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Autore: Glory Of Selene    16/07/2013    4 recensioni
Sebastian Michaelis.
Il maggiordomo perfetto, che segue il proprio padrone come un'ombra, che esegue ogni suo ordine senza battere ciglio e mai fallire, che è diventato un'estensione della sua volontà tanto da dare l'impressione che stia con lui da sempre, fin dalla nascita del giovane conte.
Ma qual è la vera storia del nero maggiordomo? Qual è il suo passato? Da quale istante ha cominciato ad esistere?
Quali vicende l'hanno portato, dall'Egitto di tremila anni fa, fino all'Inghilterra vittoriana, davanti alla gabbia di un bambino destinato alla morte?
*Dal capitolo 1*
"«Hai visto, Sebastian?» sussurrava imperterrito l’essere, il più tremendo che avesse mai incontrato, eppure l’unico, se ne rese conto in quel momento, al quale avrebbe accettato di sacrificare tutta la vita. «Questo è il potere, mio caro. E sarà ciò che avrai, se non rinnegherai la tua natura.»
«Qual è il prezzo che devo pagare?» domandò.
«Morirai.»
«Sono già morto.»
«La tua anima verrà inghiottita negli abissi più neri dell’inferno, e tra le sue fiamme brucerà, finché non ne sarà rimasto nulla.»
"
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sebastian Michaelis
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

Un diavolo di scriba

 
Sebastian Michaelis.
 
Un paio di occhi si aprirono sull’oscurità.
Erano di un rosso talmente brillante da sembrare rosato, squarciato esattamente al centro, come se fossero state due ferite, da un paio di pupille nere e verticali.
Erano occhi vivi.
 
Destati.
 
D’un tratto, la creatura si accorse di possedere un corpo. La cosa le provocò un singolare piacere, anche se non avrebbe saputo dire il perché.
Due grandi ali dal folto piumaggio nero si spalancarono di scatto.
La creatura scoprì i denti, bianchissimi, lunghi, affilati – i denti di un predatore –, in un mezzo sorriso compiaciuto.
Socchiuse gli occhi, girò indietro il collo, distese i muscoli uno per uno, mentre scopriva lui per primo ogni singolo anfratto del corpo che gli era stato donato.
Ruotò le spalle, si accarezzò braccia e torace nudi, saggiandone la muscolatura con una punta di vanità. Sentiva una cascata di capelli – corvini, immaginò, e l’involontario gioco di parole gli suscitò una risata soffocata – solleticargli lieve la curva della schiena. S’accorse di avere piume incastrate anche nei capelli, e non riuscì a decidere se la cosa lo divertisse o lo irritasse soltanto.
Due grosse penne gli spuntavano anche dalle braccia, come dei prolungamenti del gomito, mentre le dita delle mani non erano altro che artigli lunghi e affilati.
La creatura, o meglio, Sebastian Michaelis, riaprì gli occhi solo a quel punto, soddisfatta di ciò che aveva potuto capire della propria nuova forma.
«Dunque sono il demone corvo», mormorò.
La sua voce era bassa, liquida e suadente come un nastro di seta.
«E questo è il mio nido.»
Sorrise e mosse il primo passo in avanti. I tacchi alti degli stivali che calzava facevano rumore sul pavimento di pietra sotto di lui.
Quello che, da lì in avanti, sarebbe diventato il suo “nido” si mostrava allo sguardo in tutta la propria cupa ma gelida bellezza.
Ogni cosa, ogni minimo oggetto, era nero. Nero il lucido acciaio che formava l’arzigogolata intelaiatura di un’alta sedia, resa piena da due rigidi cuscini di un nero un po’ più sbiadito incastonati nello schienale e nella parte inferiore. Nero il legno della scrivania che s’ergeva davanti a quella sedia, di una regalità un po’ antiquata; nero l’inchiostro contenuto nella boccetta di vetro che vi era posata sopra, nera la piuma che di quella tinta si bagnava – e Sebastian la trovò di un’ironia quasi sublime, perché era praticamente certo che si trattasse di una sua stessa penna.
Nere le pareti, lucide e irregolari come se fossero state scavate nell’onice stessa – e forse era proprio così. Nero l’enorme e bellissimo lampadario di cristallo che, con le sue complicate volute e i sottili ghirigori, reggeva decine e decine di candele – nere –, ad illuminare tutta la stanza.
Tre sole cose erano bianche: la pallida luce che quelle candele proiettavano, i fini fogli che giacevano, immacolati, sulla scrivania, e la cornice di uno specchio.
Sebastian fu attratto da quello, e si avvicinò per poterlo esaminare meglio, anche se la prima cosa che lo colpì, più che la sua fattura, fu il riflesso di se stesso che ottenne.
Inarcò un sopracciglio, e lo specchio rispose con una posa esattamente identica, impeccabile quanto beffardo.
Il volto che fioriva da quell’aspetto e abbigliamento, diciamo, bizzarro, era forse ciò che si sarebbe potuto definire “bello” secondo i canoni umani.
Oddio, lui di canoni umani sapeva ben poco – la sua esistenza aveva avuto inizio soltanto da pochi minuti –, ma almeno quello riusciva a capirlo, e la domanda del perché gli fossero state donate sembianze tanto attraenti sorse immediata, prevedibile, dopotutto.
Altrettanto immediatamente, però, la questione venne accantonata. Perché, ne era sicuro, quell’aggeggio bianco piazzato nel bel mezzo di casa sua doveva avere una funzione diversa da quella di una mera superficie riflettente.
Incrociò le braccia e lo osservò con occhio critico.
 
Io voglio.
                       Io voglio.
                                               Io voglio.
                                                                        Io voglio.
 
Sebastian ebbe un moto di stupore, mentre aggrottava la fronte e si allontanava dallo specchio.
Aveva sentito distintamente l’eco di quelle due parole giungere dalla liquida superficie davanti a sé.
Ma che cos’era?
 
A qualsiasi prezzo.
 
                                   Io voglio.
  

Io voglio tutto.

 
Sebastian capì in quell’istante stesso.
Dunque, quello era uno strumento capace di captare la volontà degli uomini? Di trovarne di abbastanza carismatici – o malvagi, o disperati, o avidi, o stolti, o più semplicemente del tutto folli – da poter attirare l’attenzione dei demoni?
«Interessante…» si disse.
Allungò una mano, con prudenza ma con sicurezza, e quando incontrò la superficie dell’oggetto quella si contrasse in tante piccole onde e gli inghiottì placidamente le dita.
Ci fu un altro bagliore, e in un attimo non fu più l’imponente struttura della belva ad essergli mostrata, bensì il paesaggio di un’assolata città umana.
Sebastian ritrasse di scatto la mano con un’esclamazione di sorpresa.
Aveva già visto quella città.
Com’era possibile? Era nato solo da qualche minuto. Ne era certo.
S’impose pazienza e si prese qualche attimo per indagare se stesso.
Aveva diverse consapevolezze. Sapeva tutto di se stesso, della propria natura, della propria psiche, del proprio modo di pensare. Conosceva il mondo che gli stava intorno, chi fossero i demoni e chi fossero gli uomini, quale fosse il compito degli uni e degli altri.
Ma non aveva ricordi; fatto più che giustificato dalla sua nascita recente, eppure reso strano e distorto da quelle consapevolezze che, se i pochi minuti che aveva vissuto fossero stati logicamente validi, non avrebbero dovuto esserci.
C’era stato qualcuno, se ne accorse solo allora, che si era divertito a giocare con la sua mente appena modellata. E la prospettiva lo irritava parecchio.
Tornò con la propria attenzione allo specchio. Qualcosa gli diceva che, di qualunque verità si trattasse, lui l’avrebbe trovata in quella città.
Stava già per muovere un passo e tuffarsi nel mondo degli uomini, quando il suo riflesso lo trattenne.
«Forse abbigliato in questo modo sono un tantino impresentabile…» si disse, con un sorrisetto appena accennato.
 
 
Egitto, dieci anni dopo la morte del sacerdote di Bastet.
 
4855 anni prima di Ciel Phantomhive.
 
Il faraone Hotepsekhemwy allontanò una mosca con la mano e sbuffò rumorosamente. Oro, argento, ricchezze d’ogni tipo nel suo palazzo, degno di lui e di ciò che in lui era incarnato, eppure vi faceva caldo come nell’ultima delle case popolari.
«Più veloce, più veloce, ragazzo.» mormorò con indolenza allo schiavo che tentava di fargli aria con una foglia di palma.
Tentava, perché il lavoro che stava svolgendo era davvero pessimo.
«Mio signore.» lo chiamò entrando una delle guardie del palazzo. Si fermò a una distanza rispettosa e s’inginocchiò con reverenza, aspettando solo una sua parola.
Gli occhi del faraone ebbero un lampo d’interesse. Che finalmente arrivassero notizie in grado di scacciare la noia che negli ultimi tempi era diventata una presenza sempre più assillante?
«Di’.» rispose, laconico e imperioso.
«Un giovane è giunto alle porte del palazzo. Dice di essere uno scriba, e di provenire dall’Alto Egitto. Richiede un’udienza.»
Il sovrano aggrottò la fronte.
«Uno scriba?». Mancavano forse gli scribi, a palazzo? Non gli risultava. «Beh, fatelo entrare.»
Sempre meglio di niente; anche se, e giudicava secondo esperienze personali ben precise, gli scribi in genere erano persone mortalmente noiose.
«Vi ringrazio per avermi concesso la possibilità d’incontrarvi.» fu la voce che arrivò ad interrompere i divertenti ricordi – che lui invece giudicava terribili – di alcuni siparietti tra lui e gli scribi che prestavano servizio a palazzo.
Spostò lo sguardo, con una certa pigrizia, sull’uomo che aveva parlato entrando, e fu subito costretto a stupirsi – azione veramente tediosa, in un luogo così caldo – e a riconsiderare tutte le idee che lo avevano dominato riguardo agli scribi.
Al suo cospetto si era prostrato il giovane più affascinante che avesse mai avuto il piacere d’incontrare. I corti capelli neri incorniciavano un volto dalla singolare bellezza, perfettamente calcolato in ogni sua linea, da quella dritta del naso, alla curva della mascella, al taglio allungato degli occhi – accentuato dal trucco nero, com’era moda del tempo. Indossava soltanto un corto gonnellino di lino e una stola di tessuto appena sotto il collo a coprire parzialmente le nudità di un corpo virile ma sottile, muscoloso ma armonioso, caratterizzato da quella carnagione ambrata tanto comune negli egiziani, che su di lui assumeva una dolce sfumatura di miele dorato, mentre su tutti gli altri appariva soltanto di un olivastro quasi sudicio.
Il faraone ne fu profondamente affascinato e terribilmente invidioso nell’istante stesso in cui lo vide.
«Nell’Alto Egitto, da dove provengo, si parla molto di voi, si tessono lodi sconfinate riguardo alla magnificenza del vostro palazzo». Ebbe allora l’ardire di alzare la testa senza che gli fosse stato dato il permesso, solo per ammirare ingenuamente le pareti e gli ornamenti della sala dov’era stato ricevuto «Devo dire che non sono per nulla esagerate.» concluse, con un sorriso.
Al faraone sembrò il più possente tra gli stalloni bianchi che lodava la beltà di un piccolo sciacalletto spelacchiato. Il paragone, che aveva preso forma nella sua testa in maniera brutalmente vivida, donò al sovrano una vaga aura d’irritazione che non lo abbandonò per molti giorni a venire.
Ma, e questo anche uno come lui riusciva a capirlo, quel giovane scriba non aveva colpe per la propria grazia e bellezza, volere degli dei, non mortale, e quindi portare rancore a lui non avrebbe avuto alcun senso. Se la sarebbe preso dopo, con più calma, con Ra o con chi per esso.
Alzò il mento, nell’espressione più regale che riuscì a trovare – nessuno, per quanto affascinante fosse, avrebbe dovuto avere il diritto di far sentire inferiore il faraone –, osservandolo dall’alto in basso e stringendo ben bene, in modo che vi cadesse subito l’occhio, lo scettro che impugnava nella mano destra.
Lo scriba capì al volo e abbassò nuovamente il capo, con un’ espressione di servile gentilezza che piacque molto al sovrano.
«Alto Egitto, hai detto? Mi pare sia molto lontano da qui.» proferì.
«Infatti, mio signore: ho dovuto viaggiare a lungo per poter giungere a Menfi.» fu la sua impeccabile risposta.
Il faraone allentò la presa sullo scettro e con la mano libera s’accarezzò il mento, soddisfatto dalla risposta e dai modi del giovane che pareva voler usare, saggiamente, la retorica e le buone maniere per sopperire al proprio fascino, che altrimenti sarebbe finito per oscurare irrimediabilmente la giusta luce che spettava al faraone – e a lui soltanto.
Per questo si decise a compiere un gesto fintamente infastidito con la mano.
«Hai il permesso di rialzarti, scriba, se lo desideri.»
Quello ringraziò con uno dei suoi sorrisi abbaglianti e tornò eretto, pur rimanendo a debita distanza e non osando mai incrociare il proprio sguardo con quello del sovrano.
«Dimmi, adesso: qual è il tuo nome?»
Ci fu un lampo, negli occhi dello scriba – dal bizzarro colore castano, quasi rosso, per un osservatore poco attento –, che il faraone non riuscì a decifrare.
«Mi chiamo Sebastian.»
Anche quella volta il sovrano fu indotto a stupirsi, e la cosa gli dispiacque ancor di più di quanto non gli era piaciuta la prima volta.
«Non ho mai sentito un nome del genere.» rifletté.
Lo scriba chinò il capo con bonaria indulgenza. «Me lo fanno notare in molti. A quanto pare il mio amato padre doveva aver avuto una pericolosa passione per le culture straniere; questo nome barbaro è il risultato, ma posso sempre mutarlo, se per voi è motivo di disagio.»
Sebastian dovette trattenersi per evitare di ridacchiare sotto i baffi; amato padre? Non aveva idea di quello che avrebbe fatto se si fosse trovato davanti l’essere che si era divertito a crearlo, fornirgli una mente e pasticciarla poi secondo il proprio perverso volere, ma di sicuro non ci sarebbero stati pianti e abbracci.
Fortunatamente, però, il faraone aveva trovato molto gradevole l’aggettivo “pericolosa” uscito ad arte dalle labbra calcolatrici del proprio ospite, e aveva deciso per questo di non seguire i propri capricci e lasciargli pure il suo nome strampalato, in un gesto ch’egli giudicava di estrema magnanimità.
«Sebastian sia, allora. Rispettiamo le volontà di un defunto.» sentenziò.
Il demone chinò il capo in segno di ringraziamento, ma anche e soprattutto per nascondere il divertimento che ardeva palese nel rosso del suo sguardo.
«Piuttosto, non mi hai ancora spiegato il motivo della tua presenza in luoghi tanto distanti dai tuoi natali. Giungi a Menfi soltanto per ammirare i miei gioielli?». Il suo volto s’accese d’ironia.
«A dire il vero avete ragione, i miei scopi sono altri; ho avuto sentore dello splendore del Basso Egitto adesso che Menfi è capitale stabile, e mi sono precipitato alla ricerca di prospettive. Sapete, l’ambizione è un mio piccolo tarlo.»
Sebastian mentiva con una fluidità e innocenza tali da ingannare il guerriero più diffidente – doti del tutto sprecate per le orecchie di un sovrano indolente come quello che si ritrovava davanti.
Il sovrano indolente in questione, intanto, si era illuminato perché aveva intravisto la possibilità di avere tutto per sé un tale campione di fascino e talento, e aveva tutte le intenzioni di cogliere al volo l’occasione.
«Ambizione? Più che un tarlo, io la considererei un grande pregio.»
«Sì, a volte può anche essere vista sotto questo aspetto.»
«A me piace l’ambizione, sai; e ancor di più amo testarla. Sarebbe mio desiderio se tu rimanessi a palazzo ancora per qualche giorno, vorrei mettere alla prova la tua abilità.»
Sebastian dipinse la propria espressione di una gioia meravigliata, ringraziando mille e mille volte, quando tutto ciò che provava invece era un sottile, soddisfatto compiacimento che mai si sarebbe intravisto tra i denti bianchi e perfetti del suo sorriso.
Aveva contato sulla prevedibile avidità degli uomini, e non aveva sbagliato. Forse, quelle strane consapevolezze che venivano da chissà dove non erano un male.
Seguì un funzionario di corte per farsi spiegare tutto ciò che aveva da sapere, anche se la sua mente era proiettata su altre cose.
Il palazzo era, ne era certo, il luogo più strategico dove cominciare una ricerca incentrata su una “verità” assai vaga e visionaria.
 
***
 
«Voi siete Sebastian, lo scriba?»
Sebastian si voltò per incontrare il viso cotto dal sole e sciupato dalla fatica dello schiavo che aveva interrotto il suo studio quotidiano.
Il demone si trovava in servizio al palazzo del faraone già da qualche mese e di qualche indizio che potesse aiutarlo almeno lontanamente a capire l’origine degli strani moti della sua mente non c’era neanche l’ombra; in compenso, però, i geroglifici che gli avevano messo davanti si erano dimostrati sempre più interessanti , e quelli erano stati sufficienti come distrazione, mentre attendeva il manifestarsi di una pista con una pazienza della quale egli stesso si era stupito.
Un lieve languorino, intanto, aveva cominciato a farsi strada lungo la sua gola, ma ancora era abbastanza debole da poter essere ignorato.
«Sì, sono io.»
Arrotolò con precisione il papiro che si trovava davanti, riponendolo ordinatamente insieme a tutti gli altri.
«Il faraone vorrebbe che l’accompagnaste nella supervisione dei lavori che si stanno svolgendo alla periferia della città per la costruzione del nuovo tempio di Iside.»
Sebastian abbassò il capo.
«Ma certo.» rispose. Si alzò dalla posizione a gambe incrociate che aveva assunto con la consueta grazia, e a passo lento ma deciso s’avvio verso l’ingresso del palazzo del faraone.
Arrivò che i preparativi per la partenza del sovrano erano già stati effettuati – per sua grande fortuna.
Ogni volta che il faraone si decideva per compiere uno spostamento, fosse pure il più piccolo, lo spiegamento di soldati e schiavi era sempre enorme; per non parlare delle stoffe e degli ornamenti della portantina… Sebastian ebbe un moto d’insofferenza nei confronti dei capricci regali – e umani in genere – al solo pensiero.
Un drappello di dieci guerrieri circondavano la portantina, quattro davanti, quattro dietro e uno per lato, mentre gli schiavi che la tenevano sollevata già cominciavano ad avere allucinazioni di dei per il peso sovrumano che erano costretti a trasportare – e non si erano allontanati di un metro dal palazzo.
L’unico che sembrava pienamente soddisfatto della situazione era il faraone, svaccato com’era sui cuscini e tra i tendaggi, aspettava soltanto di essere in presenza del proprio scriba preferito.
«Eccomi, signore.» disse Sebastian, accennando un inchino.
Il faraone gli sorrise con una nota di superbia nello sguardo. Il demone aveva capito da tempo quanto gli facesse piacere continuare ad avere conferme e segnali della propria supremazia, e non sarebbe stato certo lui a farglieli mancare.
«Avevo bisogno di qualcuno che desse un primo giudizio al progetto: mi affido alla tua cultura architettonica. Sai quanto tengo a questo tempio.» disse.
«Farò del mio meglio.» rispose lo scriba, impeccabile come sempre. Il faraone gli gettò un ultimo sguardo soddisfatto, prima di dare l’ordine di movimento.
Il viaggio fino alla periferia della città non sarebbe durato molto, non fosse stata per l’estrema lentezza della portantina. Sebastian fremeva, mentre il sole calava a picco i propri raggi con una sorta di sadica soddisfazione, ma nulla più che un impassibile gelo traspariva dal suo volto. Giunsero al cantiere solo dopo una buona mezz’ora di cammino – di martirio, per il demone.
«Cosa te ne pare?» domandò il sovrano indicando il laborioso formicaio di schiavi, architetti, scultori, travi, blocchi di pietra, statue che mostravano i propri volti appena abbozzati nascere dallo scalpello degli artigiani. Era palese quanto ne andasse orgoglioso.
Sebastian osservò tutto l’insieme con occhiate precise e analitiche.
«E’ difficile per me dare un giudizio a questo punto dei lavori. Dovrei vedere i progetti, è possibile?»
Il faraone annuì e affidò lo scriba alle cure del capo degli operai, che lo condusse nel pieno del cantiere per mostrargli i papiri dei disegni.
Il demone stava aspettando, paziente, che quei papiri saltassero fuori quando gli si presentò davanti agli occhi una scena singolare.
Un giovane schiavo – doveva essere poco meno che diciassettenne – aveva mollato a terra il blocco di pietra che stava trasportando e, sotto gli occhi stupiti di tutti, era corso fino a lui con un paio di occhi castani spalancati e spiritati.
«Per il grande Ra, siete voi! Siete davvero voi!» gemette, buttandosi ai suoi piedi.
Oh, bella., pensò un Sebastian piuttosto stranito. E chi sarebbe costui?
Stava appunto per formulare una domanda simile, ma l’uomo che aveva il compito di controllare l’operato degli schiavi fu più veloce di lui, a intervenire afferrando per un braccio il ragazzo e allontanandolo a forza dal demone.
«Torna subito al lavoro, tu!» lo apostrofò, con la cattiveria che gli brillava negli occhietti piccoli.
Il giovane scuoteva la testa.
«Ma voi non capite! Quest’uomo…» ma la frustata arrivò in tempo per stroncare le sue parole.
Una striscia di sangue si disegnò subito sulla sua guancia, e il ragazzo tacque, chiudendo gli occhi e rannicchiandosi su se stesso per contenere il dolore.
La seconda frustata gli giunse dritta sul braccio.
«Fermatevi.»
L’uomo bloccò il braccio mentre stava per caricare il terzo fendente, lo stupore per l’ordine ricevuto che aveva avuto il potere di soffocare anche la sadica soddisfazione di poter finalmente punire qualcuno.
Si girò verso lo scriba, gli occhi sgranati che eppure erano talmente piccoli da riuscire a stento ad eguagliare le dimensioni di quelli normali, spalancati com’erano.
«Ma… signore… lui…»
Sebastian non lo degnò d’uno sguardo, per avvicinarsi al ragazzo invece, che era tornato a fissarlo come in genere si fissa un dio – o un fantasma. O entrambe le cose.
Aveva appena trovato l’indizio che da mesi cercava: non avrebbe permesso ad uno stupido umano di maltrattarlo un secondo di più. Lo considerava quasi come qualcosa di sua proprietà, e come tale aveva il dovere di difenderlo.
«Il tuo nome?» domandò, gelidamente, allo schiavo ancora a terra.
Per una ragione a lui ancora incomprensibile, il ragazzo sorrise, complice quasi.
«Kaphiri.»
Sebastian lo osservò. Nulla in lui gli era famigliare, né il nome, né l’aspetto, ma il ragazzo ricambiava lo sguardo con un’espressione troppo consapevole perché non potesse essere considerata sospetta.
Si girò con distaccata indifferenza verso il capo degli operai, che era rimasto ammutolito ad osservare tutta la scena. Indicò lo schiavo.
«Qual è il prezzo del ragazzo?»
«B… b… beh…» balbettò l’interlocutore, che tutte le domande si sarebbe aspettato tranne quella. «E’ giovane e forte… non cagionevole di salute…»
Lo scriba si spazientì immediatamente. Si sfilò l’anello d’oro e di zaffiri e glielo piazzò proprio davanti al naso.
«Questo è sufficiente?»
L’ometto sudò il doppio rispetto al normale, e una grossa vena gli si gonfiò sul collo. Sebastian temette di vederselo crollare davanti prima di portare a termine la compravendita.
Quando si riprese, però, fece sparire l’anello talmente in fretta da cogliere alla sprovvista persino un diavolo come lui.
«Andrà benissimo!» esclamò.
La piega della sua bocca si fece dura, unica traccia d’emozione nel volto impassibile com’era suo solito. Sapeva perfettamente che il ragazzo non valeva quell’anello, nessuno schiavo per quanto eccezionale avrebbe avuto un costo tanto alto, ma a lui il denaro degli uomini non interessava. Era soltanto stupito – disgustosamente stupito – dall’avidità di quegli strani esseri.
«Ottimo. Tu. Alzati e seguimi.» ordinò al ragazzo senza nemmeno guardarlo, mentre si dirigeva dove aveva lasciato il faraone.
Kaphiri si mise subito in piedi, sorridendo tra sé, mentre gli sembrava chiaramente di rivivere una scena del suo passato che non aveva sperato si sarebbe ripetuta.
«Ma… i progetti?» gli venne chiesto da dietro.
Sebastian non si voltò, né rallentò il passo.
«Non ne ho più bisogno.»
 
Il faraone lo accolse con un sorriso stupito.
«Allora, che cosa ne dici? Magnifico, non è vero?»
Solo allora lo scriba si permise un sorriso, perché d’altra parte essere gentile era un dovere quando si aveva l’onore – di cui avrebbe fatto volentieri a meno – di conversare con il faraone.
«Splendido, davvero degno della vostra regalità». Il sovrano annuì, crogiolandosi nel proprio compiacimento; fu con particolare piacere che Sebastian contraddisse il suo prematuro godimento. «Ma, ahimè, del tutto inefficiente. Così com’è progettato è presto destinato a crollare ben miseramente. Un peccato, per un gioiello di tale bellezza…» aggiunse infatti.
L’espressione di delusione prima, e in seguito ira del faraone fu talmente buffa che divertì perfino Kaphiri, silenzioso e discreto osservatore della conversazione.
«Mi prendi in giro, scriba?»
Sebastian gli rivolse un sorriso pacato, talmente controllato da far sembrare il sovrano alla stregua di un bambino sciocco, e indurlo così a vergognarsi come un cane.
«Non dovete preoccuparvi, signore: tra qualche giorno metterò mano ai disegni e vedrò di porre rimedio a questo tedioso problema. Vedrete che questo tempio verrà fuori solido come il vostro regno, senza perderci nulla in bellezza.»
Quella risposta, così impeccabile, così insopportabilmente perfetta, ebbe il duplice effetto di calmare il sovrano riguardo alla sorte delle proprie costruzioni, e al contempo aizzarlo all’invidia più nera nei confronti del proprio sottoposto.
L’avrebbe umiliato, sì, nel peggiore dei modi, non appena avesse osato sbagliare una sola delle sue mosse di solito fin troppo ben calibrate.
Sebastian, che d’altra parte era un diavolo di scriba, gli lesse quel proposito in volto, e con un sorriso accettò tra sé la sfida.
 
 
Ciò che dice l’Autore
 
 Sono riuscita a finire un capitolo del genere in così poco tempo <.< Sono davvero stupita di me stessa. Forse perché questa storia mi prende molto, Sebastian è… adorabile? Strano aggettivo per un demone :D, e il suo passato mi intriga tantissimo (una frase idiota, considerato che sto scrivendo io la storia xD Ma è giustificata dal fatto che l’idea che mi sono fatta della continuazione è talmente vaga che alla fine sono io la prima a stupirmi del risultato).
Descrivere la sua vera forma mi è piaciuto molto. Lo so, forse avrei dovuto farlo più brutto, ma è davvero contro la mia natura descrivere un Sebastian orribile (scusate… sono di parte).
Il faraone, secondo me, è un genio. Posso dirlo? Diciamolo. So che è un personaggio creato per essere patetico e per farsi compatire, più che odiare, eppure scrivere di lui mi diverte terribilmente (che dire? Sono artisticamente attratta da soggetti mediocri. Che tristezza.)
Devo ringraziare infinitamente  le persone che mi hanno recensita (ho davvero bisogno dei vostri pareri, grazie!!), e con loro devo scusarmi mille volte perché non sono ancora riuscita a rispondere: se non adesso, sarà la prima cosa che farò domani quando sarò sveglia.
A parte forse andare in bagno.
(The Edge <3 Con te devo fare un bel discorsetto! :33)
Niente, che dire, spero che sia piaciuto anche questo secondo capitolo e… purtroppo dovrò stare via per una settimana, quindi non potrò aggiornare tanto presto, ma prometto che farò il prima possibile :)))
Un bacio,
Glory.
 
  
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