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Autore: Rosso Veneziano    16/07/2013    0 recensioni
Memorie teatrali di un'esperienza maturata in una compagnia scolastica riadattate su modello dei memorialisti del '600 italiani e degli autori dei diari della corte di Versailles nel '700.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Convivium & Rosa pristina nomine


“E che non puote amor?” recita il motto di Casa de’ Medici. Proprio questo tema pareva risonare nei ridicolosi orpelli della commedia di Wilde. Proprio in nome di un vagheggiato amore si compivano tutti quegli arabeschi di trame. Fu così, mentre vi pensavo, che mi trovai d’un tratto a pranzare con le mie compagne di classe Serena, vivace, S., che all’occasione s’attenne all’indole del lupo che, intendendo le prossime contumelie "leva il muso odorando il vento infido". E tacque, lasciando parlare altri. Quel giorno m’intrattenni a discutere su quale fosse la migliore delle posizioni politiche con Simonetta, loquace, ed Elena, che più tardi si aggiunse, acuta, alla conversazione. E non fu poi molto diverso dal convito di Trimalcione. Discutemmo anche della liceità del selezionare le amicizie secondo le proprie convenienze.
Alla fine del nostro convivio s’aggiunse alle nostre dotte inquisizioni morali un altro attore, di moro viso, di nome Matteo. Amabile nel parlare, anch’egli loquace, simpatico e di brillante spirito ci divertì molto colle sue facezie. Recatici quindi ad assistere alle scene ed alle prove ci ammassammo in una classe. Al mio fianco stavano S., tacita, Hind, cortese, e, d’un posto a lato d’Hind, Stefania, allegra ed intenta a ripassare il copione. Presentatomi a queste due ultime tacqui e mi misi ad osservare la recitazione. S’era venuta ad aggiungere ad un punto Aurora, altra mia compagna di classe. L’iscrizione al suo cast mi portava a recitare il ruolo del suo amante: due caratteri di dubbia moralità per quanto benpensanti. Si misero allora a recitare Shoji, amico d’Aurora, di enigmatica indole (solo più tardi l’avrei conosciuto per intero), Matteo, Luca (già ricordavo il suo nome e il suo cognome, già sentito, già udito, già letto, ma non rimembravo dove), Margherita: quest’ultima in particolare mi colpì per la sua recitazione. Era ardita, coraggiosa, ricercata nel suo interpretare, eppure seria. E questa è forse la più grande contraddizione e gloria del teatro comico: il porsi nei caratteri ridicoli e sciocchi con estrema serietà ed impegno facendo sì ridere ma anche riflettere, pensare, meditare, ammirare la capacità, l’arte, la tecnica. Scorsi (ma con timidezza, quasi avendo paura nel guardare, nel cercare) i volti in quella sala affollata. E d’un tratto comparve quel personaggio magnificato che portava il nome di Andrea. Pensai che certo doveva essere un gran privilegio quello di dover condividere l’onore delle scene (superiore forse, per pathos, all’onore degli altari a cui sono tenuti i santi) con persone di così nota e chiara fama. E un poco ancora sorridevo tra me e me, ridendo di come dalla polvere fossi stato tratto a recitare a fianco di loro.
Le prove terminarono. Tornato a casa mi misi a cercare alcuni vecchi numeri del Metis, giornalino del liceo. Ne trovai alcuni in cui rilessi quel nome: Luca. Poi ancora Andrea. E presi il libro più vicino che trovai. Lo aprii alle ultime pagine, certo di trovare quell’esametro: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Quei nomi (e quel nome, in particolare: Luca, grafico del Metis) erano vuoti gusci. Eppure ora ricordavo. E la rosa rifiorì nel chiuso giardino nella mia  mente. Quanto grande era l’onore delle scene che avrei dovuto condividere con queste persone onorabilissime.
  
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