proprio sul polso, quasi sul palmo. Stava lì, come a segnare l'inizio di una lunga serie di tagli che non sapeva se avrebbe mai avuto un traguardo, profondi o superficiali, dolorosi o dei quali non si era nemmeno mai accorto, segnali che c'era qualcosa di sbagliato, qualcosa che nessuno aveva visto in tempo. 
Si grattò l'avambraccio: fremeva dalla voglia di placare le strane sensazioni che si facevano strada nel suo corpo con la lama - , la bellissima, dolce, pulita, splendente lama - , ma in quel dannato posto anche i coltelli erano di plastica, e le cose più taglienti che aveva trovato erano un foglio di cartoncino e del filo interdentale (che ovviamente aveva solo intravisto nella tasca di un'infermiera, figuriamoci se sarebbero stati imprudenti al punto di lasciarlo in giro, con la gente che tentava il suicidio). 
Niente da fare. Non aveva le unghie abbastanza lunghe da lasciarsi dei graffi, figuriamoci da tagliarsi.
Sbuffò e distese i nervi, i capelli sudati appiccicati alla fronte, il volto grondante, sul collo correvano le gocce che cadevano sul cuscino. 
In un attimo si ritrovò in un letto fradicio, dal quale dovette alzarsi velocemente, per evitare i capogiri e le vampate di calore.
"Grandioso, ora sono una cazzo di donna in menopausa." bisbigliò mentre ansimava. 
"Non ce la faccio. Non sono abbastanza forte, davvero, non ce la faccio." disse scuotendo la testa e premendo le mani contro le orecchie il più forte che poteva per isolarsi. Non era possibile: isolarsi, andare via, scappare all'incubo, alla paura che lo stava assalendo. Era inconcepibile, non c'era via d'uscita. Ma no, non da quel posto, non dal fottuto ospedale, bensì dalla sua vita. Non c'era modo di mettere fine al dolore, di scacciare il mostro, di sopprimere il senso di colpa.  
E voleva smettere di sentire, annullare tutto. 
I rumori, i profumi, i sentimenti... qualsiasi cosa.
O, se proprio non poteva annullare quel tutto così opprimente da schiacciarlo, almeno coprirlo, sovrastarlo, con un sentimento più profondo, un rumore più assordante, un profumo più forte. 
Voleva cancellare dalla sua mente i brutti pensieri, presenti da sempre, a quanto ricordava. 
E la sofferenza accumulata negli anni, nascosta nel profondo, che non aveva dato a vedere mostrandosi semplicemente lo sfigato della situazione. 
Iniziò a singhiozzare violentemente, mentre gemiti e movimenti spasmodici lo assalivano. Mancava poco perché gli infermieri venissero a prenderlo per sedarlo. Pochi secondi perché cadesse in un sonno senza sogni, e di buono c'era che sarebbe stato un sonno pulito, sì, ma di un nero vuoto al punto da spaventare molto più del più terrificante degli incubi. Nonostante tutto andava bene. Per quanto potesse far paura, l'unica cosa che desiderava era mettere a tacere il frastuono che gli risuonava in testa, assalendolo, divorandolo, facendo di lui un ammasso di carne e ossa in grado di muoversi, ma non di vivere. 
Voleva solo porre fine a tutto quello che sentiva. 
Allora perché quei dannati infermieri non arrivavano? Perché non gli iniettavano quel fottuto liquido nelle vene e non lo spegnevano per quanto più tempo era possibile? 
Adesso anche le medicine lo stavano lasciando, così come aveva fatto la lametta, in balia della sofferenza. Non c'era più nulla a distrarlo, non una chitarra verde che non era in grado di suonare, non un bellissimo libro che non sapeva leggere, non un tappeto sporco di sangue o un compagno di stanza frastornato, o dei capelli biondi e degli occhi azzurri angelici.
Non riusciva più nemmeno a gemere o a contorcersi: il respiro si era fatto affannoso al punto da obbligarlo a calmarsi, a fargli prendere fiato.
Poi sentì qualcosa appoggiarsi sulla sua testa. Non riusciva a capire cosa fosse - una mano che lo accarezzava, forse? Sì, iniziava ad assomigliare a una di quelle carezze infinite che danno le mamme ai bambini quando si risvegliano da un brutto sogno in preda al panico. Quelle dove le dita si fondono con i capelli e tranquillizzano il piccolo terrorizzato, convincendolo che non è successo niente e che ora che non è più solo andrà tutto bene.
Pete iniziò così a calmarsi, prendendo fiato. Poi sentì l'alitata fresca della mamma che non aveva mai avuto posarsi sulla sua guancia in un sibilo "Shhhhh, va tutto bene. Stai tranquillo"
La mano non si staccava dai suoi capelli, continuava ad accarezzarli insistentemente. 
E d'un tratto capì. Gli bastava quello? Una carezza? Una coccola era abbastanza per placare tutto? Per annullare gli odori, i sentimenti, i rumori?
Sì, era così. In tutti quegli anni gli sarebbe bastato quello. Una carezza, una coccola. Una dimostrazione d'affetto, un dannato gesto semplice come quello mentre soffocava il viso bagnato di lacrime nel cuscino gli sarebbe bastato.
Non voleva aprire gli occhi. Non voleva sollevare il viso. Aveva paura che quel dolce tocco angelico sparisse. O di rendersi conto che si stava solo illudendo, che non era vero, che nessuno lo stava rassicurando e si stava prendendo cura di lui. 
"Smetti di tormentarti. Ci sono io qui con te. Non sei solo."
Quanto avrebbe voluto sentire quelle parole nelle notti durante le quali si infliggeva ferite di una guerra che veniva combattuta solo nella sua testa. Ma nessuno le aveva mai pronunciate. Nessuno prima di allora, perlomeno. A quel punto non gli importava più se guardando chi lo toccava quella presenza sarebbe scomparsa. Voleva sapere chi era. Chi gli stava dando la forza di non affogare nelle lacrime. Chi aveva un tocco tanto dolce. Alzò lentamente il volto dal cuscino, ma sentì la presenza scattare sopra di lui. Riaffondò così nella piuma d'oca, girando il volto dall'altra parte.
"Chi sei?" disse Pete in un sibilo.
"Non importa. Basta che non mi guardi" continuò la voce, delicata. Non era una donna. 
"Perché?" 
"Non potrei reggere il tuo sguardo" rispose, quasi in tono di scusa. 
Pete aprì gli occhi, ancora girato dall'altro lato del letto. Era buio. Le persiane erano state abbassate. La luce spenta.
"Ma è buio. Non ti vedrei comunque" disse Peter.
"E' sempre buio, Pete" replicò la voce.
E' sempre buio, Pete e come lo sapeva?
"Posso toccarti?" insistette il ragazzo dai capelli corvini. 
Si alzò un silenzio incerto.
"Non ti romperò, te lo prometto" disse, tentando di spezzare la tensione. 
"Non sono così fragile" replicò l'angelo.
"Allora permettimi di toccarti." 
L'angelo non si oppose. Pete si tirò su a sedere, girando finalmente il volto nella sua direzione. Non vedeva nulla, ovviamente. E il nulla era quello che voleva vedere. Tutto ciò che desiderava era sentire. E sentiva quella presenza accanto. Rassicurante, dolce. Ora il frastuono taceva, ed era merito suo. 
Si accorse che l'angelo era seduto sul bordo del letto.
E lo sentì tremare quando gli si avvicinò col corpo per toccarlo. 
"Chi è che ha paura, adesso?" azzardò Pete, nel più piccolo dei sorrisi. 
Sentì il respiro del ragazzo che gli era davanti farsi affannoso, poi avvertì il tocco dell'altro, che gli prese la mano nella sua, avvicinandosela al petto e poggiandola su un cuore folle, che scalciava e si dimenava, battendo all'impazzata, quasi a voler sfondare la cassa toracica e raggiungere non sapeva bene quale obiettivo.
"Anche io muoio dalla paura" continuò, riproducendo il gesto dell'angelo su se stesso. Ora si ritrovavano entrambi l'uno con la mano sul petto dell'altro. 
Perché tutto questo tremore, perché tutta questa paura?
"Non sparirò" disse l'angelo. Quelle parole diedero coraggio a Pete.
Iniziò toccandogli la guancia. La sfiorò con una delicatezza inumana, come non aveva mai toccato nulla in vita sua. Anzi, nessuno per l'esattezza. Accarezzava quella pelle come accarezzava il libro della madre che aveva a casa, probabilmente ancora sporco di sangue, magari calpestato dai luridi scarponi del padre. Insomma, la stava trattando come quanto di più caro e prezioso aveva al mondo. Percorse la linea del suo viso con le dita, come faceva col volto di Dorian Gray in copertina. 
Non sapeva se comparare le due bellezze o sostenere che l'angelo fosse mille volte più splendido, e puro di cuore, in aggiunta.
"Sei bellissimo" sussurrò mentre con l'indice gli sfiorava le labbra.
Bellissimo. 
Poi gli tornò in mente lui. Gli occhi del colore del cielo, le labbra scarlatte, e i riccioli biondi. 
"Sei tu..." disse mentre gli stringeva il volto tra le mani, rendendosi conto di chi aveva davanti. Jesse.
Pete cercò con la mano il tasto per accendere la luce. Dov'era adesso quel dannatissimo pulsante?
"Peter non lo fare!" ma lui stava già accendendo la lampada.
Quando premette il pulsante, non seppe mai bene come, la mano sul suo petto scomparve. Smise di avvertire quella presenza. E mentre si alzava dal letto tentando di comprendere dove fosse finito il suo angelo si sentì soffiare nell'orecchio...
"Te l'avevo detto di non guardarmi." 
   
 
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