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Autore: jas_    17/07/2013    2 recensioni
«Ricordi il giardino di tua madre, te lo ricordi?»
Annuii, «come dimenticarselo» dissi acida, tirando su col naso.
Pierre mi asciugò una lacrima col pollice e mi accarezzò una guancia senza smettere di guardarmi.
«Tu sei come una di quelle primule che io ti ho aiutato a portare in casa quando ci siamo conosciuti, sei bellissima e hai tanto da dare se solo... Se solo riuscissi a tirare fuori il coraggio! Ti nascondi sempre dietro a questi occhi tristi, so che è difficile ma così non fai altro che renderti piccola. Io vedo cosa sei, so il tuo potenziale, sei come una primula in inverno. Fa' arrivare la primavera e sboccia, mostrando i tuoi colori veri.»
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Pierre Bouvier
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Endless love'
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Capitolo 18

 


Posai lo sguardo sulle persone sedute di fronte a me prima di arrestarmi sul volto concentrato di Alice, intenta a leggere una rivista di gossip.
Mi sentivo a disagio in mezzo a tutte quelle mamme e mi maledetti per aver accettato di accompagnarla alla visita dal ginecologo.
«Vado a prendere un caffè» l'avvertii, bisbigliando per non seppi quale motivo. «Vuoi qualcosa?»
Alice scosse la testa posando la rivista sul tavolino di fronte a noi, «no, però ti accompagno.» 
Annuii ed istintivamente l'aiutai ad alzarsi dalla sedia, mancava poco al parto ormai, e insieme ci dirigemmo verso la macchinetta che avevo visto nel corridoio, quando eravamo arrivate in ospedale.
«Mi sentivo a disagio in mezzo a tutte quelle donne incinte» ammisi, mentre selezionavo un caffè ristretto.
Alice sorrise, «prima o poi lo sarai anche tu, no?»
La guardai scettica, «più poi che prima. Serve avere l'uomo giusto prima di mettere al mondo un figlio» spiegai.
Solo allora mi resi conto della gaffe che avevo fatto, Alice era sola, l'uomo giusto - che evidentemente non era poi così giusto - l'aveva abbandonata nell'istante stesso in cui aveva scoperto di stare per diventare padre. Arrossii dall'imbarazzo e le diedi le spalle con la scusa di dover ritirare il caffè ormai pronto, «scusa» mormorai, mortificata.
Sentii Alice sorridere e posarmi una mano sulla spalla, «tranquilla, hai ragione e capisco il tuo ragionamento, vedrai che l'uomo giusto arriverà.»
Mi sforzai di increspare le labbra ma l’unica cosa che ne uscì fu una smorfia incerta, «non c'è fretta, per ora sono contenta di stare per diventare zia» sdrammatizzai, appoggiando la mano sul pancione di Alice.
Lei mi guardò divertita prima di tornare nella sala di attesa, stavamo per sederci su due sedie vuote quando un'infermiera fece capolino nella stanza e la chiamò.
La osservai, incerta sul da farsi, ma lei mi fece segno di seguirla.
Mi sentivo a disagio, avevo sempre odiato gli ospedali, il loro odore asettico, il loro silenzio e l'atmosfera tesa che aleggiava sempre nell'aria. In realtà il reparto maternità era il più bello che ci fosse ma sapere che poco lontano da lì c'erano persone con malattie, più o meno gravi, o gente che rischiava la vita mi faceva provare soltanto angoscia.
«Allora, come stiamo?» domandò subito il ginecologo, non appena io ed Alice facemmo il nostro ingresso nella sala del dottore. «Oh, vedo che abbiamo visite!» aggiunse poi, non appena mi vide.
Lo salutai imbarazzata e mi sedetti su una sedia che probabilmente era quella su cui si sedevamo i padri dei bambini, o per lo meno era quello che avevo sempre visto nei film, in realtà era la prima volta che vedevo un ginecologo al lavoro dal vivo.
Il dottore prese subito un tubetto di gel trasparente e lo spalmò sulla pancia di Alice che nel frattempo si era alzata leggermente la maglietta.
Guardai con sincero interesse ogni gesto che veniva compiuto, il dottore sembrava simpatico ed esperto, canticchiava mentre svolgeva delle azioni che molto probabilmente per lui erano diventate una routine. Era un uomo sulla sessantina, i capelli brizzolati e leggermente mossi e un'espressione perennemente felice dipinta sul volto. Indossava degli occhiali da vista rotondi con la montatura fine color oro, mi resi conto che assomigliavano vagamente a quelli di Babbo Natale e provai ad immaginarmelo con la barba folta e lunga.
«Lo vedi quello? Quello è un braccio del bimbo» spiegò ad un certo punto, facendomi distrarre dai miei pensieri.
Il viso di Alice si aprì in un sorriso emozionato mentre osservava il monitor quasi completamente nero, io mi sforzai di apparire altrettanto entusiasta nonostante in realtà non ci stessi capendo molto. L'unica cosa che vedevo erano delle macchie informi che potevano essere un bambino così come potevano essere qualunque altra cosa ai miei occhi, tuttavia l'espressione felice della mia amica mi fece ricredere. Non era sicuramente la prima volta che faceva un'ecografia, eppure vederla così commossa di fronte a quelle immagini mi fece sentire improvvisamente fredda e senza cuore, forse io non ero adatta a diventare una madre, non ero nemmeno in grado a mantenere in vita un pesce, figuriamoci crescere un bambino.
«Lei sa se è maschio o femmina?» domandai poi, cercando di interpretare le immagini.
Il dottore mi sorrise divertito ed annuì, «ma Alice non vuole sapere il sesso del nascituro, vero?» disse, rivolgendosi infine a lei.
«Ma io non posso saperlo? Insomma, non so se comprare le tutine rosa o azzurre» osservai, pensierosa.
«Potresti prenderle bianche» suggerì lui, togliendo l'apparecchio dalla pancia di Alice e pulendola con un tovagliolo.
Sbuffai e mi alzai dalla sedia, raccogliendo la borsa che avevo appoggiato per terra quando mi ero seduta.
«Grazie dottore, alla prossima» lo salutò Alice stringendogli la mano.
«Ci vediamo fra tre settimane allora, quando probabilmente cominceranno le contrazioni.»
«Arrivederci» dissi io, sforzando un sorriso e seguendo Alice fuori dalla sala.
«Tre settimane?» ripetei scioccata, mentre attraversavamo i corridoi dell'ospedale.
Alice annuì per niente preoccupata, «già, salvo stravolgimenti vari. Vero?» disse, rivolgendosi infine al pancione che stava accarezzando.
Sorrisi lievemente nel vedere quel gesto di affetto, «hai già scelto il nome?» chiesi.
Lei annuì, «Clara se è una femmina e Jonathan se è un maschio.»
Rimasi in silenzio riflettendo sulla risposta, «Clara Martin» dissi soprappensiero, «suona bene» decisi poi, sorridendo.
Alice fece una smorfia compiaciuta, «anch'io sento che è una femmina, Chuck invece è convinto che sia maschio.»
«I maschi non capiscono niente» osservai, «e Chuck è di parte» dissi ridendo.
«Forse, ma è molto gentile, mi sta aiutando molto...»
Rallentai il passo guardando Alice e cercando di trattenermi dal ridere, lei non era per niente disturbata, anzi, aveva un'espressione serena dipinta sul volto che infondo le invidiavo.
«Sarebbe un buon padre» buttai lì con nonchalance, prendendo a guardarmi in giro.
Alice si arrestò di scatto e si voltò a guardarmi, «che cosa stai insinuando?»
La guardai confusa, «io? Niente!»
«Lola...»
Rimasi a guardarla in silenzio, con fronte e sopracciglia aggrottate, ma lei non cedette, anzi, si mise a braccia conserte e cominciò a tamburellare nervosamente un piede a terra.
«Okay» esalai, allargando le braccia, «secondo me tu e Chuck stareste bene insieme, contenta?»
Alice mi guardò muta e poi riprese a camminare, «non dici niente?» domandai sorpresa, allungando il passo per raggiungerla.
«Cosa dovrei dire?»
«Non so, che lo sai, che piace anche a te, che vivrete felici e contenti.»
Alice rise, «io è Chuck ci conosciamo da anni, è ovvio che tra di noi ci sia una certa alchimia ma stai tranquilla che non è amore» mi rassicurò.
«Tu dici? Il modo in cui ti guarda secondo me è più che carico d'amore.»
«Piuttosto che interessarti alla mia vita privata, pensa alla tua» ribatté, «un uccellino mi ha detto che tu e Pierre vi siete baciati.»
«Fammi indovinare, un uccellino di nome Lou?»
Alice si lasciò scappare un sorriso ed annuì, «che mi dici a riguardo?»
«Niente, confermo ciò che l'uccellino ti ha riferito» ribattei.
«E poi? È successo qualcos'altro?» continuò lei curiosa.
«Piuttosto che interessarti alla mia vita privata, pensa alla tua» le feci il verso, mostrandole poi una smorfia.
Alice gonfiò le guance irritata, «non vale!» esclamò poi, «sono una donna incinta e non puoi farmi rimanere così in ansia!»
Mi strinsi nelle spalle, «non è colpa mia» dissi, sorridendo sardonica.
«Va bene» affermò decisa, «volevo chiederti se volessi essere la madrina del bambino ma se proprio la metti così credo chiederò a qualcun altro...»
Mi arrestai di scatto e guardai Alice, soddisfatta della mia reazione, lo sapeva di avere colpito nel centro.
«Sei una stronza» borbottai.
Lei si strinse nelle spalle, «faccio quello che posso.»
«Lo sai che i bambini non sono la mia priorità ma sapere che hai scelto me e poi cambiato idea per questa minuscola discussione mi fa...» rimasi in silenzio e sbuffai alzando gli occhi al cielo. «Okay» le concessi poi, «ti racconterò tutto ma ci conviene andare a sederci da qualche parte perché è una storia lunga, c'entra anche mio cognato.»
 
Avevo sempre amato la casa di Gigì, una graziosa villetta color panna situata in una zona residenziale poco lontana dal centro di Montreal.
Era pomeriggio, probabilmente Ryan era al lavoro - o almeno lo speravo - così che avrei potuto parlare in tutta tranquillità con mia sorella.
Erano passati alcuni giorni da ciò che era successo, non ne avevo fatto parola con nessuno se non con Pierre, Lou e Alice quella mattina, non l'avrei mai detto a mia mamma e nemmeno a Gigì a meno che ci fosse stata la necessità. Era il mio asso nella manica, la mia ultima spiaggia nel caso mia sorella si fosse dimostrata intenzionata a fare finta che tutto andasse bene e continuare a essere presa in giro.
Suonai il campanello ed attesi impaziente che qualcuno mi venisse a rispondere, dopo interminabili secondi di silenzio Gigì fece capolino alla porta e nell'istante in cui mi vide le sue sopracciglia si inarcarono notevolmente, facendole aggrottare la fronte.
«Lola!» esclamò sorpresa, «che ci fai qua?» domandò, facendomi strada all'interno della casa.
Tolsi la giacca e la appoggiai sul divano con la borsa prima di seguirla in sala da pranzo e sedermi al tavolo.
«Ero da queste parti...» buttai lì, «non posso fare visita alla mia sorellona?»
Gigì mi guardò poco convinta, «certo» disse poi, sforzando un sorriso. «Mi stavo preparando del tè, lo vuoi anche tu?»
Annuii alzandomi di lì e dirigendomi verso il camino sopra il quale erano appese delle foto che avevano attirato la mia attenzione.
«Ryan non c'è?» chiesi poi, osservando una foto del loro matrimonio.
«No, è al lavoro, dovrebbe rientrare per cena però.»
Non risposi, continuai ad osservare le fotografie disposte ordinatamente, Ryan e Gigì, Ryan e i bambini, Gigì e i bambini, tutta la famiglia al completo.
Improvvisamente mi sentii un'ipocrita per quello che avevo intenzione di fare, infondo che diritto avevo io di intromettermi nella vita di mia sorella? Se a lei stava bene così, perché dovevo farle cambiare idea, farle lasciare Ryan? Mi feci attanagliare dai dubbi e per un attimo ebbi la fugace idea di lasciare perdere tutto, poi però mi tornarono in mente gli avvenimenti di alcuni giorni prima, le mani forti di Ryan che mi stringevano i polsi, il cuore che mi scoppiava nel petto dalla paura, e decisi che lo stavo facendo per il bene di mia sorella, dei miei nipoti, e infondo anche di mia madre nonostante fossi certa che non avrebbe preso certamente bene la notizia.
«Lola, il tè è pronto» mi avvertì mia sorella, facendomi destare dai miei pensieri.
Sforzai un sorriso e tornai al tavolo che nel frattempo era stato apparecchiato con biscotti, zucchero e due tazzine fumanti.
«Jack e Jill sono a scuola?» domandai, mentre prendevo lo zucchero e lo mettevo nella tazza.
«No, sono ad un compleanno, devo andare a prenderli tra mezz'ora.»
Annuii lievemente, «allora devo fare veloce» dissi, soffiando sul tè bollente.
Gigì mi guardò confusa, «fare cosa?»
«Da quant'è che sai che Ryan ha un'altra?» chiesi decisa, senza alcun tono di accusa o di critica.
Lei mi guardò completamente spiazzata dalla mia domanda, era palese che non si aspettasse un'uscita del genere nonostante avrebbe potuto arrivarci, infondo cosa potevo farci io a casa sua quando l'ultima volta che ci ero stata era quando si era trasferita?
Ero sempre stata via, sì, ma io e Gigì non avevamo ma avuto un bel rapporto sin da piccole, da quando ne avevo memoria.
Lei era sempre stata la migliore, la più grande, la più elogiata, la più pacata nei modi di fare, la più educata, la più intelligente, la più obbediente, la più tutto. Ero cresciuta nella sua ombra, avevo passato la vita ad essere paragonata a lei e ad essere perennemente criticata per non essere come lei, anzi, mia madre continuava a farlo, e lei non si era mai sforzata di porre fine a questi continui confronti dai quali ne era uscita sempre vincente. 
Nonostante il nostro rapporto non esattamente amorevole io ci tenevo comunque a Gigì e sapere che si trovava in quella situazione, che si lasciava trascinare dagli eventi e che stava con un uomo che non la amava, beh, quello non lo accettavo.
«Come fai a saperlo?» mormorò lei, così a bassa voce che feci fatica a capirla.
«Non ci è voluto molto a capirlo, tu che ti agiti alla semplice domanda "dov'è Ryan?" E che dai due diverse risposte a me e alla mamma, ho semplicemente fatto due più due» spiegai, addentando un biscotto al cioccolato.
«Cosa vuoi sentirti dire? Che la mia vita perfetta non è poi così perfetta? Che in realtà Ryan non mi sfiora da più di un anno se non in presenza di altre persone?»
«No, Gigì» la richiamai, dispiaciuta e sorpresa che lei pensasse che io potessi farle una cosa del genere. «Voglio solo il tuo bene» le spiegai cercando di mantenere un tono tranquillo, «lascialo.»
Gigì rimase in silenzio, «s-stai scherzando?» riuscì a borbottare poi.
Scossi la testa, «è inutile andare avanti così, che motivo c'è di rimanere con lui quando potresti tranquillamente lasciarlo perdere?»
«E i bambini? E la mamma? E le persone? Cosa penseranno tutti?»
Presi tempo, sapevo che sarebbe stata dura, sapevo anche che Gigì teneva molto all'opinione altrui e che considerasse il divorzio come una sorta di fallimento ma in certi casi, come quello, era la soluzione migliore.
«Ai bambini non fa nemmeno bene crescere in un'atmosfera del genere» le spiegai, «la mamma capirà, sei una persona umana, puoi sbagliare anche tu, e poi non è colpa tua se Ryan è un idiota. Per quanto riguarda le persone... Lasciale perdere, tutti avranno sempre qualcosa da ridire su di te, a prescindere.»
«Lola, non capisci...»
Sospirai, «capisco, più di quanto tu possa immaginare, ma devi smetterla di lasciarti condizionare così dall'opinione altrui, hai passato la tua intera vita a vivere in funzione di quello che poteva o no pensare la gente, è ora di fare qualcosa per te.»
Gigì mi guardò impassibile, cercai di trovare un segno di cedimento in lei ma niente, sembrava pietrificata, l'unico rumore che si sentiva era quello delle lancette dell'orologio appeso al muro.
«Devo andare a prendere i bambini» disse poi, dopo infiniti attimi di silenzio durante i quali non avevamo smesso di osservarci.
Sospirai e mi alzai dal tavolo, «fai come vuoi allora, continua a vivere in questo inferno e dormi ogni notte con un uomo che se ne scopa un'altra» sbottai, prendendo la giacca ed andandomene sbattendo la porta.





-

 

Eccomi qua!
Sono vergognosamente in ritardo, e vi chiedo perdono.
Scusate ma sono di fretta, spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie mille per le recensioni che mi avete lasciato!
Alla prossima!
Jas




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