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Autore: Mo_    17/07/2013    3 recensioni
C’è Serena, che combatte da troppo tempo per un ragazzo che non sarà mai suo e per cui è già fin troppo cambiata; C’è Chris, uno skater dal passato difficile che vorrebbe solo andare avanti e dimenticare, o magari tornare indietro a quando il suo unico problema era scegliere con quale delle centinaia di ragazze uscire; e poi c’è Londra, che fa da sfondo al loro incontro. Tra i suoni dell’underground e le corde di una chitarra, tra lo zampino del destino e la voglia di stare bene, ecco che due perfetti sconosciuti diventeranno l’uno la sopravvivenza dell’altro. E non sarebbe potuto succedere da nessun’altra parte se non a Londra, la città magica, che riesce ad unire persino persone diverse come loro. Perché a Londra niente sembra sbagliato. Ma allora, esiste davvero una differenza tra giusto e sbagliato?
Serena ne era convinta, ora non lo è più così tanto. Due settimane sono bastate a sconvolgere la sua intera esistenza, a cambiarla definitivamente, o forse a farla diventare ciò che infondo era sempre stata.
Lei, proprio lei che a Chris non voleva neanche dire ciao…
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=t_zTX_VZLUg&feature=youtu.be
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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I’m tired and I’m lost,
I don’t wanna be found.
I put my heart and my soul and strength in this now
So forgive ‘cause I won’t forget.
Yeah, this world has changed me.
 
Who are you now – Sleeping with sirens
 

1
Vite parallele.
 
 

Serena

Documenti, biglietti, soldi, occhiali da sole, spazzola, sigarette.
Ok.
Anzi no, manca ancora qualcosa.
Documenti, biglietti, soldi, occhiali da sole, spazzola, sigarette, caricatore dell’IPhone, scatola con i bracciali, trousse dei trucchi, piastra, un libro.
No, gli ultimi due insieme non riesco a farli entrare nello zaino. Lancio via il libro e tengo la piastra che è molto più importante, così finalmente lo zaino è pronto.
Faccio avanti e dietro per la stanza con la sensazione di stare dimenticando qualcosa di fondamentale. continuo così da due ore, giuro che se non esco ora da questa casa impazzisco.
Prima però do un ultimo sguardo all’armadio, giusto per essere sicura di aver preso lo stretto necessario.
(sempre se posso definire “stretto necessario” venti chili di vestiti).
Anche se il clima della mia meta non mi concederà di indossarli, non ho avuto la forza di lasciare qui le mie canotte e i miei shorts preferiti, non era umanamente possibile. Ormai su queste mensole troppo vuote ci sono solo maglioni sformati e vecchie magliette che non uso più. Una di loro attira la mia attenzione, è dei Led Zeppelin e sarà almeno un anno che non la metto. Per qualche motivo decido che anche lei verrà a Londra con me. Chissà, magari una sera decidiamo di omologarci all’ambiente underground giusto per fare qualcosa di diverso, per sfottere qualcuno che lo è davvero. Potrebbe risultare utile.
Riapro e richiudo ancora una volta la valigia, cercando di non pensare al perché io ho una maglia del genere.
La sensazione strana in qualche modo è diminuita, ora sono definitivamente pronta e ho anche un’ora di anticipo. Ho bisogno di uscire, vado a dare un arrivederci plateale a tutti quelli che incontrerò.
La giornata è calda e afosa, esattamente come ti aspetteresti una giornata di fine giugno qui nel Sud Italia. È domenica e in giro non c’è un cane, a parte il mio migliore amico che sta venendo in tutta fretta a salutarmi. Lo riconosco a due isolati di distanza. Sorriso familiare, capelli spettinati ad arte, abbigliamento impeccabile. Lui è una di quelle persone che ti giri a guardare. Lui mi ha reinventato dalla testa ai piedi ed è grazie a lui se sono la ragazza che sono ora, se sono più bella di prima, se conosco più gente di prima, se sono più vicina al mio sogno di prima.
Amo questo ragazzo come se fosse mio fratello.
«Come farò a stare due settimane senza di te?» gli chiedo mentre me lo tengo stretto tra le braccia. L’anno scorso eravamo a Londra insieme, mentre questa estate mi abbandona per andare in Spagna con il suo migliore amico. Migliore amico che, per inciso, è cotto di me. «Non sarà lo stesso»
«Lo sai che vorrei essere con te, ma non potevo deludere Andrea.» mi risponde lui, stringendomi con altrettanto vigore. Ci ero rimasta male quando avevo saputo la notizia, ma non riesco ad incazzarmi con Peppe, è più forte di me. Lui è l’unica cosa stabile della mia vita. «Dai, ci facciamo un caffè sincero? Offro io»
Caffè, ciò di cui ho bisogno. Peppe si che mi conosce.
Così dieci minuti dopo siamo nel bar più in vista della città che, al contrario delle strade, è fin troppo popolato. La gente viene a salutarci, a parlare con noi, in questa piccola città le persone che contano si conoscono tutte.
Ricevo almeno dieci abbracci. Dieci falsissimi abbracci.
Solita procedura: «che mi racconti?» «niente, che tra un’ora prendo un aereo per Londra» «oddio bellissimo, ciao allora». Stop. Abbraccio. I più intraprendenti azzardano anche un «mi mancherai»
Ci scommetterei il mio biglietto aereo che nessuno di loro sente davvero ciò che sta dicendo.
Qui in realtà c’è tanto di quell’odio nascosto dietro bianchi sorrisi da far accapponare la pelle. A nessuno, in questa stanza, importa davvero qualcosa della persona che ha accanto. Si sta insieme per non sentirsi soli, per essere apprezzati, per divertirsi e passare le giornate, ma finisce tutto qui. Ci si pugnala alle spalle ogni volta che è possibile.
Io e Peppe, però, siamo diversi.
Noi di bene ce ne vogliamo davvero, in un modo che gli altri non capirebbero, eppure per tutto il resto siamo omologati a questa gente falsa e schiavista che venderebbe l’anima al diavolo pur di avere un pass gratis per la prossima serata nella discoteca in voga al momento ( e non per non pagare venticinque euro, ma per poter dire agli altri che è riuscita ad avere il pass)
Non mi lamento però.
Del resto sono qui per scelta e finchè sono sicura che ciò che c’è tra me e Peppe è vero posso superare anche questo.
«Ieri Andrea mi ha parlato di te» dice ad un certo punto il mio amico mentre, finito il caffè, mi accendo una sigaretta. L’accendino mi manca, così lo chiedo ad un ragazzo carino seduto al tavolo accanto al nostro. Me lo lancia con un occhiolino, ma non ci faccio caso e torno ad ascoltare Peppe. «Vorrebbe passare del tempo con te, gli piaci e non poco»
Abbozzo un mezzo sorriso.
Andrea è l’unico ragazzo decente che ho conosciuto nell’ultimo periodo, gli altri sono solo inutili arrapati mentali senza un briciolo di cervello. Ad ogni mondo, non riesco ad accontentarmi neanche di lui.
«Non è Andrea che voglio…» lascio la frase in sospeso perché non c’è bisogno di completarla. Non con lui. Peppe sa.
«Serena sono passati tre anni e a Lorenzo ancora non sei riuscita ad arrivare, quanto altro credi di poter aspettare? Quante altre occasioni devi lasciarti scappare?»
Chiudo gli occhi e lascio che quelle parole mi scivolino addosso senza peso. è un discorso sentito e risentito almeno altre cento volte, ma non voglio ascoltare. Se la mia intera vita gira intorno a Lorenzo, come potrei smettere di pensarci? Sono ciò che sono per lui, per cercare, un giorno, di attirare la sua attenzione come lui ha attirato la mia. Questo gli altri non lo capiscono. Non potrebbero.
E senza neanche volerlo fare apposta, in quel momento un ragazzo entra nel bar. Tutti gli occhi si rivolgono verso di lui, su questo ragazzo che brilla di luce propria. Occhi chiari, capelli castano scuro, viso d’angelo.
Il mio cuore parte in quinta.
È Lorenzo.
«Sei una caso perso» commenta Peppe scuotendo la testa. Devo avere gli occhi a cuoricino mentre seguo il suo percorso fino al tavolo dove raggiunge gli amici. Mi sento stupida, ma che ci posso fare? L’amore non si sceglie.
Non è solo per la sua bellezza. Anche tutti i suoi amici sono bellissimi, ma lui ha quel qualcosa in più.
Lorenzo è l’amore della mia vita, lo so.
Oggi, però, devo metterlo da parte.
Mi chiamano i miei, sono andati a prendere le valige da casa e stanno venendo a recuperarmi.
Addio Lorenzo, ci vediamo tra due settimane. È sempre un piacere vederti.
Peppe paga e mi accompagna all’esterno del bar. Non so mai cosa dire in questi casi, gli ultimi due minuti prima della partenza. So solo che mi mancherà, ma mi sembra anche stupido dirglielo dopo tutti quei saluti falsi che ho ricevuto. Peppe mi abbraccia e va bene così.
«So che ami l’aria underground di Londra, ma non lasciarti prendere troppo perché così sei perfetta» mi sussurra nell’orecchio prima di darmi un bacio sulla guancia. La macchina dei miei accosta accanto a noi, è davvero ora.
«Non fare troppo la bella vita senza di me» scherzo sorridendogli.
Mi sorride di rimando.
Salgo in macchina e lo saluto oltre il finestrino, ma saluto anche Lorenzo, senza farmi vedere, che si intravede in lontananza.
Quando la macchina parte sento come se avessi lasciato per terra un fardello che portavo sempre con me. Lascio tutti qui e scappo. Scappo, almeno per un po’, da questa gente paurosamente vuota.
 
Sotto l’insegna del Gate 9 ci sono almeno trenta persone.
Genitori salutati, solite raccomandazioni ricevute, valigie imbrarcate, ora ci tocca solo imbarcare noi stessi.
I capi gruppo, Franco e Wanda, approfittano della compattezza del gruppo per dettare un paio di regole di sopravvivenza, giusto per non essere cacciati dall’Inghilterra già dal primo giorno.
Io e Mic ce ne stiamo in disparte, le abbiamo già ascoltate almeno altre mille volte.
Mic è praticamente la mia compagna di viaggio per eccellenza. Almeno metà dei posti che ho visitato, li ho visitati con lei. Questa è la terza volta che andiamo a Londra insieme. Con lei che si orienta in metro e io per strada non può fermarci nessuno.
«Spero che ci divertiremo almeno quanto l’anno scorso» le dico mentre la fila per il gate avanza leggermente e tutto il gruppo fa un passo avanti, noi comprese. Ci risediamo sulle nostre valigie e aspettiamo. Ancora.
«Certo, anche se non avremo Peppe che dorme nel nostro armadio o che scappa dalle troiette turche»
Ridiamo al ricordo delle nostre avventure dell’anno precedente.
Di Peppe, di Mic, delle nostre coinquiline, dei Francesi, degli Australiani, del cibo schifoso, delle ore passate nell’Abercrombie.
Ne abbiamo combinate di tutti i colori, ma se è vero che il meglio deve ancora venire allora quest’anno dovrebbe essere esplosivo. Non vedo l’ora che la vacanza inizi. Voglio lasciarmi alle spalle tutto almeno per queste due settimane.
«L’unica pecca sarà il college in culo al mondo.»
«St Mary’s University, a Twickenham, zona 3, ovvero a più di mezzora dal centro di Londra» puntualizza lei, super informata su tutto ciò che faremo in queste due settimane. Sbuffo. È relativamente lontano, ma alla fine non mi importa più di tanto. Basta che siamo a Londra. Basta che siamo lontani da qui.
«è il nostro turno ragazzi» grida Franco per attirare la nostra attenzione. Ed ecco che ricomincia lo sbattimento dell’aeroporto, tra documenti, controlli e pulmini per arrivare all’aereo.
Quando finalmente prendo posto sul sedile assegnato tiro un sospiro di sollievo, ora mancano solo tre ore di “relax” su questa macchinetta volante e poi finalmente sarò di nuovo a Londra.
Sarò di nuovo a casa.
Sto già preparando gli auricolari dell’Iphone quando al mio fianco si siede un ragazzo, uno del nostro gruppo dato lo zaino che ci contraddistingue. Alto, biondo e magrolino. Carino nel complesso. Ha anche una faccia conosciuta.
«Dario, piacere» si presenta educato sfoderando un sorrisone. È un sorriso amichevole, quindi mi sta già simpatico. Sono una di quelle persone che si basano molto sui sorrisi.
«Serena» gli stringo la mano che mi offre e continuo a scrutarlo. Sono davvero convinta di averlo visto da qualche parte, ma davvero non riesco a capire dove.
Lui mi anticipa.
«Aspetta, ma tu eri sta mattina al Vox? Credo di averti già vista»
E ora capisco, ora mi è tutto più chiaro.
So chi è lui.
Si chiama Dario D’amato.
Ed è uno dei più stretti amici di Lorenzo.
In questo momento la vacanza prende tutto un altro significato, altro che lasciarsi tutto alle spalle. Questo è il momento di agire.
 
Chris.

Nevermind, nevermind/
I’ve got cigarette and music, I’ll go on/
 
Ci immagino un riff di chitarra, poi la batteria di Ryan e qualche colpo del basso di Lenny.
Ma che cazzo faccio? Sembra la brutta copia di una canzone dei Nirvana.
Cancello tutto, strappo la carta e sono di nuovo al punto di partenza.
Un nuovo foglio troppo incolore che non mi dice niente, la mente in silenzio stampa.
Scarabocchio qualche forma astratta all’angolo perché tutto questo bianco mi sta uccidendo.
«Sei in crisi frocetto?» la voce di Harry arriva amplificata dal microfono che la storpia e la rende ancora più imponente. “Frocetto” è il suo amorevole modo di chiamarci. Gli alzo le due dita contro e lui scoppia a ridere. Il microfono sta volta emette un sibilo assordante. «Ehi, non è colpa mia se qui sei tu il più intelligente»
«Parla per te» controbatte Lenny da sopra l’amplificatore che sta cercando di aggiustare senza però avere molto successo. Riderei se non fossi così stressato.
Lascio perdere tutti e torno sul mio foglio, sta volta mi accendo una sigaretta in cerca di ispirazione. Qui giù sarebbe vietato fumare, ma il proprietario del locale mi adora e se dovesse accorgersi della puzza so che non mi direbbe niente. Anche perché sa in che condizioni sono.
Maledetti i giorni in cui scrivevo testi geniali e pieni di significato, perché le stronzate di ora confrontate a quelle non sanno più di niente. Mi sento come una di quelle band rock che spaccano per i primi due anni della loro carriera e poi deludono tutti i fan vendendosi alla musica commerciale. Non ho più un senso.
Il problema è che ci serve una canzone e anche in fretta, ma io sono l’unico capace di mettere insieme due parole.
Se le canzoni le scrivesse Lenny sarebbero qualcosa di smielato dedicate ad “un ragazzo dagli occhi azzurri” e sembreremmo tutti dei froci; se toccasse ad Harry magari i concetti ci sarebbero, ma non avremmo un vero e proprio testo, più frasi di venerazione nei confronti del sesso, delle tette e della droga e molto, molto, molto scream; Ryan invece, con tutto il bene che gli voglio, non sarebbe proprio capace. Ne uscirebbe una canzone confusa e districata come la sua infinità di capelli, un mix di tutte le canzoni che perennemente in testa.
Quindi meglio lasciare le cose come stanno.
Lenny con il suo basso, Ryan con la sua batteria, Harry alla sua chitarra e allo screm quando serve ed io con la mia voce, la mia chitarra e la mia penna.
Credevo di sapere di cosa dover parlare in un buon testo, ma non è più così. Mi sembra di aver esaurito tutte le idee. Non avrei mai detto che la rabbia di un tempo sarebbe svanita così velocemente.
Non sento più niente.
Ho bisogno di qualcosa di nuovo, cazzo.
 
DAILY LIFE IT’S KILLING ME/
Can somebody save me?/
Nobody will raise his hand/
Well/ go fuck yourself/
 
Un rumore di passi sulle scale mi deconcentra ancora una volta.
Il tipico profumo di rose anticipa l’entrata in sala della nostra reginetta del ballo, dell’anima femminile della band, o anche semplicemente di Georgia.
Georgia, detto sinceramente, non c’entra un cazzo con noi.
Lei è bionda, popolare e ha sempre almeno un accessorio rosa. Credo che ci odierebbe tutti se non mi conoscesse da fin troppo tempo. Si trova nella band grazie (o per colpa?) a me. Volevamo provare ad avere una voce femminile nella band, io ho pensato a lei ed eccoci qui. Il vero problema è che il massimo del rock per lei è Avril Lavigne, con tutto il rispetto per Avril, e che, in genere, odia gli arrangiamenti dei miei testi.
Le parole no, quelle naturalmente no considerando che almeno nel 50 % delle canzoni parlo di lei.
Bella la vita così. Ad ogni modo, noi l’abbiamo voluta e noi ce la teniamo.
Almeno ha una bella voce.
«Buona pomeriggio amori miei, vi ho portato uno spuntino»
Almeno ci porta lo spuntino.
Con lei che ci chiama amori e Harry frocetti, devo dire che stiamo senza dubbio messi bene.
«Prima però me la cantate una canzone? Una di quelle che piacciono a me» domanda facendo la faccia da cucciolo mentre va a sedersi sullo sgabello del bancone più vicino al palchetto. «Tanto gli strumenti sono già tutti collegati»
«Se avessi portato L’ukulele ti avrei fatto una nuova canzone dei Never Shout Never, ma questo non è il tuo giorno fortunato» le dice Ryan avvicinandosi furtivo al cibo poggiato davanti a lei. Georgia lo sposta non appena se ne accorge. La verità è che prima le facciamo la canzone prima si mangia.
Ma si, magari mi viene una canzone stratosferica sul fish and chips.
Mando a fanculo tutti i fogli e con uno scatto lascio la mia postazione per andare a prendere la chitarra. Anche Ryan deve aver fatto il mio stesso ragionamento, perché mi giro e lo trovo già dietro la batteria pronto a seguirmi qualsiasi canzone scelga. Tra quei suoi ricci castani c’è un repertorio infinito di musica.
Ryan è il nostro Juebox vivente.
«Sappiate che le mie orecchie non sopporteranno un’altra canzone di Avril Lavigne, quindi se volete la mia magnifica chitarra trovatevi un altro genere» si impone Harry e lo ringrazio con tutto il cuore.
«Dato che martedì dobbiamo suonare per quella cosa nel mio college decidiamo ora la canzone e la proviamo, così possiamo anche non fare altre prove domani»
Lenny, con il suo tono risoluto e pacato, come sempre ha ragione. Neanche Georgia può trovare niente da ridire, così abbiamo via libera sul genere della canzone, anche perché lei non potrà esserci martedì.
Alleluja, che grande liberazione.
«Fate qualcosa dei 30 seconds to Mars, sono quelli che vi escono meglio» suggerisce Georgia, per una buona volta ha detto qualcosa di sensato. Mi giro verso Ryan. Lui capisce e si mette subito in cerca di una canzone perfetta. Lenny comincia ad accordare lo strumento.
Io accarezzo le corde della chitarra come se fossero i capelli di una ragazza. Finchè la musica non diventa la tua unica speranza, non sentirai mai ciò che provo io ogni volta che suono. La melodia che si crea sotto le tue dita, che scorre nelle tue vene, che ti inebria il cervello. Meglio di buttarsi da un aereo, meglio di qualsiasi droga, ed io le droghe le conosco bene.
Senza musica non ci sarebbe vita, almeno per me.
Precedo Ryan perché la canzone che ho in testa in questo momento mi sembra adatta. The Kill, appunto dei 30stm. Comincio con i primi accordi e subito la batteria si unisce, seguita poi dal basso e dalla seconda chitarra.
Manca solo la mia voce.
Attacco al momento giusto, tra le note giuste, ed è tutto dannatamente armonico. Mi lascio andare, preferisco steccare piuttosto che non metterci il cuore. Georgia è laggiù che mi guarda incantata, ma non sento più niente. Non riesco più a dedicare tutto a lei, non come un tempo.
Lei mi ha stancato. Le voglio ancora bene, certo, però è tutto qui.
Io mi stanco sempre di tutto.
Tranne che della musica.
La canzone finisce e siamo tutti soddisfatti, tutti ubriachi del suono che fino a poco fa usciva dagli amplificatori. Mangiamo e chiacchieriamo tranquillamente, poi  ad uno ad uno ci salutiamo. Prima Lenny che deve farsi più di mezz’ora di treno per mollare il mondo “alternativo” che tanto gli piace e tornare in quello dello studente diligente nel suo college di prima scelta, poi Harry costretto da Georgia a riaccompagnarla in macchina a casa e infine io e Ryan.
Mettiamo tutto in ordine, salutiamo il padrone di lì e usciamo dal locale già pieno di gente. Siamo al centro di Soho, il secondo quartiere che più amo di Londra (il primo è sicuramente Camden Town). Buttiamo lo skateboard per terra e giriamo per queste strade che conosciamo anche troppo bene parlando del nuovo disco degli Sleeping with sirens, dei progressi di Ryan con l’ukulele e del contest per cui ci prepariamo da una vita.
Tra le strade di Londra, con lo skate sotto i piedi e la chitarra sulla spalla mi sento capace di conquistare il mondo. Così mi rilasso un po’. Troverò qualcosa per la mia canzone.
Perché cazzo questa è Londra e a Londra può succedere di tutto ogni giorno.
Non resterò apatico per sempre.
Scriverò la canzone migliore della mia vita.
 
 
 
Prima o poi…

   
 
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