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Autore: lalla    30/09/2004    1 recensioni
Si tratta di un vero e proprio romanzo, da me scritto qualche anno fa. Dopo averlo riveduto e ritoccato, ho deciso di pubblicarlo. A puntate, naturalmente. Le tematiche? L'immortalità e la storia, tribolata, affascinante e misconosciuta, degli afro americani.
introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo quattordicesimo

Capitolo quattordicesimo

 

    E che m’importa? Io amo quest’uomo: quello che provo per lui è diverso da ciò che ho sentito per George, per Andrea, per tutti quanti gli altri. Finirà. Lo so. Tutto quanto finisce. E ogni gioia si paga sempre con un tributo di dolore.

    Lo guardò rivestirsi, alto, nero e bello, con quei lunghi riccioli aggrovigliati sulla testa e il corpo stupendo, una statua. Voglio un figlio tuo, gli aveva detto. Lui  aveva sorriso, con quei suoi denti bianchi e bellissimi, aveva scosso la testa. Non sarei un buon padre, le aveva risposto. Mi proponi di rendermi complice d’una pazzia, Masina. Il nostro non è amore, anche se a te sembra così. Non esiste, l’amore, è soltanto una fantasia di donne e poeti. Ne hai frequentata troppa, di quella gentaglia, sarebbe ora che scendessi coi piedi sulla terra.

    E se non era amore, quello, che cos’altro poteva essere? Non una semplice attrazione dei sensi, almeno da parte sua. Sentiva di amare la sua anima e non la sua pelle soltanto. Con lui non erano solo i sensi a gioire ed anche parlare insieme era bello: di musica, del tempo e della vita, le mani intrecciate, i corpi che neppure si sfioravano. Masina era sicura di non aver mai conosciuto un uomo più intelligente di Javier Almeida.    Un figlio mio? Donna, tu sei pazza. Non sai quello che dici. Un figlio nero. Lo condanneresti all’infelicità, e condanneresti anche te stessa: te ne rendi conto?

    Ma io non sono come tutte quante le altre: sono una teatrante, un’artista, una persona che vive fuori dalle regole e che non si giudica secondo il metro di schemi consueti. Per la gente, non sono una donna, sono solo una voce. Zerlina, Astrifiammante la Regina della Notte, Euridice...A chi mi applaude in teatro, non importerebbe se avessi un figlio senza avere un marito. Bianco, negro...Non cambierebbe niente. Alle donne come me non si chiede di essere delle sante, ma solo di cantare.

    Povera illusa, non conosci questa città...

    La mia città è Venezia: qui sono solamente di passaggio.

    Il gelo. I pensieri che non osavano diventare parole. In fondo, lo conosceva da qualche giorno appena, di lui sapeva ben poco. Che era bellissimo. E che era così giovane. Tanto più di lei. Forse, l’ostacolo era la differenza d’età, più che il colore della pelle. O forse era incapace di amare, Javier Almeida la Pantera: vanitoso, pieno di sé, quello che voleva se l’era preso in cambio d’un ciondolo d’oro e di smalto identico ai tatuaggi che gli segnavano i polsi. Era come tutti quanti gli altri uomini, anche se riusciva a leggere nel pensiero, a mantenere il controllo del suo corpo  quando gli altri  per il solito lo perdevano, anche se era scampato ad una ferita mortale, anche se, con la sola forza del suo sguardo era riuscito a fermare l’attacco del cane idrofobo. Non era diverso dai ricchi porci che barattavano l’amore col denaro, anche se era un mago. Non era diverso da loro, anche se baci e carezze riusciva a darli e a prenderli con una dolcezza  e una sensibilità  struggenti, di cui lei non avrebbe mai neppure sospettato l’esistenza. O era magia, inganno anche quello?

    Masina si strappò dal collo il gioiello d’oro e di smalto, lo gettò a terra, lo guardò ruzzolare tra i lastroni infestati d’erbacce del cortile, per andarsi a fermare tra le sbarre di ferro della gabbia sotto la tettoia, la gabbia dove Javier rinchiudeva la vecchia Spes quando la sua amante bianca che aveva paura dei cani andava a trovarlo di nascosto.

    -Era grossa come un vitello, ma non avrebbe fatto del male a una mosca. Aveva dieci anni, quando è morta. Non ho più voluto cani: vivono troppo meno di noi. Siamo costretti a vederli morire. L’età dei cani mi mette paura.

    Se è per questo, è l’età di qualunque creatura che non sia io ad atterrirmi. Avrebbe voluto dirglielo. Forse avrebbe dovuto. Il destino mi costringe a subire la morte di chi mi è caro, e senza poter piangere. Un giorno ti dirò tutto quanto, Masina: sei molto cara, senz’altro capirai. O mi prenderai per pazzo.

    Troppo sensibile. Mezzo matto,  proprio come George, come Ugo e Andrea. Forse scriveva poesie anche lui, magari di nascosto, poesie che nessuno aveva mai letto. Un giorno ti spiegherò tutto quanto, e allora potrai capire...Basta, Javier, ho capito perfettamente, non ho bisogno delle tue spiegazioni. Va’ al diavolo, maledetto te, e vedi di restarci.

 

Capitolo quindicesimo

 

    Il vecchio raccattò da terra la cosa luccicante e la osservò  attento con l’unico occhio che gli funzionasse, una smorfia sulla faccia glabra e grinzosa dai tratti meticci, molto indiani, molto bianchi e appena appena un po’ africani.

    Un gioiello di valore, non occorreva essere degli intenditori, e un vecchio nero quasi sicuramente non lo era, per rendersene conto. Non l’aveva perso Javier, anche se a lui piaceva l’oro e se ne metteva addosso parecchio: era roba da donne, quella. Forse della bella bionda che gli era capitato d’incontrare diverse volte, da un po’ di tempo a quella parte. Una cantante di grido, aveva saputo, appena giunta chissà da dove per esibirsi al Teatro dell’Opera. Una bella figliola, non molto alta ma proporzionata, con due grosse tette che  le tremolavano provocanti sotto il corpino dell’abito attillato. A Javier doveva piacere parecchio, e  altrettanto lui a lei, malgrado fosse bianca come il latte e le donne bianche non se la facessero con i neri. Ma quella era straniera e, in ogni caso, la reputazione appresso a un pezzo d’uomo come il padrone, straniere o no, serie o meno, sarebbero state disposte a giocarsela in parecchie anche a Nuova Orleans.

     Chissà come mai continuava a chiamarlo padrone, anche se non lo era. Ma non era neanche suo figlio o suo nipote, e una qualsiasi alternativa non era mai riuscito a farsela venire in mente, il vecchio. In ogni caso, lo conosceva da sempre, Javier Almeida la Pantera. Ti ho visto nascere, gli diceva. Ti ho preso in braccio e fatto ballare sulle ginocchia, quando eri alto così. Conoscevo tua madre: era bella come te. E anche quella maledetta carogna di tuo padre, possa marcire per sempre all’inferno con tutti quelli della sua razza.

    Il gioiello gli scintillava tra le dita secche e stecchite, illuminato dal sole freddo della giornata invernale. Il piccolo gancio che avrebbe dovuto tenerlo chiuso era rotto, certamente doveva averlo perso la bionda, la cantante, l’amica di Javier, Masina o come accidenti si chiamava. Forse era stato proprio lui a regalarglielo, anche se non gli aveva mai conosciuto  l’abitudine di fare regali costosi alle sue amanti: cose del genere le fanno quelli vecchi, brutti e ricchi. Javier era povero e bellissimo. E giovane, almeno così sembrava. Non aveva ancora ventisei anni, quando...Il vecchio scosse la testa, continuando a rigirare il ciondolo tra le mani. Era di quelli che si possono aprire e aveva tre grossi brillanti incastonati sul coperchio: chiunque l’avesse acquistato, doveva averlo pagato parecchio. Le unghie spesse fecero scattare la molla: sul lato interno del coperchio, era stampigliato  il monogramma di Javier. Non sapeva leggere, lui, ma gli era stato insegnato a riconoscere le iniziali del padrone: J A. Proprio quelle. E, non fossero bastate, il segno della luna sul sole dipinto a smalto nel medaglione, identico ai tatuaggi sopra i suoi polsi.

    Non avrebbe mai comprato l’amore di una donna in cambio d’un gioiello d’oro, lui. Quante volte glielo aveva sentito ripetere? Forse la cantante era riuscita a fargli cambiare idea, o forse...Una settimana ancora, e il buio della notte avrebbe inghiottito la luna. Lo sapeva, perché se lo sentiva dentro, quando capitava, esattamente come Javier, come chiunque appartenesse al Popolo dei Gatti. Non dovevano essercene molti, al mondo, e lui era uno di questi, anche se le circostanze non gli avevano mai permesso la Trasformazione. La magia del padrone era potente, invece. Potente e perfettamente controllabile, ma quando la notte inghiottiva la Luna...Sette giorni fanno in fretta a passare, si disse il vecchio da sé solo. Occorreva agire, e alla svelta.

 

Capitolo sedicesimo

 

    -Era da ieri che volevo dirtelo, Masta1 Javier...

    -Non voglio che mi chiami in quel modo, Concho, maledizione. Sono un nero tale e quale come te, anzi, sono perfino più nero di te e non mi devi chiamare più così, altrimenti mi arrabbio, e se mi arrabbio...

     Ma rideva, Javier Almeida la Pantera, rideva con tutti quei bei denti bianchi come le perle di una collana.

    -Si avvicina la prima notte di luna piena...

    -Lo so. Me lo sento dentro, quando succede, come capita a te. Come capita a tutti quanti i Gatti.

    Ma sarebbe stato diverso, questa volta. Il dolore alla testa, l’oppressione al petto li avrebbe sentiti più forti del solito, perché la luna si sarebbe nascosta dentro il buio della notte, e neppure l’ortica avrebbe calmato la sua inquietudine, stornato il pericolo che l’altra  natura si liberasse dalla prigione del suo corpo di uomo. Ma Concho sapeva quel che doveva fare, quando capitava: la gabbia aveva sbarre robuste, lui, forse per l’età, forse perché il suo potere non era abbastanza forte, non subiva la Trasformazione e una notte fa in fretta a passare. Eppoi non capitava più d’un paio di volte all’anno: non gli era stato difficile impedire alla luna di renderlo suo schiavo, ma un Gatto non poteva nulla contro l’Eclissi, solo accettarla come si accetta l’ineluttabile.

     -La cantante, Masta Javier...

     -Sono quattro giorni che non la vedo.

     E la cosa ti secca molto e non poco, Masta Javier. Ti piaceva, quella donna, come può piacerti una destinata a invecchiare e a morire: un privilegio che al Popolo dei Gatti è negato. O è un privilegio essere quello che sei per sempre, mentre alla donna che ami cadranno i denti, si imbiancheranno i capelli e si riempirà la faccia di rughe...Non gliel’hai spiegato, come stanno le cose, quando s’è accorta che le tue ferite guariscono all’istante e che l’argento agisce su di te tale e quale come un veleno? No, morirebbe di paura, se sapesse una cosa del genere. Come quando hai guardato fisso quel cane e l’hai spedito all’altro mondo. O forse anche lei l’ha pensato, era arrivato alla fine, era troppo malandato per campare ancora un minuto soltanto. Non mi ha morso e non ha morso neanche te, ringraziando il cielo. Ma adesso ho paura. Portami a casa tua. Tienimi stretta...

    -Guarda qua, Masta Javier.

    Maledizione, ancora. Un nero non può chiamare padrone un altro nero. Se poi condivideva con lui certi segreti... O forse lo faceva per non dare nell’occhio: non erano pochi, a Nuova Orleans, gli schiavi che avevano un padrone nero. E meno loro due avessero dato nell’occhio, meglio sarebbe stato: un giovane uomo di colore libero che per mantenersi faceva il maestro di scherma e un vecchio con un occhio solo e senza la barba, un ermafrodito, uno scherzo di natura, il suo schiavo, che gli preparava il pranzo e, la sera, gli massaggiava le spalle indolenzite con l’olio di cocco.

    -Guarda qua, Masta Javier. Non è roba di quella cantante lì?

    -Si chiama Masina, Concho. Sì, forse è suo, credo d’averglielo visto.

    -Credi, Masta Javier...Non gliel’hai regalato tu, allora.

    -Non sono affari tuoi, Concho.

    Già, non erano affari suoi. Che quella puttana della cantante si facesse sbattere da Masta Javier, che era giovane, bello, povero e nero e accettasse regali come quello da qualche ricco sporcaccione anche un  servo privo d’uso di mondo come lui lo capiva, figurarsi il padrone, che era intelligente, e conosceva tante cose, sapeva perfino leggere, ed era tutt’altro che ingenuo.

    -Allora...

    -Non ho mai comprato le donne con l’oro, lo sai. Eppoi...Questo e questo e quest’altro sono brillanti, hai capito, vecchio zotico? E questo è il punzone di Niverdoux, quello che ha la bottega in Rue St. Charles e fa pagare a peso d’oro pure la latta.

    Non sei l’unico, Javier. Le cantanti son tali e quali come le puttane, e quella Masina non sarebbe stata disposta ad accontentarsi della sua bellezza. Gli piaceva, ma non era unica e insostituibile, pensava, accarezzando con le dita e con lo sguardo il ciondolo d’oro sul palmo giallastro e  grinzoso del vecchio: un bell’oggetto, di buon gusto, oltre che di valore.

    -Se non sei stato tu, può essere stato solo lui.- Una smorfia grottesca  gli aveva contorto tutta la faccia, mentre l’unghia spessa del pollice faceva scattare la piccola molla del coperchio. -La luna e il sole, Masta Javier: forse abbiamo finito di cercare.

    La luna si sarebbe nascosta nel buio  e ci sarebbe stata la Trasformazione, dolce e potente come un orgasmo, ineluttabile come il destino. Ma nessuno avrebbe chiuso la porta della gabbia, quella notte. E Concho non si sarebbe preoccupato di gettare oltre le sbarre una vecchia gallina per placare la sua fame.

 

Capitolo diciassettesimo

 

    Si chiamava Jacques Aubry. Le sue stesse iniziali, pensava Javier. Non conosceva Masina di persona, gli aveva detto, ma ne ammirava il talento: era sempre stato un appassionato dell’Opera, e il gesto di regalarle un gioiello d’oro era stato soltanto un omaggio alla bellezza della sua voce. Poteva permetterselo, nonostante  fosse ancora piuttosto giovane era un avvocato tra i più qualificati della città, con un fior di clientela e parcelle salate.

    Chissà se c’era da credergli. Ma aveva senso, arrivati a quel punto, essere gelosi? L’avvocato Aubry l’aveva ringraziato per la sua onestà, e gli aveva anche detto che quel gioiello era stato copiato da un portafortuna di famiglia, un vecchio argento quasi del tutto annerito che lui aveva ereditato da sua nonna. Sotto sotto anche questo qui è convinto che tutti i negri siano dei ladri, aveva pensato Javier, guardandolo: era piccolo e grasso, con una pelle tesa e colorita, segnata sulle guance e ai lati del naso da un reticolo di venuzze. Dovremmo essere un po’ parenti. Chissà come ci resterebbe male, se glielo dicessi.

    -Non dev’essere stato facile, per voi, trovarmi.

    -Ho riconosciuto il punzone di Niverdoux e mi sono rivolto a lui.

    Sei intelligente, per un negro: intelligente e onesto invece che stupido e ladro. Ma la faccia paciosa dell’avvocato Aubry non tradiva pensieri malevoli e gli ricordava, chissà perché, quella di un gigantesco neonato, con le guance rosse e i capelli radi e piumosi. Era sposato da poco, con una piccoletta giovanissima che lo contemplava con sguardo adorante. Una coppia innamorata, contrariamente a quanto accadeva di solito. Forse gli aveva detto la verità, non c’erano stati secondi fini, da parte sua, quando aveva regalato quel ciondolo a Masina. Sei brava, hai talento, meriti tutta quanta la tua fortuna e questo ti aiuterà a conservarla e incrementarla. Ci ha creduto mia nonna. E ci ha creduto mio nonno, a suo tempo: don Gregorio De Almeida. Ma lui non è stato poi così fortunato. Lo sai chi era? Forse no, è facile che te lo abbiano taciuto: nemmeno tuo padre sapeva di essere suo figlio...

    Aveva una bella casa, l’avvocato Aubry, una solida casa borghese dal mobilio austero, una casa con tanti quadri  di valore e tanti libri antichi, una casa dove sembrava che cultura e saggezza impregnassero gli arredi, la boiserie* di quercia, i  tendaggi. Perfino l’aria che si respirava. E anche lui si portava appresso  un’apparenza solida e saggia come la sua casa, più vecchia degli anni che doveva avere. Mancava poco alla notte della resa dei conti. Sua moglie avrebbe pianto come una disperata. Sembrava una bambina, con quegli enormi occhi scuri nel faccino pallido.

    Non è giusto. Non mi ha fatto niente. Una nebbia fredda ed umida avvolgeva la strada, gli edifici, la gente. Meno di un giorno alla resa dei conti. Concho non avrebbe chiuso la gabbia, supplicarlo o minacciarlo sarebbe stato inutile. Che fare? Sarebbe stato inutile  anche tentare di resistere al richiamo della luna. O cercare di uccidersi .Se avesse provato a tagliarsi le vene o a gettarsi nel fiume la morte lo avrebbe respinto: ai Gatti non era dato di morire.

    Dio c’è. Lo so. Lo avrebbe aiutato, pensava varcando il portone aperto della chiesa di St.Claude. Dio è più forte del diavolo.

    -Padre...

    -Desideri...confessarti, figliolo?

    -Parlarvi, Padre.

    Dirvi che ci sono cose più preziose della vita, e più orribili della morte. Dirvi di strapparmi via questo demonio che mi mangia l’anima. Chiedervi come potrei morire, Padre. Non è colpa mia, se...

    C’era un odore stantio d’incenso, di candele e di umidità, dentro la chiesa. Javier afferrò il candelabro d’argento e la pelle del palmo bruciò, sfrigolando. L’argento, il veleno della magia nera.  Il mio è un male antico, Padre...

    -Esci dalla Casa di Dio, maledetto. Vade retro, Satana...

*Rivestimento delle pareti interne, in legno pregiato.

 

 

Capitolo diciottesimo

 

    L’inverno sarebbe finito, e presto. Il freddo però pungeva ancora, pensava Valentine, stropicciandosi gli occhi, era un dolore come di spilli, sopra i lividi che le segnavano la faccia, sul labbro gonfio che batteva come un cuore. Chissà se sanguinava ancora tra le gambe, se qualcuno aveva notato quella sconcezza e s’era messo a riderle dietro le spalle, immaginando tutto quanto, ma di certo non il male che aveva sentito, quando il signore bianco le aveva scaricato addosso i suoi pugni per costringerla a fare quello che non avrebbe voluto, eppure era stato così gentile, le aveva offerto un passaggio sulla sua bella carrozza, e lei aveva accettato senza farselo dire due volte, il cestino carico di biancheria lavata e stirata era pesante e la vecchia signora a cui avrebbe dovuto consegnarlo stava a parecchi isolati di distanza. Era stato gentile, già. Le aveva parlato con dolcezza, comprato un cartoccio di frittelle da un venditore ambulante. Le aveva detto che era bella, mentre le liberava i lunghi riccioli scuri dal fazzolettone che glieli nascondeva. Le aveva detto ormai sei una donna, e il tocco indiscreto delle sue mani le aveva fatto provare vergogna. Lei aveva urlato, cercando di difendersi con la forza della disperazione e la debolezza del suo corpo ancora troppo piccolo. Per lui era stato facile farla tacere a forza di botte, si era rivelato per ciò che era e, mentre la carrozza continuava ad andare senza fermarsi, le aveva fatto quella cosa terribile di cui si sarebbe vergognata negli anni a venire, fosse campata mille anni, anche se era difficile pensare che quel dolore non l’avrebbe uccisa.

     Non ti ho fatto niente di niente, solo quello che tutti gli uomini fanno alle donne. Mi piacciono le ragazzine come te. Ti verrò a cercare, quando me ne verrà dinuovo la voglia, che ti garbi o no. Magari finirà col piacerti, quelle come te sono puttane... Come avrebbe fatto a chiedere a zia Celeste di non mandarla più fuori da sola? E come avrebbe fatto a raccontarle quello che era successo? Zia Celeste era severa: l’avrebbe picchiata, la picchiava sempre di santa ragione quando, giocando, cadeva e si sbucciava le ginocchia, chissà come avrebbe reagito di fronte a quei lividi, quegli strappi sui vestiti, quel macello che le avevano fatto là, in quel posto che era indecente solo a nominarlo. E chissà come avrebbe reagito, venendo a sapere che aveva perso il cestino con la biancheria pulita di Madame Dutroux. Sei una scema, di te non ci si può fidare...E giù sberle.

    Si leccò piano le labbra peste, sporche di sangue e di zucchero a velo. La testa le girava, e aveva male dappertutto, come se l’avessero riempita tutta quanta di vetri rotti. Sarebbe caduta lunga distesa in mezzo alla strada, se non si fosse fermata a tirare il fiato. Si sedette su di un gradino, sospirando. Chi le passava vicino non faceva caso alle sue lacrime e ai suoi lividi,  stracciata com’era dovevano averla presa per una mendicante, una signora caritatevole le aveva lasciato cadere vicino un quarto di dollaro che lei aveva afferrato e stretto nel pugno, chissà, magari alla vista dei soldi zia Celeste si sarebbe calmata e non l’avrebbe picchiata.

     Si accoccolò contro il muro, cercò di addormentarsi col pollice in bocca, come quando era una bambina piccola e la mamma era ancora viva, quella mamma tanto bella quanto sciocca di cui le aveva detto zia Celeste, quella mamma che, fosse stata ancora con lei, non avrebbe permesso che le accadesse niente di male. E suo padre? L’avrebbe difesa con la sua scure da boscaiolo dal signore cattivo, quel negro grande, grosso e forte che abbatteva gli alberi e che era morto prima ancora che lei venisse al mondo.

    Tutti gli uomini vogliono quella cosa dalle donne. Quella cosa che fa male e fa schifo. Tutti quanti. Anche Monsieur Almeida, il maestro di scherma? Si sarebbe sposata, a sedici anni, non avrebbe fatto la fine di zia Celeste, lo diceva sempre. Si sarebbe sposata per amore, con un uomo bello e gentile come lui, e sarebbe stata felice. Le lacrime le correvano giù fredde per le guance, mescolandosi al sangue che le colava dalle narici e le finiva dentro la bocca, dolciastro e denso di secrezioni. Avrebbe trovato il coraggio di tornare a casa, di affrontare, dopo quella prova, anche la rabbia di zia Celeste? Col coso che serve per pisciare, aveva sentito una volta da una ragazza più grande, un uomo può mettere un bambino in corpo alla donna, ed era proprio quello che aveva fatto con lei il signore bianco. Aveva una grossa testa, capelli lunghi e folti, il sopracciglio spaccato. Andava a tirare di scherma da Monsieur Almeida. Marchese...Marchese De Conteneau, ecco.

 

Capitolo diciannovesimo

 

    Era tanto malconcia da sembrare irriconoscibile e tremava come una foglia, quando Javier l’aveva trovata. Dove mi portate? Ma a casa tua, ti cureremo, guarirai, il dolore e questi brutti tagli spariranno e ritornerai bella com’eri prima...No, non dirà niente, zia Celeste, ti abbraccerà stretta e ti dirà che ti vuole bene. Devi solo dirmi chi è stato.

     La bocca che tremava era spaventosamente gonfia, un occhio nero. Il naso le sanguinava, e gli aveva imbrattato la camicia bianca. Difficile credere che quel fagotto tumefatto, pesto e sanguinante, che gli singhiozzava tra le braccia mentre il cavallo camminava al passo verso casa, poche ore prima fosse una bella bambina sana, spensierata e felice di stare al mondo. Sarebbe guarita, le sue ferite non erano gravi. Ma non sarebbe mai più tornata ad essere quella che era stata, questo era sicuro.

    -Devi dirmelo. La pagherà.

    La paura, la vergogna e il dolore le chiudevano la gola. Anche Monsieur Almeida era un uomo come quell’altro lì, un individuo schifoso, o forse no, non aveva gli occhi di quell’altro, non sarebbe mai stato capace di farle del male, ed era salva, almeno fintantochè lui non l’avrebbe ritrovata, e sarebbe stata un’altra volta paura, vergogna e dolore. Un filo di sangue continuava a scorrerle tra le gambe, macchiandole la stoffa fiorita della gonnella, le calze di lana, i polacchini sformati.

    -Ha approfittato di te, maledetto. Devi dirmi chi è stato e lo ammazzo, com’è vero Dio.

   Sarebbe stato bello che la spada di Monsieur Almeida lo passasse da parte a parte. L’inferno lo avrebbe inghiottito, e lei non avrebbe più avuto ragione d’aver paura. O forse no, sarebbe tornato a visitare i suoi sogni, per farle rivivere tutto quello che era successo. E lei avrebbe sentito ancora le sue mani, l’odore del suo alito sopra la faccia, il dolore dei suoi pugni pesanti, si sarebbe svegliata nel cuore della notte, madida di sudore, urlando come una pazza: il suo incubo non sarebbe finito, mai.

    -Avanti, dimmelo, Valentine. Tanto verrei a saperlo comunque.

    -Ha detto che mi ucciderà se...

    Singhiozzi forti, dolorosi, le schiantavano le costole ammaccate. Ti verrò a cercare, se ne parlerai con qualcuno, ma non per fare l’amore. Per ammazzarti come un cane, sgualdrinella nera.

    -Sarò io a ucciderlo, Valentine: per quello che ti ha fatto, merita solo di essere tolto dal mondo.

    Valentine chiuse gli occhi, sospirò. Il Marchese, sussurrò con un filo di voce. Quello che viene da voi quasi tutti i giorni.

 

Capitolo ventesimo

 

La mia fiducia tradita e il dolore di un’innocente esigono soddisfazione. Se vi è rimasto un po’ d’onore e il coraggio di battervi da uomo a uomo, vediamoci questa sera alle sette al Campo de los Palmitos. Sapete dov’è. Non portate padrini, secondi e gente del genere, è tra me e Voi. E non crediate di sfuggire al destino, verrei a cercarvi. Spada, all’ultimo sangue.

   

   

    Se l’era presa più a cuore rispetto a quanto la faccenda meritasse, Javier Almeida la Pantera, si ritrovò a pensare il Marchese De Conteneau appallottolando quel suo insolente biglietto e gettandolo in un angolo. Un negro, ma come diamine si permetteva? Soltanto ai gentiluomini era dato di poter lavare un’onta col sangue, non ai selvaggi, agli africani, alla marmaglia che chissà da dove diavolo veniva. Quanti anni aveva la ragazzina, l’angelo, l’innocente? Abbastanza da farsi sbattere da un uomo, le negre sono precoci, e quella era una donna, malgrado  fosse piccola e minuta, una donna già tenuta  per legge a mettersi il fazzoletto sulla testa prima di uscire in strada. La prima volta strepitano e strillano tutte quante, ma dopo...Che avrebbe potuto pretendere di meglio dalla vita, quella mocciosa? Fosse stata carina e gentile con lui, avrebbe potuto solo trarne dei vantaggi, quindi a che pro fare tanto la difficile? Perché prima di farle la festa le aveva rotto il naso e abbottato un occhio? Avrebbe imparato presto che il confine tra il dolore e il piacere era molto incerto, come soleva sostenere quel cugino francese di sua madre, la pecora nera della famiglia, discreto scrittore e libertino impenitente, che era riuscito, per i suoi costumi scandalosi, ad inguaiarsi con il Vecchio Regime, la Monarchia Costituzionale, Robespierre, il Direttorio e Napoleone. Donatien Alphonse De Sade. Non può esserci piacere se non c’è sofferenza.

    Capace che la pensassero così anche Javier Almeida e quella puttana della sua cantante. Capace che quel maledetto negro se la fosse presa tanto a cuore perché in realtà ci teneva a farla lui, la festa alla piccola. Valentine. Si chiamava così.

    Questa sera alle sette, al Campo de los Palmitos. E’ tra me e voi. Niente padrini. Spada. All’ultimo sangue...Le parole gli ronzavano come mosconi dentro le orecchie. Se vi è rimasto ancora un po’ d’onore e di coraggio...

     Il Marchese sguainò la sua spada dal fodero. Ci sarebbe andato, al Campo de los Palmitos. Da solo. E lo avrebbe sgozzato come un cane. 

 

Capitolo ventunesimo

 

    -Che tu sia maledetto.

    Pronunciò  le parole con voce calma, quasi piatta, avanzando verso di lui, la spada in pugno, i lunghi capelli neri scomposti dalla brezza. Il sole era  ormai basso sull’orizzonte e, dalla terra scura, si levava un vapore di nebbia  che s’attaccava alla pelle, facendoci correre sopra un brivido che non era freddo soltanto.

    -Quentin De Conteneau. Che tu sia mille volte maledetto.

    La punta della sua spada strisciava per terra, e il suo passo era malfermo, barcollante. Contrariamente alle sue abitudini, Javier Almeida, che per il solito beveva quasi esclusivamente un infuso verdastro, forse tè cinese o qualche altra porcheria del genere, doveva essersi ubriacato come un carrettiere. Ha paura di me: sa che posso distruggerlo, diversamente non avrebbe fatto quello che non fa mai.

    -Che tu sia maledetto, vigliacco...

    E’ ubriaco. O forse sta male. Sembra che stenti a reggersi in piedi. Mi teme, già: sa bene quello che valgo, con la spada in pugno, sa che potrei ammazzarlo come un cane...Quasi quasi gli sarebbe dispiaciuto doverlo fare, pensava, era giovane, un bel ragazzo pieno di vita, e simpatico anche, ma si era messo in mezzo a faccende che non lo riguardavano. O me o lui, uno dei due non ne uscirà vivo, è nei patti. La luce della luna gli illuminava la bella faccia arrogante e fiera, gli occhi colore del miele dentro un vasetto di vetro. Non aveva mai notato che Javier Almeida avesse degli occhi così chiari, era sempre stato più che sicuro che aveva i soliti occhi neri di tutti quelli come lui, ma poteva essersi sbagliato. O, forse, era solo il riflesso del giorno che dileguava a battergli sulla faccia, creando quell’impressione. In ogni caso, non era lo sguardo di un ubriaco, quello. Gli occhi che lo fissavano erano gli stessi che, per generazioni, avevano spiato l’avanzare del leone tra l’erba alta della savana.

    -Battiti da uomo. Sempre ammesso che tu lo sia e lo sia stato.

   Lo sguardo intenso di quegli occhi  così curiosamente chiari gli penetrava nel cervello come un ago di ghiaccio. Era uno sguardo furente, famelico, forse più simile a quello del leone che avanzava tra l’erba gialla della savana che a quello del cacciatore in agguato, con la zagaglia stretta nel pugno.

    Sarò il cacciatore? O sarò la preda? Lo sente, lui, l’odore della mia paura? Il suo sguardo impenetrabile non diceva nulla, mentre le spade cozzavano. Sì, lo sento, l’odore della tua paura. Un odore dolciastro, caldo, che mi fa stare male dentro. E quando il buio inghiottirà la luna...Allora il panico ti torcerà le budella e il terrore ti stringerà la gola, Quintin De Conteneau.

    Ma la luna era ancora alta nel cielo, bianca e tonda come una faccia di bambina. La bestia cercherà la preda, quando uscirà fuori dalla sua prigione e nulla potrà nulla per impedirlo, né la volontà, né il succo dell’ortica, l’unico rimedio atto a contrastare il richiamo del plenilunio, a impedire la Trasformazione, a meno che...Ci sarebbe stata l’eclissi, quella notte.

    Ma la luna era sempre alta e nitida nella sua rotonda, luminosa bianchezza. Il cozzare delle spade copriva il richiamo degli uccelli notturni, l’ululato lontano di qualche cane selvatico. Faceva freddo, e il vento della notte gonfiava le leggere camicie dei duellanti.

     Javier Almeida sembrava stanco, a momenti addirittura stremato: da una febbre, dal vino, da qualche droga, dalla paura, chissà. O forse era tutto quanto un trucco,  una maledetta finzione, perché in realtà continuava a battersi come un leone, ed il Marchese si rendeva conto che non sarebbe stato affatto semplice sopraffarlo. Agile, un demonio. Maledettamente agile, nonostante fosse così alto. Agile, come tutti quanti i negri. E abile, anche se favorito o forse svantaggiato dalla sua  notevole statura, portava parecchie volte i colpi dall’alto, restando pericolosamente scoperto. Approfittane, infilati sotto la sua guardia, si diceva De Conteneau. Fallo, e cacciagli la spada nel petto fino all’elsa. Nessuno reclamerà giustizia per la sua vita spezzata, nemmeno quella puttana della cantante. Non manca molto al termine della Quaresima, il teatro dell’Opera riaprirà i battenti e se lo scorderà cantando, il suo bel negro, l’italiana.

    Un brandello di nuvola velò la luna e gli occhi cangianti di Javier Almeida. Un sudore copioso lucidava la sua pelle di velluto, un respiro ansimante, quasi asmatico, gli sollevava il petto. Era stanco, ma non si arrendeva. Solo dopo che chi aveva tolto l’anima alla piccola Valentine fosse crollato a terra morto si sarebbe fermato: doveva andare così, era destino, anche se il vecchio Concho aveva in tutti i modi tentato di fermarlo. Non ci sarebbe stato scampo, per chi aveva tradito la sua amicizia e ucciso i sogni d’una bambina di undici anni, costasse quel che costasse: anche mille anni ancora di quel supplizio.

    L’affondo del Marchese lo colse di sorpresa, pochi secondi prima dell’eclissi. Ansimò, sputò sangue, come tanti anni prima, sentì il dolore della spada che gli penetrava nel petto  con tutta la sensibilità acuita della sua strana natura, né uomo né animale, né angelo né demonio. Stramazzò a terra e De Conteneau si chinò su di lui, gli strappò via dal corpo la spada grondante sangue, urlando al cielo il suo trionfo. Ma urlò di terrore, quando il buio inghiottì la luna, e tacque per sempre, quando i canini acuminati della Bestia gli si serrarono, implacabili, sulla gola scoperta.

 

 

Capitolo ventiduesimo

 

    Tutta la città ne aveva parlato. Un lupo, un cane randagio... Che cosa era costato la vita al Marchese De Conteneau? Forse un puma, anche se gli indiani e i vecchi cacciatori sostenevano che il puma è vigliacco, davanti all’uomo scappa. Al Campo de los Palmitos, dove il cadavere, mangiato dai cani e con la gola squarciata, era stato ritrovato, capitava che ne avvistassero qualcuno, di tanto in tanto, fantasmi gialli con gli occhi d’ambra che si muovevano circospetti nel crepuscolo, pronti a nascondersi al minimo stormire delle foglie, creature solitarie e diffidenti che nell’uomo conoscevano il loro nemico, un nemico dinanzi al quale fuggire senza  cercare di difendersi.

    Una settimana, un mese. Lascia una madre anziana e malata, una sorella senza marito...Come faranno, poverette? Come faranno, con la piantagione da mandare avanti e senza più un uomo in casa? E la fidanzata? Si sarebbero dovuti sposare di lì a qualche settimana, non fosse capitato quel che era capitato. Invece, adesso, il padre doveva affannarsi a cercarle un altro partito, se non voleva che ammuffisse in casa, e non sarebbe stato facile, ricca era ricca, ma anche brutta, grassa come una manza e con tutte quelle pustole. Quentin De Conteneau era morto, e nessuno aveva  domandato o preteso spiegazioni su come fosse andata, neanche a proposito della spada d’acciaio col segno dell’Eclissi inciso sul guardamano che non gli apparteneva ed era stata trovata accanto al suo corpo.

    L’avevano lavato, accomodato alla meglio, rivestito con il suo abito da sera, prima di chiuderlo dentro la bara. Era stato seppellito a St. Louis nella tomba di famiglia, dopo la cerimonia che ci si aspetta per uno del suo rango, la carrozza con i cavalli neri, il Vescovo a officiare il rito funebre, le parenti in gramaglie e quella fidanzata che a stento lo conosceva a faticare per spremere davanti a  un pubblico pronto al giudizio spietato  quelle lacrime di circostanza che stentavano a venir fuori dagli occhi.

    Una settimana, un mese, un anno. La vita continua, si dice così. Altre gioie, altri dolori, altri scandali, presto avrebbero cacciato nell’angolo delle cose andate la storia raccapricciante del Marchese De Conteneau, ammazzato da un puma la notte in cui la luna si era nascosta, brutto segno, dicevano le fattucchiere di Place Congo, mentre cercava di difendersi impugnando una spada che non era la sua. O di Javier Almeida, la Pantera, a cui con ogni probabilità quella spada apparteneva, l’uomo più bello della città, spadaccino e stregone, dileguato come se l’avesse inghiottito il niente un paio di giorni dopo il funerale. Qualcuno l’aveva visto seguire il feretro da lontano, stretto nel suo mantello nero, i capelli come serpenti che gli ruscellavano giù per la schiena, gli occhi dorati e scintillanti come monete nuove d’oro zecchino, gli stessi occhi del puma che aveva tagliato la gola al povero Marchese...I negri di casa De Conteneau dovevano aver sentito  i brividi e fatto gli scongiuri di nascosto, incrociando quello sguardo. O forse no, era solo il maestro di scherma del Marchese, s’era sentito in dovere di partecipare alle sue esequie, come chiunque lo avesse conosciuto, bianchi e neri, liberi e servi, aveva fatto  semplicemente il suo dovere di cristiano, adempiuto ad un’opera di misericordia...Ed era sparito. Fuggito con una donna, si era detto. Con una bianca. Non sarebbe andato lontano.

    Con la fine della Quaresima, il Teatro dell’Opera aveva riaperto i suoi battenti e Masina Zanetta era tornata ad essere Luna Valmarin la cantante, creatura di magia, Zerlina, Astrifiammante Regina della Notte, Euridice. Aveva avuto gli applausi  il denaro e l’ammirazione, tutto quello che dalla vita aveva sempre desiderato, fin da bambina. Anche da quegli americani rozzi che avevano tanti soldi e non capivano un accidente di musica, prima che il contratto scadesse, le acque si calmassero e, passato un anno, potesse ritornare nel posto dal quale era venuta. Era sempre stava vanitosa, e amava essere amata, com’è nella natura delle donne, checché ne dicessero le monache della Pietà o i moralisti in cui aveva avuto la ventura di imbattersi, assillanti come la pittima che, ai tempi della Serenissima Repubblica, si attaccava alle costole dei debitori  insolventi per ricordare senza requie a loro e agli altri colpe che difficilmente sarebbero state perdonate.   Sei corrotta, Masina. Sei marcia. Chiunque calchi il palcoscenico è destinato alla dannazione. Il paradiso in terra ti garantisce l’inferno nell’aldilà...

    Per fortuna, la catenella d’oro con appeso il ciondolo di smalto gliel’avevano restituita. E, per non separarsene mai più, lei se l’era fatta saldare al collo in modo che non potesse essere tolta.

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

     

 

 

   
 
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