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Autore: Birra fredda    19/07/2013    1 recensioni
La vita normale non è per tutti. Con vita normale intendo un qualcosa tipo: genitori rompiscatole, non permissivi, che credono i figli adolescenti dai santerelli del sabato sera, scuola odiata, professori visti come satana, compagni di classe con cui combinare solo guai, tanti trip in testa, escogitare modi per andare alla festa del secolo senza dire nulla ai genitori o mettere da parte dei soldi per il nuovo tour degli U2.
Ma io mi chiamo Nicole Haner mica per nulla, eh. E sono la figlia di Brian Elwin Haner Jr., meglio conosciuto come Synyster Gates, chitarrista degli Avenged Sevenfold, mica per nulla.
La mia vita non è normale, e proprio non so come potrebbe esserlo.
Genere: Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'You will always be my heart.'
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Papà guida in silenzio e, anche se il mio viso è quasi totalmente rivolto al finestrino, mi rendo conto che ogni tanto mi guarda dispiaciuto.
Oggi dopo pranzo, a scuola, ho detto ai miei amici che sarei andata da uno psicologo. Stavamo rimettendo i libri negli armadietti, e per la sorpresa Nathan ha lasciato cadere il volume enorme di matematica, che ha prodotto un tonfo sordo.
“Da uno strizzacervelli?” ha detto poi il più piccolo con voce acuta.
“Abbassa la voce, idiota” gli ho sibilato per tutta risposta, per poi sbattere con violenza la porticina dell’armadietto.
I due Sanders mi hanno guardata con dipinte in viso delle espressioni tra lo stranito e l’incredulo. Cherie ha sospirato e si è avvicinata a me.
“Vedrai che andrà tutto bene” mi ha detto Ali.
“Non preoccuparti, questo non significa che hai un qualche problema di mente. Credo che ti farà bene sfogarti” ha fatto Cherie, poggiandomi una mano sulla spalla.
Io ho sbuffato sonoramente e mi sono lasciata andare con le spalle contro al fila degli armadietti così dannatamente anonimi, che odio, esclamando: “Che palle!”
Una volta a casa nessuno ha accennato al fatto, neanche papà. Solo prima di uscire mi ha detto: “Nic, tra poco andiamo. Preparati.”
Non ha nominato lo psicologo né ha alluso al posto in altro modo, come se fosse tutto impronunciabile. Come se parlandomi così potesse indorarmi la pillola.
Mi sono sentita come se davvero avessi qualche problema.
“Vedrai che ti sarà d’aiuto” mi dice papà, svoltando improvvisamente a destra senza mettere la freccia.
Io sospiro e annuisco appena. Papà accosta davanti a un palazzo bianco che mi pare tanto un rettangolo messo verticalmente. Già non mi piace questo posto, non è un buon inizio.
Scendo dall’auto senza salutare e mi dirigo lentamente al portone, suono il campanello con scritto Dott. Baker. Sorrido pensando che se porta lo stesso cognome di Zacky posso solo sperare che sia un caso del destino, e che il dottore non somigli neanche vagamente a Vee. Il portone si apre con uno scatto, così entro e salgo per le scale fino al terzo piano.
La sala d’attesa è piccola e ci sono solo quattro sedie rosse, basse e scomode per accomodarsi. È vuota, così comincio a camminare avanti e indietro nervosamente.
Passano forse dieci minuti o poco meno, quando un ragazzo esce da uno stretto corridoio.
“Arrivederci, dottore. E grazie! Alla prossima settimana” dice. Conosco la sua voce, e non appena attraversa la sala d’attesa entrambi ci blocchiamo.
Alto quanto me, grosso il doppio, con i capelli color rossiccio carota e una spruzzata di lentiggini sulle guance, Lorenz mi fissa con un sopracciglio alzato.
“Vi conoscete?” ride una voce adulta.
Accanto a Lorenz compare un uomo sulla cinquantina, con i capelli brizzolati e un filo di pancetta. Sia io che il ragazzo annuiamo con la testa, poi lui si dilegua.
“Bene, Nicole, puoi accomodarti.”
L’ufficio non mi piace per niente; non che mi aspettassi il contrario, comunque. Le pareti solo color giallo sporco e sono addobbate con tanti quadri. Ci sono riconoscimenti, la laurea, fotografie di bambini, fotografie di famiglie.
Mi siedo di fronte all’uomo, dal lato opposto alla scrivania.
Lui mi scruta grattandosi il mento, mentre io stringo a pugno le mani. Mi innervosisco sempre quando mi guardano come se dovessero radiografarmi.
“Dunque hai cercato di suicidarti...” osserva l’uomo.
Perspicace!, penso irritata. Perlomeno l’uomo non assomiglia neanche vagamente a Zacky.
“Vuoi parlarmi di come è andata?” mi chiede cordialmente.
No.
“D’accordo” sussurro a capo chino. Prendo un respiro. “La prima volta ho tentato di gettarmi dal quinto piano di casa mia, mentre la seconda volta volevo tagliarmi le vene.”
“E ora? Ora cosa faresti?”
Trattengo il fiato, interdetta. Non ci avevo pensato, non so che dire. Ora che farei?
Non voglio esistere, ma uccidendomi provocherei solo ulteriore dolore a mia madre. E papà sta per andare via di casa…
“Forse tra qualche mese… quando in famiglia le cose si saranno stabilizzate...” dico alzando la testa e guardando il dottor Baker negli occhi per la prima volta.
Se prima non avevo colto nessuna somiglianza con Zacky, ora l’ho trovata con The Rev. Il dottore ha gli occhi azzurri, cioè: di quel particolare azzurro indefinibile che caratterizzava anche gli occhi di Jimmy.
“Parlami di tuo padre. So che è un chitarrista piuttosto famoso, ma non so altro di lui. Come si comporta con te e con il resto della tua famiglia? E con la sua  band?”
“Deve cercare di salvarmi la vita, o vuole scrivere un articolo su Synyster Gates?” chiedo irritata.
“Ti prego, dammi del tu” mi dice lui, infastidendomi ulteriormente. Che cazzo importa se parliamo dandoci del tu o del lei?! “Nicole, io voglio aiutarti” continua, sorridendo gentilmente. “Per farlo mi servono informazioni su di te, sulla tua vita e sulle persone che ti sono vicine. Se non vuoi parlarmi di tuo padre nello specifico, puoi raccontarmi un po’ della tua famiglia, o dei tuoi amici, o della scuola.”
“Papà non è proprio un classico tipo di padre” dico con voce dura, “ma non solo perché quando va in tour possiamo non vederlo per un mese intero”. Sospiro. “A mio padre non importa se io e miei fratelli andiamo male a scuola, sa che fumo e a volte mi offre le sigarette, è un tipo di padre che non si vergogna di averci insegnato le parolacce e non si preoccupa se la sera tardiamo senza avvisare. È un padre fuori dal comune, credo.”
“Bene. E con i suoi amici, la band, com’è?”
“Quando sta con loro torna ad avere vent’anni. Ride sempre, e non per colpa dell’alcol, fanno giochi stupidi, ritornano con la mente ai tempi felici in cui il Rev era ancora con loro…”
“Jimmy?”
Ah, allora sa qualcosa sugli Avenged Sevenfold.
“Sì, Jimmy” borbotto.
“Sai, ai tempi di Nightmare ero fidanzato con una fan sfegata degli Avenged Sevenfold, così so un po’ di cose riguardo questo Jimmy e la sua morte.”
Pianta i suoi occhi azzurri nei miei, così maledettamente identici a quelli di mio padre. Così odiosamente scuri.
“Tuo padre ha sofferto per la morte del suo amico?”
“Ne soffre ancora molto” rispondo con convinzione. “Era il suo migliore amico.”
Lo psicologo socchiude gli occhi e corruga la fronte, tornando a grattarsi lentamente il mento.
“Quando hai provato a suicidarti la prima volta, cos’è stato a fermarti?” mi chiede dopo qualche lungo istante.
Abbiamo cambiato troppi argomenti in troppo poco tempo, a mio parere. E il dottore non sta neanche appuntando ciò che gli sto raccontando! Come diavolo farà a rimettere insieme tutte le mie parole, tirare fuori il mio problema e riuscire ad aiutarmi?
“È stato Johnny, il bassista dei Sevenfold” rispondo a voce bassa.
“Raccontami com’è andata” dice il dottore brusco.
“Sono salita al piano più alto di casa mia: in soffitta, al quinto piano” gli dico distaccata. “Mi sentivo confusa e tremavo continuamente bevendo del whisky. Volevo ringraziare mio padre per aver costruito una casa così alta, ma al contempo avevo paura di rompermi solo una gamba” racconto a voce più alta. “Mi sono arrampicata sul davanzale della finestra e mi sono convinta che avrei guardato il panorama più bello del mondo per l’ultima volta.”
Deglutisco, cerco disperatamente di descrivere l’accaduto senza scoppiare a piangere e senza mostrarmi troppo fragile. Non voglio che quest’uomo creda che sono così debole da non riuscire neanche a raccontare un fatto accaduto mesi fa.
“E...?” mi sprona lui.
“Da casa mia si vede il centro di Huntington Beach e la spiaggia” proseguo a raccontare. “Di notte non si capisce dove termina il mare e dove comincia il cielo, e ho sempre adorato questo particolare. Così volevo morire con questa immagine stampata nella mente.” Sospiro prima di ricominciare. “Ma è arrivato Johnny. Mi ha tirata giù dal davanzale, mi ha strappato la bottiglia di Jack Daniel’s dalle mani e mi ha invitata a sedermi al suo fianco.”
“E avete parlato?”
Annuisco col capo, sentendo una strana stretta all’altezza del petto. Come se il ricordo delle parole dello gnomo mi provocassero fitte al cuore.
“Lui mi ha raccontato che una volta, quand’avevano circa vent’anni, anche mio padre ha cercato di suicidarsi. Mi ha detto che loro lo hanno salvato, e che io non avrei potuto impedirgli di salvare anche me. E... e ha concluso dicendomi che per me ci sarebbe sempre stato.”
“Come ha tentato tuo padre di suicidarsi?” incalza il dottore, senza più neanche sforzarsi di sorridere o di utilizzare un tono anche solo vagamente gentile.
D’accordo, questa conversazione sta diventando terribilmente pressante.
“Tagliandosi le vene, proprio come ho fatto io la seconda volta.”
Lui annuisce e abbassa lo sguardo fino a farlo scivolare sulle mie mani. Le mie nocche sono diventate bianche per quanto stanno stringendo il bordo di legno della scrivania.
Porto velocemente le mani in grembo, poi torno a guardare negli occhi lo psicologo Baker.
“Perché hai tentato di nuovo di ucciderti?”
Volevo tornare a sorridere.
“Lei non può capire” affermo gravemente, con una convinzione che mi sorprende.
Lui sorride appena. “Puoi darmi del tu, Nicole. E, comunque, io posso capirti. Ho studiato anni e anni al fine di poter capire la persone, e di casi simili al tuo ne ho già incontrati a bizzeffe.”
Mi irrigidisco. Sto raccontando a un uomo di cui conosco solo il nome e la professione dei miei segreti più intimi. Mi immagino Lorenz seduto al mio posto, o altre centinaia di adolescenti che cercano di spiegare il perché delle loro azioni a quest’uomo.
Ma il dottor Baker le mie parole le ha già sentite da altre bocche, altre nocche hanno già stretto convulsamente il bordo di questa scrivania, altri ragazzi si sono irrigiditi su questa sedia bianca.
Mi alzo di scatto, facendo scomparire il sorrisetto dal volto del dottore.
“Dove vai? Scappi?”
Sì, scappo. Sono una codarda e mi ritiro nel mio mondo di sofferenze. Tanto a lei che importa? Dopo di me ci sarà una donna stuprata e potrà nuovamente ascoltare parole già ripetute da altri.
“Vado via” dico con una durezza nella voce che non credo di aver mai posseduto prima di oggi.










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Ciao :3 come state?
Questo capitolo diciamo che mi piace abbastanza, ma il prossimo, che è già pronto, è quello che non vedo l'ora di farvi leggere :)

Grazie mille a tutti quelli che hanno messo questa FF tra le preferite e tra le seguite, siete bellissimi.
Echelon_Sun
  
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