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Autore: kike919    24/07/2013    0 recensioni
E' dalle piccole cose che talvolta si comprende che una persona ci è sfuggita dalle mani e non ci appartiene più.
"Non avrebbe mai voluto, potuto competere con quella squadra di modelle. Lei che non era formosa, né slanciata e loro con un fisicaccio che avrebbe lasciato per terra anche un trentenne. E avevano tutte sedici anni. Tutte puzzavano di libertà."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Annalisa poggiò nervosamente la busta della spesa sul tavolo, la scatola delle uova scivolò fuori e cadde a piombo sul pavimento. S'impiastrò di quel muco arancio/trasparente. Ci avrebbe messo una vita a pulire.
Angelica, che aveva poco più di tre anni, la prese come un gioco e si avvicinò con l'intento di spargere l'impiastro sulle mattonelle.
-E togliti! Ma perché non potevo nascere figlia unica...
La strattonò via e prese in fretta e furia a rimuovere le tracce. Non poteva sopportare di vedere ancora quell'anomalia. L'errore.
La bambina corse via piangendo, attaccandosi alla gonna della madre. Aveva appena finito di parlare al telefono.
-Angy, vai a giocare col bambolotto in sala, che tata ha un attimo da fare.
Scosse la testa scoraggiata, ma ciò non l'avrebbe fermata. Marilena era sempre stata testarda fin da piccola, figurati se avrebbe mollato proprio con sua figlia.
Si appollaiò in tutta tranquillità al piano della cucina, alle sue spalle e quando aprì bocca Annalisa sobbalzò: non l'aveva nemmeno sentita entrare nella stanza.
-Guarda che l'ho visto come hai trattato Angelica! Se ti scocciava così tanto restare a darmi una mano, potevi andare a prenderti un gelato anche tu. Nessuno ti legava a casa.
La ragazza sbuffò con lo Scottex in mano.
-Non ci vado a fare la stupida, a prendere il gelato da sola.
-A me non sembravi sola...
Commentò Marilena, che non ci aveva messo nemmeno dieci secondi a centrare il punto.
-Tante cose non sembrano. O forse le noto solo io...
Respinse il colpo, gettando l'impasto d'involucro e gusci nel cestino.
-O forse sei solo gelosa.
-Gelosa di che?
-Niente Anna, la buttavo lì, tiravo a indovinare. Vai piuttosto a vedere cosa combina Angy, che devo inventarmi qualcosa per la cena. Senza uova.
Annalisa non provò nemmeno a tagliarsi con lo sguardo della madre; non voleva dare spiegazioni a nessuno. Non era lei che doveva spiegare. E non voleva sentire nemmeno le solite balle che si raccontano per metterci una pezza. Non da Gaia che era sempre stata pulita e sincera fino a quel momento. Avrebbe quasi preferito fingere che era morta, che lasciarsi ferire dall'abbandono. Voleva ricordare al meglio quell'amicizia.



Era passata una settimana. Gaia, nel mettere a posto i panni, prese la maglia azzurra, la schiaffò nell'armadio e ci gettò sopra le peggio cose come a voler stratificare. Fingere che non sia mai successo niente.


Annalisa non capiva un accidenti di quello che stava leggendo. Troppe date, troppe vicende. Studiava storia con voracità, solo perché sperava di trovare sé stessa trovando il passato, ma era una materia per quelli con la memoria. E non l'aveva mai studiata da sola prima d'ora. Allora quel pensiero la trapassò come una fitta intercostale.
Sentiva l'odore di solitudine appestare l'aria intorno a lei. Perché non valeva un cazzo, e purtroppo lo sapeva bene.


Poi il telefono squillò. Presa da un presentimento netto, che mai avrebbe potuto essere più preciso, non rispose.



Marilena era tornata tardi da lavoro e non aveva avuto nemmeno il tempo di fare la spesa. Con fare imperativo le lasciò la lista farcita di parole sulla scrivania. Annalisa alzò lo sguardo, si accorse di avere il mal di testa e seguendo il pensiero “massì, almeno mi svago un po'...” accettò di buon grado l'imposizione. In fondo era una ragazza buona, che difficilmente faceva storie quando si trattava di dare una mano.


Tornò tre quarti d'ora dopo, trovando la tavola apparecchiata e un ospite di troppo.
-Tata c'è Iaia!
Le corse incontro sua sorella. Annalisa la prese in braccio e la fece roteare, ma la faccia era di marmo. Accennò solo una parentesi di sorriso aperta per non spaventare Angy, che andò a spegnersi immediatamente. Lo scontro era impari: sapeva bene che suo padre, tipo riservato, non si sarebbe mai immischiato nelle sue faccende... ma sua madre, oh si, sua madre puzzava senz'altro di tradimento: una come Gaia non fa occupazione in casa altrui; ci viene solo se invitata.
I bocconi scendevano uno ad uno di traverso. La gola sembrava aver messo le spine, bevve più volte l'acqua per far scendere quei quattro pezzi di carne tagliati cento volte a testa.
Le due non parlavano. Era come se a tavola ci fossero solo Marilena che incalzava le discussioni, Mauro che raccontava di lavoro, Angy che mangiava disegnando e ad ogni cosa che creava urlava per mostrarla a tutti.
Annalisa finì per prima e sgattaiolò in camera sperando di non essere seguita, invece Gaia terminò in fretta e replicò i suoi passi come un'ombra.
La porta della camera si aprì quando Annalisa ebbe letto per l'ennesima volta la stessa frase. Se qualcuno le avesse chiesto di ripetere il tutto da capo, non avrebbe saputo neanche lontanamente da dove iniziare.
-Ho un sacco di schemi per studiare quello. Se vuoi...
Testarda, Annalisa continuò a voce più alta per sovrastare i “ronzii” di sottofondo.
-Sul serio, è più semplice così.
Il libro si chiuse come un portone in faccia. Ci si appoggiò sopra di peso, coi gomiti. Voleva solo distruggerla, perché per lei Gaia non c'era più.
-Che c'è, adesso ti faccio pena? Hai finito le amiche con cui fare shopping?
-Lisa, io non ho amiche per fare shopping...
Quel “Lisa” le fece provare la stessa pugnalata che Cesare ricevette da Bruto. Anche Cesare si fidava di lui, prima di tirare le cuoia.
-Sei brava a spararle. Ora vai, ho da studiare.
-Non farò muri che non potrai scavalcare, non avrò porte che non potrai aprire. Il patto di sangue, ricordi? Non siamo semplici amiche; siamo sorelle, io e te.
Messa di fronte alle sue responsabilità, al ricatto affettivo stipulato da due bambine di otto anni che non sapevano nulla della vita, Lisa fu costretta ad aprire la porta, quel tanto per far passare lo spiffero. Si spostò dalla scrivania, si sedette sul letto e fece cenno a Gaia ancora in piedi, di fare altrettanto.
Il viso acceso dal dolore, supplicava a lei d'iniziare, di tentare di salvare il loro legame, se davvero lo sentiva ancora. Le lampeggiavano quei bottoni scuri dalle pupille lattiginose.
La maglia di Gaia non le donava affatto. La tinta senape le spegneva i lineamenti; sembrava tanto una rosa appassita. Sembrava trasparente.
L'ultima volta che l'aveva vista stava cercando di farsi crescere le unghie, ma la sua ansia evidentemente le aveva rosicchiate a sangue. Senza pietà.
Così iniziò a spiegare.
-Non so più come recuperare la nostra amicizia, tu non mi parli più... e quest'estate è stata uno schifosissimo incubo. Non puoi nemmeno immaginare.
La proverbiale diffidenza di Lisa verso il mondo e le persone in genere, la teneva ancora a distanza; non voleva mischiarsi a quel dolore se non era vero. Però ascoltò. Intensamente, come nessun' altra avrebbe saputo fare.
-Non volevo che mi vedessi con loro... me ne vergognavo. Per tutto questo tempo mi sono fatta schifo e non potevo parlarne con te.
-Che ti vergognavi di me non avevo dubbi.
I capelli erano sempre troppi. Gaia tirò indietro una ciocca con la mollettina e abbassò lo sguardo. Da quel momento smise del tutto di guardarla negli occhi.
-Non di te... di loro. Non volevo che mi vedessi con quella gente. Le gemelle sono amiche strette dell'altra ragazza con cui mi trovavo. E' la figlia del capo di mio padre, frequentavano il nostro stesso chalet e sono stata costretta a passarci l'estate insieme. Mio padre si è raccomandato di essere carina, che ne andava del suo posto, ma loro non sono state affatto carine con me.
La maschera di Lisa si sciolse quando la schiena dell'amica si fece pesante, si scompose verso il basso come se sostenesse troppo peso. Le lacrime sgorgarono da quel corpo debole che Gaia non sapeva più governare. Le parole uscivano a fatica e i singulti quasi le ricacciavano indietro.
-Si chiama Marisol. Ad una festa mi ha presentato suo fratello Fernando. Ha parlato un po', poi mi ha infilata a forza in uno stanzino, mentre la musica era forte e mi ha messo le mani ovunque. Infine mi è entrato dentro. Nessuno mi avrebbe sentita urlare.
Fece una pausa. Poi ripeté quella frase come se uscisse dalla bocca dell'oltretomba.
-Nessuno mi avrebbe sentita urlare. Mamma mi ha detto che dovevo solo stare zitta, che se no papà perdeva il lavoro...
-Non ti è piaciuto neanche un po'?
Cercò di minimizzare in modo stupido, insensibile, infantile e sbagliato Lisa, che non sapeva più sbrogliare quella matassa. Se solo avesse potuto si sarebbe rimangiata le sue domande cretine una per una, con gli interessi.
-Ha trent'anni... il giorno dopo mi ha regalato una maglietta, dicendo che mi stava bene. Poi ha aggiunto che almeno quando la portavo smettevo di sembrare una miserabile. Tutti mi trattavano da miserabile e avevo paura.
Tremava. La pelle si fece ancora più pallida. La sua amica, resa donna dall'ingiustizia degli altri esseri umani, avrebbe solo voluto scomparire. Disgregarsi, come era già successo con la parte migliore di lei.
Lisa voleva entrare in punta di piedi, evitare l'ennesima indelicatezza e osò l'unica cosa che poteva fare: l'abbracciò, ma non di convenienza come fanno quelli a cui non dispiace manco per il cavolo; l'abbracciò davvero, pelle nella pelle, scomparendo un po' anche lei. L'abbracciò, di quegli abbracci che si accollano un pezzo di dolore della persona che ami per non lasciarla soffrire da sola.
In un solo gesto erano tornate quelle due bambine di otto anni della promessa: ingenue, spaesate, diverse dal mondo intero. Ma sorelle.




   
 
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