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Autore: Rosso Veneziano    12/07/2013    1 recensioni
Memorie teatrali di un'esperienza maturata in una compagnia scolastica riadattate su modello dei memorialisti del '600 italiani e degli autori dei diari della corte di Versailles nel '700.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In finibus Africae

Le filatrici dei nostri destini, chiamate Parche, non solo fanno, avvolgono e tagliano il filo della nostra vita ma spesso si trovano a sovrapporlo ed annodarlo in modo tale che nascano le cosiddette coincidenze.
E infatti mi accingo a vergare le memorie di alcuni fatti che avvennero nell’arco di questi ultimi mesi. Il 22 dello scorso dicembre, giorno gelido nella gelida Feltre (si dice a tal proposito del distico che Cesare in persona avrebbe coniato: “Feltria perpetuo nivium damnata rigori non adeunda vale”, o Feltri  - traduceva il Bembo – dannata al perpetuo rigore delle nevi e del giasso, per non più ti riveder forsi ti lasso) gironzolavo per comperare un libro con alcuni compagni di classe.
Ricevuta per consegna la lettura della commedia di Terenzio denominata “I Fratelli” avevamo deciso di recarci insieme in libreria per acquistare il volumetto. Autore di grandissimo genio l’africano Terenzio compose opere divertenti e moraleggianti che nulla avevano a che vedere con quei guitti di Aristofane (come disse Voltaire) o di Plauto.
E proprio quel giorno mi ritrovai a parlare con una delle attrici della compagnia teatrale, la subdola S. che recitava nei panni di Lady Bracknell, nella commedia “L’importanza di essere Franco” di Wilde, opera deliziosissima e doviziosa di facezie  e “responsa spiritualiter salsa” e fu la prima volta in cui s’affrontava il complesso tema delle recite della compagnia teatrale.
Letto il libro partecipammo in classe ad una rappresentazione delle prime scene dell’atto secondo in cui entrano in scena la nutrice della giovane violata, Panfila, di nome Cantara, la madre, Sostrata, lo schiavo, Geta. S. recitava nel ruolo di Sostrata, la sagace Serena nel ruolo di Cantara, lo scrivente in quello di Geta. La scena, per quanto fosse ahimè dozzinale la recitazione ottenne il generale plauso degli astanti. Dopo aver calcato le scene venni chiamato alla cattedra onde udire una proposta che, ahimè si sarebbe rivelata presto travagliata e sofferta. Mi fu offerto dall’insegnante di rappresentare nella commedia di Wilde, essendosi liberato un posto, il ruolo del reverendo Chasuble. Già mi era stato chiesto ma con cortesia avevo declinato. In quel momento, forse onusto delle vanaglorie della farsa le cui scene avevo così miseramente calcato, non seppi rifiutare. E fu forse, se mi è concesso il paragone, come Gertrude che, credendo per le blandizie paterne che la sua scelta avrebbe cagionato dolori nella sua famiglia, accettò la monacazione e di venir salutata quale novella sposa di Cristo. Non per imbrogli ma bensì per scrupolo e rispettosa osservanza della latrice della proposta accettai, udendo proferire parole che suonavano quale convocazione alle successive prove.
Ma dura fu a digerirsi la scelta. Durante la confusa lettura del testo rimembrai quello che mi fu detto con tanta urbanità da Serena, ubertosa di cortesie: recitava nel ruolo del protagonista per il cast a cui ero stato iscritto una persona il cui nome era, nell’istituto, di fama chiarissima, e quando se ne udiva parlare pareva quasi di udire da qualsiasi fanciulla le parole che Sulammita riservava all’amato nel Cantico dei Cantici, come fosse egli tra i giovani quale un melo tra gli alberi di bosco. E, richiamato alla memoria il fatto rimuginai su come avrei mai potuto sostenere lo sguardo di questa persona e di molt’altre, sentendomi d’un tratto come la pietra scartata dal costruttore ed ora richiamata a stare indegnamente accanto alle testate d'angolo.
  
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