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Autore: A q u i l e g i a    25/07/2013    9 recensioni
«Lucciola» sussurrò. Già, lucciola! Un essere fragile, indifeso, impaurito, ma che cerca di brillare come una stella. Ecco cos'era.
Vera è una passeggiatrice dei grandi viali di Tokyo, la cui vita è segnata profondamente da questo stile vitalizio.
Con il suo Skitty, vive in uno squallido e deprimente appartamentino nel centro, dove arranca a fine mese per poter pagare l'affitto.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Drew, Misty, Vera | Coppie: Drew/Vera
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Anime
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Secondo Capitolo

第二章

 

Si sentì stringere i fianchi. Era quel contatto umano che desiderava, ma le dava fastidio: quelle mani, che la avvolgevano con brutalità, le davano disagio. Percepiva quel caldo e affannoso respiro sul collo; avvertiva un corpo bollente che premeva dal basso verso l'alto, con movimenti decisi.

Vera non poté non emettere un forte gemito: voleva che quell'unione fosse sciolta e che quei corpi, nudi, non si potessero mai più sfiorare. Furono le sue carni, per prime, ad abbandonarla; una sorta di resa, ma forse era meglio così: più il cliente era soddisfatto, più era disposto a pagare. Porre resistenza, difatti, avrebbe diminuito il piacere di entrambi.

Si lasciò andare, avvinghiata stretta con le gambe alla vita di quell'uomo. Poteva comunque gioire: non era il solito vegliardo dal forte odore di sake, bensì un nuovo cliente e, se avesse svolto a dovere il suo lavoro, probabilmente sarebbe tornato da lei, in futuro. Doveva solamente giocare bene le sue carte, quelle poche di cui disponeva.

 

«20.000 ¥» il cliente, sul ciglio della strada, le avvicinò due banconote.

Vera forzò un sorriso. La cifra era bassa, da sola non sarebbe bastata nemmeno una settimana.

«Dolcezza, io non valgo così tanto. La metà è più che sufficiente»

E così fu. Quell'uomo svanì nell'ombra: chissà se sarebbe tornato. Era il trucco più vecchio del mondo, quello di mostrare i prezzi; d'altronde più sono bassi e più vale la pena tornare. Alla fin fine, è lo stesso principio di un qualsiasi negozio.

Vera sospirò avvolta dalla quiete di quella mezzanotte, mentre la leggerissima brezza le baciava la pelle non coperta dai vestiti.

Si chinò a terra, posando la piccola borsetta al suo fianco. Si mise le mani tra i capelli, fino tirarli leggermente.

La giovane squillo si rialzò, scrocchiandosi con delicatezza le tese spalle. Il lampione illuminava leggermente la cupa via; cercò di ricomporsi, specchiandosi nella vetrina di un negozio.

Il mascara le era leggermente colato sugli zigomi e il rossetto fuoriusciva dalle fini labbra. Prese dalla borsa un piccolo fazzoletto e cercò di rendersi presentabile.

«Quel punk...» pensò «Non gli ho nemmeno chiesto il suo nome.»

Quel ragazzino dai capelli verdi era il suo chiodo fisso. Non avevano fatto altro che scambiare due chiacchiere, ma le sarebbe piaciuto poterlo rivedere.

 

Le coperte avvolgevano il suo corpo con delicatezza. Si sentiva accarezzata, confortata da quelle semplici lenzuola rosa, oramai fuori moda.

Cominciò a massaggiarsi le gambe, fino ad arrivare ai polpacci, lisci, tastando con deboli movimenti la sua carne, così fragile. Il dolore soffocante che la tormentava fino a pochi giorni prima s'era affievolito ed era diventato un semplice fastidio. Ma, alla sofferenza fisica, c'era tristemente abituata; l'aspetto che più le doleva, era quello psicologico: non riusciva a sopportare l'idea di essere toccata, presa e stretta tra le braccia di sconosciuti.

Si rigirò sul fianco destro del letto. La luce della notte le rischiarava il viso, rimasto in penombra. La finestra della camera dava su un'enorme infissa pubblicitaria: su quanto possa essere buona una marca di caffè, così tremendamente uguale alle altre, ognuna dal sapore disgustoso.

Sentì di essere diversa, lei. Nessuno le avrebbe mai fatto pubblicità, nessuno l'avrebbe giudicata in modo positivo, di primo acchito; ma sapeva di non essere come il mondo la vedeva: quella ragazza, che batteva lungo i grandi viali di Tokyo, quella mera puttana non era Vera. Non si vedeva in quel ruolo. Una nuova personalità nata dal bisogno di evadere dalla realtà; colei in cui si trasformava per paura e per bisogno: un'estranea.

Quella notte, non riuscì a prendere sonno. La sua mente non riusciva a trovare la serenità, quella condizione oramai perduta da tempo.

Si tolse da quell'abbraccio datole dalle coperte, calde, e si alzò.

La moquette era soffice al tatto e riusciva ad accarezzarle i palmi dei nudi piedi. Si chinò verso la cuccia del suo gattino, appena addormentatosi.

«Skitty» sussurrò «Cosa devo fare?»

Non ottenne alcuna risposta. Nemmeno un cenno, un'occhiata, di odio o di amore che fosse. Nulla. Vera sorrise. Si allontanò dalla camera, lasciando dietro di sé la porta chiusa. Voleva lasciar intuire alla vecchia Fujiko, che non sarebbe tornata, che aveva intenzione di abbandonare tutto e tutti.

Salì la gradinata che portava sul tetto, mentre i suoi passi echeggiavano nel silenzio del complesso. Non appena aperta la porta, riuscì a percepire l'ebrezza del vento fra i capelli; come se la volesse accompagnare. Il cornicione era poco più avanti, con una distanza di una ventina di sospiri. Ci ripensava. Era la cosa giusta da fare?

«Sì, lo è» era la sua coscienza a parlare, decisa.

Riuscì ad afferrare quegli ultimi residui di vitalità che si celavano nel suo cuore e alzò ambe due le gambe. Si ritrovò in piedi, senza nulla di fronte. Solo aria e una nuova esistenza. Magari più dolorosa, chi lo poteva sapere?

«Farà male» tuonò una voce.

Il cuore di Vera sussultò: confuso, spaesato; e il suo respiro, sempre più convulso, era l'unico suono che si coglieva in quella tetra notte, priva di stelle, come tutte le altre.

«Lo so» fu l'unica espressione che riuscì a coniare.

«Sei convinta della tua scelta?»

Vera esitò. Strinse i pugni, cercando di far riemergere la sua determinazione. «Sì» rispose secca.

«Allora che aspetti? Buttati, avanti.»

Quelle parole furono come una morsa atroce al cuore, come se ne volesse impedire i battiti. Perché quell'ombra, quella voce, non aveva intenzione di fare nulla per lei?

Eppure, era una sola la domanda alla quale premeva di rispondere: cosa avrebbe pensato la gente nel vederla morta? Probabilmente, che era una debole, una che non è riuscita a reggere il peso della vita, la cui esistenza non era altri che una foglia in un incendio.

«Hai paura?» si sentì domandare.

«Non dovrei?»

Sentì quella presenza avvicinarsi, disinvolta. Voltando il capo, Vera non riusciva a vedere altro che le tenebre.

Forse, non era che una sua fantasia, il suo subconscio che la voleva far ragionare. E allora perché quella voce le risultava familiare?

Una sensazione di calore avvolse la sua mano. Era piacevole, come quella data dalle lenzuola. Non si sentiva afferrata: era ferma lì, mentre veniva delicatamente stretta al polso.

Fu l'unica volta in cui un contatto umano le riuscì a dar piacere, infondendo nel suo animo la serenità; quella che cercava, che ambiva a toccare. E ora c'era riuscita. Che senso avrebbe avuto finirla lì.

Si lasciò andare. Le sue membra caddero con la convinzione di essere presa: ogni suo timore le sembrò vano. Fu per un semplice contatto, uno solo, ma sincero.

 

Lenzuola. Le percepiva al di sotto della vita, mentre riusciva ad accarezzarle con le mani, leggermente intorpidite. Sentiva un leggero fastidio al braccio, come se qualcosa stesse fluendo dentro il suo corpo. Voleva che quella sensazione, così innaturale, finisse. Ma non riusciva ad impedirlo, non aveva facoltà di decisione sul proprio corpo.

Cercò di emettere un gemito, anche debole, ma nessun rumore fuoriuscì da quella bocca. Si sentiva impotente, a disagio. Ma protetta.

«Svegliati, Vera!» si sentì gridare.

Era una voce che andava al di là dell'immenso spazio fosco che la circondava. Quel timbro: lo conosceva, sapeva a chi apparteneva!

Quel nome, sì quel nome. Era lì, sulla punta della lingua, in procinto di volare come parola da quella bocca.

«M-Misty...» sussurrò.

Sentiva di aver ristabilito il possesso di sé, su quel corpo che giaceva, disteso, sul quel letto. Si ritrovò nel bel mezzo di una stanza, cerea, pulita. Osservò la flebo, a poca distanza da sé, e intuì di ritrovarsi in ospedale.

«Cosa...?» riuscì a scorgere lo sguardo della ragazza. In quegli occhi, v'erano racchiuso odio e rabbia, tristezza e felicità. Sentimenti così contrastanti cercavano di coesistere in una singola persona, all'apparenza forte.

Ottenne una lacrima, però. Dalla guancia, che cadde sulle coperte, sopra le sue mani.

Misty tentò di formulare una frase, una qualsiasi.

«Cosa cazzo ti dice il cervello?!» sbraitò, strofinandosi gli occhi «Stavo per perdere la mia migliore amica, te ne rendi conto?! Non hai pensato alle persone che ti amano, che ti vogliono bene?»

Vera non trovò il coraggio di dare risposta a quelle domande. Era doloroso vedere Misty piangere, troppo.

«Chi mi ha salvata?» domandò, cercando di eludere i quesiti.

«Il tuo vicino di casa.» rispose secca, alzandosi dalla sedia posta accanto al letto.

«Vicino?» pensò, ripensando a quel tocco magico «Sì. M'è stato vicino. L'unico» continuò, cercando di velare, nella sua mente, quella nota amara, nata dalla sua solitudine.

«Perché lo hai fatto?» Misty riprese il discorso, fissando attentamente Vera negli occhi. La lucciola restò fulminata da quell'espressione, mai stata più seria.

«Sono stanca» si giustificò, in un sospiro, evitando quell'occhiata così penetrante.

Misty si risedette, cercando di assumere un tono più dolce e materno. Cercò la mano dell'amica sotto le coperte e la strinse con ardore.

«Lo siamo tutte» la rasserenò, accennando un timido sorriso.

 

Il suo alloggio era l'ultimo del corridoio. Questo, dipinto di un blu molto acceso, era locato al terzo piano. Anonimo: nessuno lo avrebbe notato tra i tanti.

Vera non aveva mai conosciuto il suo vicino. Era rimasta una presenza priva di una qualche identità, che c'era, ma non c'era. Eppure sapeva della sua esistenza: fu la signora Fujiko, quell'amabile vecchietta, ad informarla. Eppure, quei due non s'erano mai incontrati.

Possibile che proprio lui, tra i tanti abitanti del complesso abitativo, era riuscito a darle quel tocco umano che mai aveva ricevuto prima?

Non appena tornata a casa, Vera non esitò a mettersi ai fornelli. I soldi che aveva in tasca non sarebbero stati sufficienti per un regalo degno di questo nome, ma forse, una delle sue opere culinarie, brillanti ed inimitabili, a suo dire, sarebbero state l'arma vincente! Bastava crederci, dopotutto.

Il risultato che ne scaturì non era certo bello a vedersi: con grande probabilità un tortino, di una bella doratura, ma dall'interno ignoto.

«O la va, o la spacca!» si disse, ponendo l'opera su di un vassoio in metallo. Quantomeno, era qualcosa di commestibile, il suo vicino l'avrebbe dovuto apprezzare in ogni caso!

Fiera del risultato, Vera uscì dal suo appartamento, reggendo con cura il vassoio in mano, cercando di non far scivolare quella tale preziosità sul pavimento.

Si ritrovò di fronte ad una porta in legno, con sopra infisso il numero “121” in un rettangolino placcato in ottone.

Tirò un debole calcio sull'uscio di quell'abitazione, cercando di udire una risposta. Nulla. Ci riprovò, cercando di dare un bel colpo di reni, in modo da far risuonare quel calcio in modo più chiaro. Nulla, di nuovo.

«Sono Haruka» affermò, utilizzando un tono di voce quasi urlato «Sono la sua vicina. La volevo ringraziare per l'altro giorno...»

«Perdi fiato!» urlò una voce proveniente dall'inizio del corridoio «Il mio appartamento è un gran maleducato. Non ti risponderà mai...»

Il sarcasmo, in quella frase, era leggermente fastidioso. Vera cercò di non farci caso, forzando un grosso sorriso.

Osservò, in un breve istante, la figura che le si stava avvicinando. Poteva notare fin da subito quei capelli verdi, ovviamente tinti, e quei piercing posti sul lato sinistro del naso e vicino alla bocca. Le era stranamente familiare.

 

 

 

Angolo autrice

 

Io so come infondere allegria nella gente, me lo devo riconoscere! *^* Spero che non mi arrestino per istigazione al suicidio, semmai qualche lettore decidesse di farla finita non appena terminata di questa lettura!

Ma state sereni, se aveste letto la prima stesura del capitolo... Meglio non pensarci, va!

Dunque dunque, ancora niente Contest? Deluse? (maschi, fatevi sentire una buona volta!) Rasserenatevi, date tempo al tempo... Nel prossimo capitolo... Ehehe, vedrete *^^*

Nello scorso capitolo, un recensore mi ha consigliato di passare ad un carattere più grande, ma, siccome è il pubblico a decidere, ve lo chiedo: “Sarebbe meglio passare al carattere, sempre Times, 14 o restare al 12?” - Per me non fa alcuna differenza, ma è il pubblico a leggere la storia, no?

Se i miei calcoli sono esatti, a parte un giovedì (cioè oggi) particolarmente intenso, penso di trovare il tempo di scrivere :D

 

Quindi vi saluto, sperando di non aver deluso le aspettative di nessuno (pensiero che mi ha tormentato non poco...)

 

BaiBai!

 

-Saku-

  
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