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Autore: Bethesda    23/07/2013    2 recensioni
"[...]Tuttavia non riuscivo a sopportare l’idea che in così tanti mesi fosse svanito nel nulla. Certo, Holmes ne aveva le capacità, ma non lo ritenevo leale nei miei confronti, e ciò provocava in me un’enorme frustrazione, che si ripercuoteva sul mio comportamento rendendomi scorbutico e poco propenso alle parole. E quando la rabbia svaniva prendevano il suo posto la preoccupazione e il terrore di averlo perso per sempre, magari a causa di un qualche nemico a me sconosciuto, miglia e miglia lontano da me."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Diario di un Consulente Criminale'
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Cap III
 
Montpellier era indubbiamente una cittadina di gran fascino: il sole estivo la riempiva del frinir delle cicale nascoste fra le fronde degli alberi, del ciacolare di comari e anziani, e dei sospiri degli studenti che frequentavano la prestigiosa università, pronti a subire gli ultimi esami. Non che fossero molte le facoltà racchiuse in quell’ateneo, ma la fama della sezione riservata alla farmacia possedeva una gran nomea sin da quando Napoleone la fece riaprire nel 1803, e da allora fu sempre un crescendo. Proprio per questa ragione io ed Holmes vi trovammo rifugio: scoprii infatti che, durante la sua lunga fuga, il mio amico aveva prestato servizio presso le aule di chimica, e che il rettore stesso aveva provato un gran dolore quando l’improbabile ricercatore Basil Sigerson si era allontanato dai laboratori.
Il ritorno di Holmes fu dunque accolto benevolmente, e, nonostante le lezioni fossero ormai al termine, riuscimmo a sostare in città per svariate settimane, lasciando che io godessi di un’aria diversa da quella che avevo respirato fino ad allora lungo il Tamigi, mentre Holmes avvelenava la propria con reazioni ed esperimenti spesso tossici.
 
Lo sapevo in contatto costante con personaggi a me oscuri, ma ero troppo stanco per domandare: qualunque cosa Holmes stesse facendo, ero troppo occupato a ritrovare quella pace che per tanto tempo avevo agognato, e il sole sul volto, le lunghe passeggiate e i buoni libri – benché fosse difficile riuscire a trovare materiale in inglese – furono per quel periodo un calmante eccezionale.
Quando lasciammo Londra in fretta e furia, mai avrei pensato che sarei andato incontro a qualcosa di talmente piacevole.
 
Risiedevamo entrambi in alcune stanze, in cui Holmes aveva già pernottato durante la sua precedente visita. Abbastanza spoglie, ma in maniera gradevole, senza il caos perpetuo con cui si doveva costantemente convivere al 221B. Davano su una delle piazze della città, contornata da alberi e con al centro una fontana, in cui i ragazzini e i bambini più piccoli giocavano, stando ben attenti a fuggire non appena si fosse avvicinato un qualche poliziotto. Nelle ore più calde era piacevole lasciar passare l’aria dalle finestre, anche se questo piacere spesso includeva unicamente il sottoscritto: Holmes spesso rimaneva chiuso in camera a terminare i suoi esperimenti, se non addirittura in facoltà. Tuttavia ogni tanto si concedeva con il sottoscritto una passeggiata lungo il mare, e tutto si rivelava così straordinariamente pacato e rilassante che quasi la mia mente lasciava scivolare via il vero motivo della nostra presenza in quel luogo.
 
Un ulteriore aspetto positivo della Francia era che, benché ovviamente vi fossero una serie di regole da rispettare per decenza, non dovevo temere di finire in carcere per il semplice sospetto che fra me e Holmes vi fosse qualcosa in più di un’amicizia, e le occhiate languide che qualche volta ci concedevamo erano sicuramente indicatrici di un certo interesse.
Ovviamente i nostri atteggiamenti non risultavano mai scabrosi, e nessuno, durante la nostra permanenza, fece allusioni alla nostra convivenza, al fatto che, al di fuori del lavoro di Holmes, fossimo sempre assieme, e al fatto che io fossi comparso dal nulla e, nonostante ciò, fossi l’unico capace di stare accanto ad Holmes e di farlo parlare e, nelle giornate migliori, ridere di gusto.
 
Mi rendevo conto, tuttavia, della tensione che ci avvolgeva: Holmes era spesso sospettoso e cercava di non dare eccessivamente nell’occhio, tanto che mi erano stati procurati identità e documenti falsi. Ero sempre un dottore, un collega di Holmes, ma il mio nome era Michael Bones, originario dell’Inghilterra e suo amico di lunga data grazie ai professori in comunque all’università e alla nostra passione per la scienza. Inutile dire che tutta la mia vita in quel luogo era unicamente un piacevole teatrino, e il pericolo principale che correvo era di ideare una qualche menzogna troppo articolata di cui avrei potuto dimenticare i particolari.
Non ebbi tuttavia grandi possibilità di dimostrare la mia abilità nella recitazione, dal momento che, non sapendo la lingua, potevo al massimo biascicare qualche frase per ottenere i servizi essenziali, ordinare ad un caffè e dare il buongiorno a coloro che incrociavo; le uniche volte in cui dovetti mettere su questa messa in scena, fu quando Holmes mi presentò al rettore e ad alcuni professori, tutti abili nella mia lingua madre. Il tutto andò alla perfezione, e persino il mio amico dovette complimentarsi con me al termine della serata.
La seconda volta avvenne a una cena in cui fummo costretti a presenziare di fronte a decine di professori, mecenati dell’università, e altri individui che provenivano anche da fuori città.
Ci vestimmo di tutto punto – non accadeva da tempo che il sottoscritto dovesse indossare il suo abito da sera migliore – e ci dirigemmo verso l’aula magna dell’università, adibita a salone di ricevimento. Essenzialmente si trattava di una serata di beneficenza, in cui facevano la loro miglior presenza anche gli studenti più dotati dei diversi corsi. Era un continuo ciacolare e discutere, mentre i camerieri portavano in giro vassoi ricolmi di calici.
 
Ammetto che in quella situazione mi sentii parecchio intimidito: mi trovavo in mezzo a cento e più persone, fra le quali esperti scienziati, giuristi e letterati, uomini facoltosi e gran parte della Montpellier nobile. Non ero mai stato abituato a questo genere di incontri, e il fatto che quella fosse la mia prima vera e propria serata di gala non migliorava affatto il mio umore. Tutto ciò che desideravo in quel momento era tornare nelle mie stanze, anche senza Holmes; sapevo che i suoi occhi, anche mentre parlava con gli altri ospiti nel suo fluente francese, erano puntati su di me, e questi mi interrogavano costantemente. Ma non potevo fare alcunché: erano sensazioni incontrollabili e frustranti: ero fuori luogo, ero sotto falso nome e anche se fossi stato in grado di comprendere ciò che i commensali trattavano, avrei unicamente desiderato nascondermi nell’ombra. Non era certo comportamento e pensiero da gentiluomo il mio, ma forse un certo timore del passato si era impossessato di me: non avevo nulla da spartire con costoro. Non ero un medico brillante, non ero uno studioso, non ero alcunché. Ero solo un uomo appena uscito dal baratro, che cercava di non dare a vedere quanto fosse stato disperato per troppo tempo. E benché non avessero alcun indizio per risalire alla mia vera identità e a ciò che portavo sulle spalle, mi sentivo tuttavia oppresso e deriso.
Mi era accaduto altre volte di avvertire questa sensazione, ma non dopo la scomparsa di Holmes, no. Era accaduto al ritorno dalla guerra, alla fine del servizio militare, quando dovetti tornare fra i civili, e avvertire i loro sguardi compassionevoli alla vista della mia zoppia e della mia inutilità. Mi ero sentito un emarginato per molto tempo, e ciò mi aveva allontanato dalla mondanità.
Speravo che ciò che avevo passato in quel periodo non sarebbe più accaduto, ma ero circondato da un branco di sconosciuti, e l’unica cosa che la mia mente riusciva a formulare era: «Ti prego, Holmes. Portami via».
 
Riuscii comunque a dimostrarmi un ospite gioviale per circa due ore, discutendo con altri commensali sia da solo che in presenza di Holmes, che ogni tanto fungeva da interprete. Infine, con la scusa di non voler annoiare un gruppo di signore presenti con il fumo della mia sigaretta, uscii all’esterno dell’edificio, nel cortile interno dell’università.
 
L’aria che mi entrò nei polmoni sembrava la prima a gonfiarli dopo una lunga apnea, e non lasciai che la sigaretta me la rovinasse per qualche minuto, quando decisi che forse sarebbe stato meglio accenderla per rilassarmi.
Passarono svariati minuti, durante i quali la mia mente non formulò grandi pensieri, e stavo per decidermi a rientrare quando notai alle mie spalle il guizzare di una fiamma, e un uomo, che già avevo notato in mezzo alla folla, mi si avvicinò stringendo fra le dita grassocce la pipa.
 
«Splendida serata, nevvero», disse cordialmente nella mia lingua madre.
 
Lo osservai qualche istante: piuttosto pingue, vestito elegantemente e con un paio di pince-nez di corno. Aveva un pessimo riporto di un castano chiaro, biondiccio, e gli occhi di un nocciola innocente, che davano al viso un tono quasi infantile.
 
«Indubbiamente».
 
Non mi sembrava necessario gettarmi in una discussione profonda con uno sconosciuto, anche perché ritenevo che le sue fossero le parole di un uomo sì educato, ma che in realtà voleva solo godersi la sua pipata.
Invece, nonostante il mio silenzio, presto riprese a parlare.
 
«Lei è un collega di Monsieur Sigerson, vero? Anche lei è qui per ricerca? Non vorrei sembrarle ficcanaso, ma ho notato con che entusiasmo il vostro amico è stato accolto dal rettore, e la mia è semplice curiosità».
 
Mi preparai mentalmente ciò che dovevo dire, e il fatto che fossi un semplice medico in vacanza, ma amante della scienza come Holmes, sembrò deluderlo parecchio.
 
«Oh, dunque siete in villeggiatura. Vi piace Montpellier?»
 
«Indubbiamente è una cittadina rilassante per placare i nervi».
 
Lo vidi annuire, mentre dalle sue narici usciva una nuvola di fumo.
 
«Di dove siete, se posso concedermi di domandare? Sapete, ho vissuto svariati anni in Inghilterra, e ho conosciuto molte persone. Magari abbiamo qualche conoscenza in comune. Oh, ma io sono un maleducato: François Boyer, molto lieto».
 
Gli strinsi la mano, presentandomi ufficialmente a mia volta, benché il mio unico desiderio fosse quello di allontanarmi, o che, perlomeno, Holmes venisse a darmi man forte. Ma non accadde, e  fui costretto a ripetere le menzogne che per tutta la sera avevo sparso fra gli ospiti, addentrandomi in qualche particolare pericoloso. Quando finalmente smise di fare domande inopportune riuscii e defilarmi con tutto il garbo possibile, lasciandolo con un’espressione fredda e calcolatrice in volto. Ma forse la mia era stata solo un’impressione dettata dalla poca luce, nonché il mio essere parecchio in ansia.
Rientrai dunque nella sala, e notai che Holmes si stava congedando da un gruppo di signori che sapevo essere professori della facoltà di legge – il mio amico ne era grande conoscitore, sotto certi aspetti: era dell’avviso che dovesse sempre conoscere il proprio nemico.
Mi avvicinai a lui, sorridendo a quei gentiluomini e congedandomi a mia volta, seguendo poi Holmes verso il rettore, al quale disse di doversi recare a casa, vista l’ora tarda e l’importanza di alcune commissioni che avrebbe dovuto svolgere l’indomani.
 
Fu così che a mezzanotte meno un quarto, io ed il mio amico ci stavamo dirigendo verso le nostre stanze a piedi, decisi a goderci la fresca aria che spirava dal mare. Non parlammo per svariati minuti, e la mia mente sembrava essersi concentrata sul suono dei nostri battoni sulla strada acciottolata.
 
«Chi era l’uomo con cui stavi parlando in giardino?»
 
Sollevai lo sguardo dalla strada, volgendolo verso Holmes. Non riuscivo a intravvedere il suo profilo, essendo contrapposto alla luce dei lampioni, ma mi sembrava che il suo sguardo fosse piuttosto severo.
 
«Un certo Boyer. Ha iniziato a domandare del tuo lavoro, della Gran Bretagna e di come ci siamo conosciuti. Mi è sembrato abbastanza interessato a entrambi».
 
«E ciò non ti ha insospettito affatto?»
 
«Non credo sia il caso di gridare “al lupo-al lupo” ogni qual volta che qualcuno fa domande sul tuo lavoro. Dopotutto il rettore ha tessuto le tue lodi tutta la sera».
 
«Se siamo qui è proprio per evitare che il lupo ci metta in allarme, e qualunque mutamento della nostra routine può indicare un avvicinamento di Moran alla tua persona. Farò fare delle ricerche su questo Boyer».
 
«Chi le farà?»
 
Non rispose a questa mia domanda, e fino a che non giungemmo al nostro appartamento, rimase nel silenzio più totale, quello che ammantava tutte le cose ogni qual volta la sua mente brillante stava formulando un qualche pensiero astruso o pericoloso.
Ci trovavamo al piano terra di una casa a due piani riservati esclusivamente ai membri universitari, e mai avevamo udito passi o parole provenire dal piano di sopra. Probabilmente durante l’estate erano pochi quelli che abitavano in quella serie di costruzioni, e ciò concedeva una maggiore libertà a me e al mio amico.
 
Abbandonai la giacca all’ingresso, allentai il colletto e mi liberai del farfallino. L’idea di essere nuovamente fra le mura amiche mi spinse ad abbandonarmi ad un sospiro di sollievo, mentre le mie mani già correvano alla bottiglia di cognac che era riposta su di un mobiletto nell’angolo di quello che si sarebbe potuto definire il salotto.
Me ne versai due dita, accaldato nonostante la frescura della stanza. Holmes, da quando era rientrato, si era gettato in camera sua e ritornò solo dopo pochi istanti con in mano un foglietto di carta ripiegato più volte su se stesso. Lo vidi aprire la porta, guardarsi intorno e poi scomparire nel buio della notte lungo il vialetto, per poi comparire nuovamente pochi minuti dopo, con un’espressione maggiormente rilassata rispetto alla passeggiata poco prima intrapresa.
 
«Tutto bene, Holmes?»
 
«Non posso ancora confermarlo», cominciò. «Ma spero che presto avremo nuove notizie».
 
Avrei voluto chiedere di più, ma Holmes era parecchio criptico in momenti come questi, e non potevo far nulla se non attendere che si decidesse a vuotare il sacco; purtroppo, il fatto che i suoi piani ruotassero intorno al sottoscritto, mi rendevano facilmente irritabile: se ero io quello che doveva tenere d’occhio chiunque fosse sospetto, come potevo farlo se Holmes mi celava ogni sua mossa?
Glielo dissi.
 
«Non ho intenzione di celarti nulla, ma non mi pare al contempo necessario discutere di ogni mio passo, dato che sarebbero informazioni che tu assimileresti senza alcuno scopo. Una volta che il pericolo sarà fra noi, te ne renderai conto tu stesso, senza che il sottoscritto apra bocca».
 
«Tuttavia gradirei che tu mi illuminassi sui tuoi passi».
 
Holmes sospirò irritato, ma deciso a non discutere ulteriormente finalmente aprì bocca.

«Sai bene che non amo stare con le mani in mano, Watson. Semplicemente lascio che svariate paia di orecchie ed occhi in più si industrino per riuscire a percepire anche il minimo segnale di pericolo. Ed è ciò che ho appena fatto: ho chiesto indicazioni riguardanti il distinto signore con cui hai parlato questa sera. Ora, mi auguro tu sia soddisfatto, perché ho intenzione di liberami dei gemelli, indossare qualcosa di comodo e scivolare nelle mie pantofole, per dedicare il resto della serata al violino».
 
«Pensavo volessi venire a letto», dissi con un tono eccessivamente deluso.
 
«Non ora. Non riuscirei a chiudere occhio e preferisco dedicare qualche ora ai miei spartiti piuttosto che rigirarmi fra le lenzuola. Buonanotte, Watson».
 
Peccato, pensai, che la mia idea non fosse quella di dormire.
 
Mi ritirai con passi rapidi nella stanza che condividevamo – ve ne erano due, ma non avevamo trovato affatto necessario sgualcire un altro letto per nulla, benché comunque non fossimo ancora tornati in quell’intimità che ci eravamo lasciati alle spalle anni prima - e fissai il letto con mestizia: da quando Holmes era tornato, certamente il nostro rapporto si era rinsaldato, ma capitava che vi fossero notti come quella in cui ogni legame sembrava spezzato, e lui si insinuava fra le coperte solo la mattina presto, oppure non lo faceva affatto. Era una sensazione sgradevole: benché non vi fossero state urla poco prima, quello era sicuramente il principio di un litigio, che Holmes aveva placato gettando una secchiata di acqua gelida sul fuoco. Purtroppo a raffreddarsi era anche ciò che incorreva fra noi.

Non riesco ancora a capire cosa mi provochi maggior disagio durante tali situazioni: la consapevolezza che Holmes sia in un’altra stanza a sfogarsi sulle corde del proprio violino, per evitare di dover discutere con il sottoscritto, o il sapere che, una volta a letto, l’unica cosa che il sottoscritto riesca a fare sia giacere immobile, rischiando i crampi, modulando il respiro in modo da farlo sembrare quello di un uomo addormentato. Un comportamento deplorevole, ma tuttavia il terrore che possano nascere – o apparire nuovamente- astio e vecchi rancori, mi rende un vigliacco.
Rende entrambi dei vigliacchi.
 
Dunque mi ritrovai a letto, libero dalle lenzuola a causa dell’umidità della stanza che mi rendeva accaldato. Holmes pizzicava le corde nella stanza accanto, ma, perso com’ero nelle mie elucubrazioni, non mi resi conto dei passi che attraversavano il salotto. La porta si aprì che aro dunque con il volto rivolto verso il soffitto, braccia e gambe aperte alla ricerca di un poco di frescura, ma inutilmente. Istintivamente mi ritirai nella mia metà del letto, evitando lo sguardo del mio compagno, aiutato anche dall’assenza di luce.
Sentii il fruscio della vestaglia che scivolava sul pavimento, l’aria insinuarsi fra le pieghe del lenzuolo sollevato e l’abbassarsi del materasso sotto il peso leggero di Holmes. Rimasi immobile, gli occhi aperti al soffitto; l’uomo con cui condividevo il letto mi dava la schiena, ma non riuscivo a intravedere un minimo movimento causato dalla respirazione.
 
Rimasi in silenzio per quelle che mi sembrarono ore, troppo teso per chiudere gli occhi, finché non decisi che l’unico modo per concedermi un sonno ristoratore fosse quello di terminare la discussione.
 
«Non credi che sia difficile capire cosa mi accade intorno? Sono in un paese straniero, con questa spada di Damocle che grava sul mio capo e non mi capacito di cosa debba fare per non sembrare uno sconsiderato. Debbo ritenere un pericolo chiunque mi rivolga la parola? In tal caso anche il rettore potrebbe essere una spia».
Aggiunsi con stizza l’ultima frase, mentre mi sollevavo per mettermi a sedere.
 
«Vorrei che mi tenessi informato, non che mi trattassi con accondiscendenza, lasciandomi all’oscuro. Lo trovo privo di fiducia e offensivo».
 
La figura sdraiata accanto a me non si mosse per svariati istanti, finché non la vidi alzarsi di scatto, posare sul nudo pavimento i candidi piedi e marciare avanti e indietro con aria frustrata, come tante altre volte.
 
«Watson», domandò infine, «quante volte tu sei stato al mio gioco senza sapere le carte che avevo in mano? Quante volte mi hai seguito, senza sapere alcunché, sicuro che stessi andando la direzione giusta? Mai una volta ti ho sentito lamentarti, mai una volta hai posto delle domande; e questo perché? Sarò io a risponderti: perché ti fidavi di me. Ora, ciò che mi vedo costretto a porti immagino tu la possa supporre: riesci ancora a fidarti di me, dopo ciò che ti ho fatto? Perché nonostante il mio ritorno e l’appianarsi delle divergenze, tu non ti senti ancora a tuo agio. Non sai ancora quanto puoi esporti. Ammettilo. Hai paura che possa svanire ancora, lasciarti in balia del nemico».
 
Rimasi in silenzio, senza sapere come rispondere. Mi alzai a mia volta, e lui si fermò davanti a me, il volto imporporato alla luce della candela che avevo acceso rapidamente per poterlo seguir meglio con lo sguardo e per – non lo nego – riuscire a vedere le espressioni del suo volto, dal momento che è semplice mentire al buio.
 
«Non è solo questione di condividere un letto, o di passare le sere a crogiolarci in discorsi futili. È qualcosa di più. E io devo saperlo: sei disposto a lasciare la tua vita nelle mie mani? Perché di questo si tratta, Watson. E ciò che maggiormente mi turba è che nonostante mi riesca tanto semplice leggere sentimenti del genere negli altri, riuscire a spiegarli e comprenderli, non riesco a vedere ciò che desideri e che provi. La confusione è ciò che meglio nasconde la verità, ma lo fa anche agli occhi di chi la prova. Adesso desidero che tu mi risponda in modo sincero, e che scelga se buttarti nel vuoto, dove puoi trovare il sottoscritto, anche se ben celato, o abbandonare tutto. E confesso che le seconda opzione è quella che maggiormente mi turba, perché se sono tornato a Londra, per trascinarti poi qui, è perché ciò che più mi farebbe male al mondo, ancora più che la cocaina, che la distruzione di tutto ciò che ho creato in questi anni, sarebbe il vederti sopraffatto e perderti».
 
Se dicessi che ero inebetito sarebbe riduttivo.
Ho già descritto parecchie volte il comportamento freddo di Holmes, il suo rifiutare i sentimenti; erano ben poche le discussioni in cui aveva espresso sentimenti aperti nei miei confronti, e mi soggiunse alla memoria, in quell’istante, il tempo in cui mi disse che desiderava tutto meno che ferirmi. E ora era di fronte a me, l’espressione sconvolta come quando, ai tempi, si torturava con la maledetta soluzione sette per cento, ma questa volta non si trattava dello stupefacente.
Per un istante pensai che avesse paura. Ancora adesso mi viene difficile affermarlo: Holmes non aveva paura. Lui era un uomo razionale, pronto ad affrontare qualunque cosa gli si parasse davanti con la propria logica; ma se non era paura, allora non avevo modo di giustificare lo sguardo con cui mi stava fissando.
 
Temeva che gli avessi detto che non volevo più che mi aiutasse? Sarebbe stato facile gettarlo fuori dalla mia vita in quell’istante, ma non potevo e non volevo farlo, e non per il fatto che vi fosse qualcuno, là fuori, disposto a tutto pur di eliminarmi.
 
«Vuoi sapere se mi fido della tua abilità e del tuo giudizio? Se il tuo intelletto per il sottoscritto è abbastanza abile da portarmi in salvo?»
 
«Non sei un giochetto logico per me, Watson. E sì, utilizzerò abilità, giudizio ed intelletto, ma non devi pensare che lo farò per una qualche sfida personale nei confronti di Moran».
 
«Perché», chiesi, risoluto. Non mi sarebbe mai più capitato di udirlo parlare di me in certi termini.
 Era forse rossore quello sulle gote?
 
«Per il Cielo, Watson. Sei esasperante! Non ti ritengo così sciocco da non capire un discorso così lampante, e non starò ai tuoi giochetti solo per darti delle sciocche soddisfazioni. E spegni quella candela», sbottò frustrato.
 
Mi inumidii due dita, passandole sulla fiamma, e in pochi istanti porgevo le mani verso il volto di Holmes, pronto ad afferrarlo per trascinarlo a me.
Con quale diletto non lo sentii opporsi al mio impeto!
Fu come lasciar sciogliere le membra gelate in una vasca ricolma di acqua calda, e mi sentii pervadere da un ossimoro di pace ed eccitazione che sembrò stordirmi, mentre assaggiavo quelle vecchie amiche che erano le sue labbra sottili.
Le mani, nel mentre, stringevano i folti capelli corvini per poter far sì che fosse maggiormente addossato al sottoscritto, come se fosse impossibile saziare quella fame che provavo nei suoi confronti. Come era piacevole! Come era liberatorio! Mi sentivo a casa, protetto, ma smanioso di avere di più. E decisi di prenderlo.
 
Lo liberai della camicia da notte senza abbandonare il volto, baciandolo ora con passione ora con dolcezza, soffermandomi su di un angolo della bocca e lasciando che lui facesse subito dopo lo stesso. Ci stringemmo l’un l’altro, e lo sentivo lieto come me di avvertire le nostre membra riunirsi, sebbene non con la stessa scioltezza di quando eravamo avvezzi a deliziarci a vicenda nei momenti che più ci aggradavano al tempo in cui vivevamo in Baker Street.
Scesi a baciare il collo sottile, le clavicole sottili, il pomo d’Adamo e il petto glabro, mordendo i capezzoli e provocandogli un sussulto di fastidio e leggero piacere, che ripagai suggendoli, passando poi con la lingua in punti a me familiari che sapevo piacergli. Mi sollevò dopo poco con forza, riprendendo possesso della mia bocca e liberandomi degli indumenti notturni. Da quanto tempo i nostri corpi non cercavano il corpo dell’altro senza l’inconvenienza dei vestiti o delle lenzuola?
Ero di fronte a lui e potevo vedere il ventre piatto, il segno dei miei morsi sul collo e sul petto, che si alzava ed abbassava al ritmo del respiro. Vedevo l’erezione, a pochi centimetri da me, umida e indecente. Vedevo la sua lingua mal celata fra i denti e gli occhi lucidi su di me. E immaginavo cosa stesse osservando lui, con quell’occhio analitico.
Segni di acciacchi, di amanti che avrebbero potuto saziarmi durante la sua assenza, di paura. Ciò che vide fu solo la mia vecchia cicatrice, dove, come usava fare anni orsono, posò un singolo bacio, delicato. Poi tornò a guardarmi e mi sentii costretto a stringerlo a me con tutta la forza possibile, trascinandolo poi sul letto, sotto di me, continuando a baciarlo.
 
Non mi era più possibile respirare, tanto era il piacere dato dal tocco di quelle mani tanto agognate, mentre si impossessava del mio sesso e mi turbava con movimenti rapidi e decisi, tanto che mi era difficoltoso soddisfare i suoi appetiti con la mano che non era intenta a stringergli le spalle, la quale, senza che intendessi far nulla, sembrava volerlo spingere verso il basso. E mi accontentò, togliendomi definitivamente il lume della ragione per svariati minuti, mentre giacevo succube delle sue labbra e della sua lingua, avvertendo ogni suo movimento con limpida chiarezza, tanto che il mio desiderio in quel momento risultava essere solo quello di urlare di piacere e di avvertite ancora più in profondità quel tocco.
 
Dovetti fermarlo, facendo in modo che tornassimo a guardarci negli occhi, accaldati e desiderosi di andare avanti, di possedere ancora ed ancora ciò che ci era mancato. Mi alzai, non prima di aver posato più di un bacio sul suo volto, allontanandomi per pochi secondi e tornare dal bagno con in mano ciò che mi avrebbe aiutato. Lo costrinsi a voltarsi, il corpo fremente e rivolto verso di me. Afferrai la vaselina e la cosparsi sul membro e sulle dita, senza impedirmi di giocare ancora un poco con il mio amante. Posai la mano libera fra le sue scapole, spingendolo con il petto contro il materasso e costringendolo ad esporsi a me in modo osceno; insinuai lentamente dentro di lui una, due falangi, dopo aver giocato un poco con i punti sensibili della zona torturata e avergli strappato più di un mugolio. Infine, sicuro che fosse pronto, scivolai dentro di lui.
Fu difficile frenare il mio istinto, che mi imponeva di prenderlo con foga, farlo gemere di piacere, lasciandolo urlare il mio nome mentre le sue mani stringevano spasmodicamente le federe dei cuscini e il suo volto, per metà nascosto nel materasso, mi lasciava intravedere la sua espressione di pura estasi. Cercai di resistere, di rimanere con lui il più possibile, ma l’immagine di lui che tentava di darsi ulteriore soddisfazione, sfregando con foga il proprio membro, mi rese cieco, e presto, piegandomi su di lui, con un grido di piacere stretto in gola, mi liberai nel suo corpo.
 
Quando mi liberai mi resi conto di essere stato l’unico a raggiungere il piacere, e, una volta costretto Holmes a mettersi con la schiena sul materasso, notai che era ancora insoddisfatto, ma accaldato e prossimo a raggiungermi. Scostai dunque la sua mano e mi impossessai dell’erezione con le labbra, sentendolo inarcare la schiena. Giocai con lui ancora per poco, finché non avvertii una sensazione lontana e familiare invadermi le fauci, e mi sollevai dopo poco, osservando il mio amante stremato, lo sguardo fisso al soffitto ma perso da qualche parte, forse, per la prima volta dopo tanto tempo, privo di pensieri.






Note dell'autrice: io mi sento sempre più in colpa a postare dopo così tanto tempo, ma, si sa, l'ispirazione è una baldracca. 
   
 
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