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Autore: Frammenti di Specchio    17/07/2013    3 recensioni
‘Chi salva una vita, salva il mondo intero.’
16 e 17 luglio 1942.
Nel ricordo di quei bambini scomparsi nel vento e mai più tornati a casa.
Genere: Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ziva David
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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KAKHOR. AL TICHKAH.
Ricorda. Non dimenticare mai.

 
 
‘Chi salva una vita, salva il mondo intero’
 
 
…Tutti noi eravamo preda di una tacita sicurezza: non saremo mai più tornati a casa, sostavamo nell'anticamera della morte prima di guardarla davvero in faccia e sbatterci contro. Fu allora, quando vidi una delle infermiere vestite di bianco e il velo blu portarci la poca acqua che la polizia ci concedeva, che feci ciò che avrei rifatto altre centomila volte...

 
 
 
Capitolo Due
25 Novembre 2008

 
 
Sedevano sugli spalti del Velodromo ormai da ore senza che nessuno portasse loro cibo o, peggio ancora, acqua. Erano sudati, sporchi; c’era un’afa soffocante ed una puzza stomachevole: i bagni si erano intasati ore ed ore addietro e la situazione stava precipitando sempre più velocemente. Alcune donne recitavano il kaddish, altre piangevano ed urlavano disperate in preda a crisi isteriche. Gli uomini fumavano a gruppetti le ultime sigarette rimaste.

Josef guardava ogni scena con la medesima angoscia di chi era stato strappato dal mondo umano per piombare all’inferno, un inferno ancor peggiore di quello dantesco. L’idea che presto le milizie li avrebbero lasciati tornare a casa era sfumata da tempo, non c’era più speranza: persino i bambini, che all’inizio gridavano e si divertivano sulle piste del Velodromo, pensando che fosse tutto un divertente gioco, ora erano seduti in braccio alle madri, dormicchiavano, piagnucolavano senza più forza.
Eliska, sua madre, teneva Riwka stretta fra le braccia, dondolandosi lentamente avanti ed indietro col busto mentre recitava il kaddish come una nenia. Josef non riusciva a capire perché sua madre e molte persone recitassero la preghiera funebre. Ma lo avrebbe compreso molto presto.

Il tempo passava lento ed inesorabile, avvolti in una calura tanto pressante da sembrare di essere finiti in una grande pentola d’acqua bollente. Josef sentiva la pelle appiccicosa prudere, la testa dai capelli intrisi di sudore e il viso sporco: non si lavava da più di due giorni. Era immobile, seduto su una panca fra una mamma assente ed un padre che cercava di tirargli su il suo morale con sorrisini forzati.

Girò piano lo sguardo verso la sorellina, aggrappata da ore al petto della madre, gli occhi grandi ed azzurri erano persi in un punto indefinito, lontano; erano arrossati dal sonno e dalla sete, ma non voleva chiudere gli occhi e si rifiutava di lasciare le braccia della madre. Aveva i capelli ricci appiccicati alla faccia, alla fronte. Josef allungò la mano per scostarle la frangetta e Riwka gli mandò un bacino con la manina paffuta.
Fu in quel momento, dopo quel piccolo gesto di affetto, dopo aver visto arrivare un’infermiera che si avvicinava per portare un biberon d’acqua, che prese una decisione: la decisione più dolorosa e coraggiosa della sua esistenza.

L’infermiera arrivò con passo lento, l’abito da crocerossina bianco con la croce rossa stampata sul petto ed il velo blu scuro che le copriva i capelli lasciando intravvedere sottili ciocche nere. Aveva una carnagione diafana, gli occhi marroni e sembrava una ragazzina spaventata agli occhi di Josef. La vide sorridere a Riwka, accarezzarle il viso. La sorellina si voltò staccando le mani dal collo della mamma, ma non si allontanò da lei più di un centimetro; afferrò il biberon con le mani e cominciò a bere assetata mentre i suoi occhietti fissavano quelli dell’infermiera che le aveva portato la manna.

Josef capì era arrivato il momento quando la piccina sorrise alla donna e lei le baciò la guancia, quindi saltò giù dalla panchina ed afferrò la sua gonna bianca – Mademoiselle, per favore, salvate la mia sorellina… - la implorò fissandola dritta negli occhi, senza alcuna paura.
Eliska voltò di scatto il capo come se una scarica elettrica le avesse percorso il cuore, trafiggendola nell’anima. Impiegò qualche secondo perché la sua mente comprendesse la disperata richiesta di suo figlio poi sgranò gli occhi tornando a guardare la giovane sconosciuta. Non era ebrea. Non portava la stella gialla.
Così, il padre, notandolo, racimolò le forze, si alzò in piedi ed iniziò a supplicare in un sussurro la donna assieme al figlio: Seth sapeva perfettamente che nessuno di loro sarebbe tornato a casa, ma voleva dare una speranza almeno alla sua bambina.
Gli occhi di Eliska si bagnarono delle ultime lacrime rimaste nel suo corpo mentre continuava a baciare convulsamente la testolina della piccola Riwka.
 
Occhi azzurri. Capelli ricci. Del colore del miele…
 
Poi, dopo un leggero tentennamento dell’infermiera, Josef vide il rapido gesto della madre, talmente veloce da fare sobbalzare lui e la sorellina: con un gesto di rabbia, disperazione e dolore strappò la stella gialla dal vestitino dalle figlia e lo gettò sotto la banca. Josef si strinse al padre che nascose il viso sporco in una mano sudicia.
- Ti amo, piccina mia. Piccola mia. La mamma ti ama con tutto il cuore. Guarda le stelle, ti proteggeranno sempre, piccina mia… – ripeteva Eliska mentre le baciava le guancie arrossate dalla calura. Riwka, che nonostante l’età aveva capita che stava per accadere qualcosa di brutto, aveva iniziato a piangere continuando a toccare frenetica il viso della madre ed aggrappandosi al suo colletto di pizzo gridando e scalciando.

Josef lanciò uno sguardo all’infermiera: aveva gli occhi gonfi, il viso pallido e si guardava in giro spaventata scoprendo che, attorno a loro, nessuno stava badando alla loro conversazione: tutti erano occupati a badare alla propria disperazione.

Di punto in bianco, la ragazza prese la sua decisione: afferrò il corpicino della bambina e la prese fra le braccia con tale rapidità da non dare tempo a Riwka di rendersene conto.
Rapidamente, si voltò lanciando un ultimo sguardo ad Eliska, poi prese a camminare velocemente fra la folla fino ad arrivare ad una scalinata che l’avrebbe portata ai cancelli di uscita sorvegliati dalle guardie francesi.

Josef abbandonò il padre per guardare oltre alla ringhiera che proteggeva gli spalti – Riwka!! – gridava pieno di risentimento mentre il pianto di disperazione della madre gli straziava il cuore – Riwka!! Guarda il cielo! Guarda sempre il cielo! – gli occhi di Josef si posarono sulla piccola macchia bianca e blu che, oramai, era diventata minuscola. Non sentiva più gli strilli della sorellina, non sentiva più la sua vocina squillante che chiamava la mamma, il papà, Josef.
Riwka svanì così, in un pomeriggio di luglio, mentre il sole batteva sopra il tendone blu del velodromo che lo proteggeva dagli attacchi aerei.


 
 
Mcgee distolse lo sguardo e lo poggiò sul bicchiere di birra, intonso. Gibbs e Tony rimasero in silenzio, lo sguardo perso, inorridito per quel racconto mentre Ziva aveva iniziato a giocare nervosamente con l’orlo della sua gonna.
Quando decise di alzare lo sguardo, incrociò gli occhi verdi di quello che sarebbe dovuto essere suo zio, erano del colore della graminia, di un classico taglio polacco. Nell’iride destro, c’era una piccola scheggia marrone, un tratto che ricordava anche nell’occhio azzurro della madre.

Josef piegò leggermente il capo verso destra. - Non seppi più nulla di lei. – iniziò malinconicamente – Con mia madre o, meglio, lo spettro di mia madre e mio padre fummo portati a Beaune-la-Rolande. Fui separato prima da mio padre, poi strappato anche da mia madre. Solo ed abbandonato con altri bambini,  dopo giornici trasferirono a Drancy dove ci mischiarono con uomini e donne che non conoscevamo. – ridacchio ironico – La gendarmeria credeva che se i cittadini francesi ci avessero visto assieme ad adulti, non avrebbero mai creato problemi. La gente avrebbe creduto che stessero semplicemente mandando famiglie ebree a lavorare all’est. Ci fecero salire sui convogli ed io venni destinato ad Auschwitz. Sopravvissi soltanto perché sembravo più grande della mia età. – socchiuse gli occhi, non disse cosa divette subire o che lavoro gli era stato assegnato all’interno del campo di concentramento ma i suoi occhi parlavano da soli, quindi nessuno chiese e lui proseguì - Dopo la guerra, per anni, passai giorni interi all'Albergo Lutétia in Boulevard Raspail, l'unico posto dove potevamo cercare i parenti dispersi, gli amici… qualcuno…. Ma, ahimè, - sospirò sconfitto – scoprii ben presto che entrambi i miei genitori erano morti e che nessuno sapeva dell’esistenza di mia sorella. Nessun campo portava nelle liste il suo nome, né fra i morti, né fra i vivi. Mi dissero che, probabilmente, era talmente piccola e spaventata da non riuscire a dire il suo nome e che, data l’età, era stata... uccisa al suo arrivo.

Ziva tentennò un attimo. Non riusciva ad immaginare sua madre, bambina di appena quattro anni, essere strappata con tale brutalità dalla propria famiglia, dal proprio mondo. Eppur, era proprio quello che era accaduto anche a lei quando un attentato gliel’aveva portata via. - Non sapevo che mia madre avesse un fratello. - fece una pausa per bagnarsi le labbra secche - In verità, sapevo del Vel’ d’Hiv, sapevo della morte dei miei nonni materni, semplicemente non sapevo di lei.

Josef abbassò lo sguardo, turbato. Sua sorella si era dimenticata di lui?

- Non mi fraintenda, Monsieur – riprese titubante, non sapeva bene quali parole utilizzare - Non credo che mia madre non volesse ricordarlo. Vede, - abbassò lo sguardo chiudendo gli occhi per ricacciare indietro le lacrime. Rivide il viso della madre bagnato di pianto, mentre scorreva lo sguardo sul monumento commemorativo del Velodromo per cercare i nomi dei genitori. – mia madre non ci ha mai raccontato apertamente del suo passato. Fu mio padre a farlo quando portarono me e mia sorella a Parigi. Nel 1992. 50 anni dopo. – ricordò il silenzio della madre, il suo bel abito blu. Ricordò i suoi occhi azzurri.I capelli ricci. Del colore del miele. – Non ci disse nulla e ci portò davanti ad un monumento fitto, fitto di nomi. Io e mia sorella non sapevamo ancora che cosa fosse, non volevamo stare in quel posto dove tutti pregavano e recitavano il kaddish ma… quando vedemmo nostra madre piangere, ricordo che entrambe restammo in silenzio. – Ziva si fissò di nuovo le mani ricordando lo sguardo di Tali – Allora, mio padre mi raccontò la storia di Vel d'Hiv. Mia sorella era ancora troppo piccola per capire, era corsa in lacrime dalla mamma e le si era aggrappata al collo. Mia madre non ci raccontò mai la sua infanzia, né dei nostri nonni... né di suo fratello... per noi era un argomento che non potevamo toccare con lei.

Josef si portò la mano alla bocca dopo aver bevuto altra acqua. - Non ti disse come venne... salvata? - aveva gli occhi lucidi.

In Josef, Ziva rivide gli occhi gelidi della madre che solo poche volte erano riusciti a sciogliersi. Ricordava che, ogni tanto, lei si chiudeva in se stessa e le figlie e il marito sapevano che quello era il momento dei fantasmi, nel quale riviveva la sua infanzia perduta e nessuno sarebbe riuscito a riportarla alla realtà. Il padre le aveva raccontato che Riwka avrebbe voluto chiamarla come la madre: Eliska. Ma dopo averla messa al mondo non era riuscita a dare quel nome allo scricciolo che teneva fra le braccia: era un nome per lei troppo straziante. La sua bambina doveva rappresentare la vita e non la morte.

- Qualche settimana dopo la visita al monumento di Parigi ed al vecchio quartiere popolare ebraico, mia madre mi raccontò che era stata una famiglia contadina delle campagne francesi a salvarla. L’infermiera la fece entrata una rete segreta di bambini che venivano protetti da alcune famiglie parigine in modo che riuscissero a raggiungere le campagne senza essere scoperti dalle milizia. - fece una pausa cercando lo sguardo di Tony - Non mi disse altro. Seppi poi da mio padre che venne presa in casa da una famiglia della borgogna, ma se ne andò per raggiungere Israele. Ha tenuto i contatti con loro per qualche anno, poi ha smesso quando ha sposato mio padre. - Il ricordo della malinconia che sfregiava il viso della madre era forte in Ziva. Non le aveva mai domandato che aspetto avessero avuto i nonni, perché era certa che nemmeno la madre li ricordava. Non c’erano fotografie perché i tedeschi avevano portato via tutto e ciò che era rimasto nel loro appartamento era stato, probabilmente, rubato. Sapeva tramite suo padre che, nonostante la tenera età, anche la madre aveva passato diverso tempo all’ all'Albergo Lutétia. Era un servizio aperto subito dopo la liberazione con l’unico scopo di dare pace ai sopravvissuti francesi che cercavano i propri cari dispersi. Riwka seppe cos’era accaduto ai genitori solamente anni dopo, dalla famiglia che l’aveva presa con loro: Eliska, o lo spettro di se stessa, era stata uccisa ad Auschwitz subito dopo il suo arrivo. Seth aveva resistito fino al 1945 ed era morto di tifo poco prima dell’arrivo dei russi. Ziva aveva chiuso in un cassetto dolore che si portavano appresso i suoi genitori, non voleva ricordare e non voleva parlarne. Non aveva vissuto quei momenti atroci, le umiliazioni, le ingiurie… ma, in quel momento, di fronte a quel vecchio uomo, un sopravvissuto, quel cassetto si era riaperto senza volerlo lasciando uscire ogni immagine, ogni ricordo, ogni parola, ogni racconto…

E quando vide che il viso pallido e sofferente di Josef si illuminò e disse - Allora... allora sono riuscito a salvarla... La mia sorellina è viva. – il suo sussurrò gioioso spezzò il cuore a Ziva.

Lei abbassò lo sguardo e sentì la mano di Tony stringere la sua con forza - Mia madre... – con un amaro sorriso, fissò l’anziano signore mentre ricambiava la stretta - …è mancata nove anni fa.

Josef sbiancò e spalancò gli occhi. - Come...

Ziva si morse il labbro. Non gli disse che fu rimasta coinvolta da un attentato di Hamas e morta qualche giorno dopo per le ferite riportate. Non gli disse che probabilmente, se solo l'avesse voluto, se solo avesse lottato, Riwka ce l'avrebbe fatta. Non gli disse che, oramai, la sua mamma si era spenta già in vita. Non gli disse che si era lasciata morire come un rosa che appassisce perché strappato alla terra. Comprendeva il dolere di quell'uomo e voleva che Riwka restasse nei suoi ricordi come se la immaginava. Come la immaginava lei. Occhi azzurri, guance rosse e capelli ricci del colore del miele. Almeno per quel momento.
Senza aggiungere altro, Ziva prese la borsa, estrasse il portafoglio e tirò fuori una fotografia. Gliela porse mordicchiandosi il labbro.

Josef scambiò prima uno sguardo con Richard, poi allungò la mano tremante per afferrare la foto. Tentennò un istante prima di girarla per vedere il ritratto ma, quando lo fece, si trovò davanti agli occhi il volto fresco e felice della sorellina.
Sorrideva con una gerbera rosso sbiadito fra i capelli mentre teneva in braccio una bambina dai boccoli scuri con in mano un mazzolino di margherite. Lei. Ziva.

Fu in quel momento che Josef scoppiò a piangere. Un pianto composto, silenzioso, un pianto tutto ebraico che Ziva comprendeva bene. Sentiva la mano di Tony che avvolgeva la sua, lo sguardo paterno di Gibbs che la incoraggiava e quello meticoloso e comprensivo di McGee.

Allora, Richard si inginocchiò davanti a lui e gli sorrise commosso - É questa la mia zia? È... identica al ritratto che hai fatto, papà…

Josef annuì e, dopo aver cercato con fatica tremante di estrarre il portafoglio dalla tasca, tirò fuori un foglio di carta giallastro. Era piegato in quattro parti e appariva alquanto consumato dal tempo. Lo aprì febbrilmente e lo porse alla nipote ritrovata.

Lei lo afferrò per posarlo sul tavolo. Immediatamente, di fronte al ritratto a carboncino del viso sereno della madre, sorrise stupefatta – Come ha fatto…

- Mio padre è professore d’arte all’accademia di Brera. Lo disegnò quando ero ancora ragazzo, poi ne fece un altro e lo mise in una cornice a casa. C’è sempre una rosa davanti alla sua foto. È come la immaginava lui… – Richard sorrise mostrando le rughe dell’età attorno agli occhi, rughe che lo rendevano molto affascinate. Si voltò verso il padre che continuava nel suo silenzioso pianto – Usciamo a prendere una boccata d’aria, papà. Ti farà bene. – disse dolcemente.

Pagarono le birre e la cioccolata, indossarono i loro cappotti ed uscirono sotto il bianco cielo novembrino mentre il freddo pungente iniziò a graffiare la pelle di Ziva. Tony la strinse forte a sé sfregandole le braccia con le mani agguantate – Dimentichi sempre la sciarpa, piccola Mossad. Prima o poi prenderai una bronchite. – così, si levò la sua e gliela girò due volte attorno al collo.

Lei sorrise mentre, alle sue spalle, Josef respirava a pieni polmoni l’aria invernale e Richard si accendeva una sigaretta per smorzare la tensione - Sai quando tornerò a casa e lo racconterò alla mamma?!
Josef scoppiò a ridere di gusto. – Credo che, finalmente, non mi prenderà più come un vecchio pazzo rincitrullito!

Ziva, Tony e Mcgee risero mentre Gibbs sorrise rallegrato.

Poi, Josef smise di sogghignare e sospirò mentre il figlio gli si avvicinava per mettergli il cappello in testa, poi gli posò una mano sulla spalla come se gli stesse dicendo ‘Papà, la mamma non ti ha mai creduto un pazzo.’

Zahor. Al tichkah* – disse il vecchio in un sussurro mentre la luce del Rocket Bar gli colorava il viso scarno.
Ziva, udendo quelle parole non poté far altro che ripeterle in un sussurro poi, al fianco di Tony che ancora la stringeva per scaldarla dal freddo, alzò il viso verso il cielo stellato e chiudendo gli occhi, mentre dal cielo iniziavano a cadere dolci fiocchi di neve che le accarezzavano il viso con dolcezza materna, disse – Guarda il cielo. Guarda sempre il cielo… – poi, riaprendoli, sentì le lacrime scendere lungo le guance per abbracciare i fiocchi di neve caduti sul suo viso – Me lo diceva sempre la mamma quando ero triste.
Josef annuì – Lo dicevo sempre alla mia sorellina quando era triste.

Gli occhi di Ziva, che pungevano e bruciavano oramai da ore, liberarono tutte le sue lacrime di nostalgia. Si coprì il volto con la mano per nasconderle, e non poté far altro che lasciarsi stringere dall’affetto di Tony.





*Ricorda. Non dimenticare mai.

Ringrazio tutti coloro che sono arrivati a leggere quest'ultimo capitolo.
I personaggio sono quelli di NCIS, Josef e Richard sono inventati ma non posso dire lo stesso sul Rastrellamento del Velodromo d'Inverno.
Grazie a tutti i lettori ed i recensori che hanno voluto ricordare queste tristi giornate.
Un forte abbraccio.

Ziva Prentiss

https://www.facebook.com/emily.prentiss.161
 
 
 
   
 
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