Capitolo quattordicesimo
E che
m’importa? Io amo quest’uomo: quello che provo per lui è diverso da ciò che ho
sentito per George, per Andrea, per tutti quanti gli altri. Finirà. Lo so.
Tutto quanto finisce. E ogni gioia si paga sempre con un tributo di dolore.
Lo guardò
rivestirsi, alto, nero e bello, con quei lunghi riccioli aggrovigliati sulla
testa e il corpo stupendo, una statua. Voglio un figlio tuo, gli aveva detto.
Lui aveva sorriso, con quei suoi denti
bianchi e bellissimi, aveva scosso la testa. Non sarei un buon padre, le aveva
risposto. Mi proponi di rendermi complice d’una pazzia, Masina. Il nostro non è
amore, anche se a te sembra così. Non esiste, l’amore, è soltanto una fantasia
di donne e poeti. Ne hai frequentata troppa, di quella gentaglia, sarebbe ora
che scendessi coi piedi sulla terra.
E se non
era amore, quello, che cos’altro poteva essere? Non una semplice attrazione dei
sensi, almeno da parte sua. Sentiva di amare la sua anima e non la sua pelle
soltanto. Con lui non erano solo i sensi a gioire ed anche parlare insieme era
bello: di musica, del tempo e della vita, le mani intrecciate, i corpi che
neppure si sfioravano. Masina era sicura di non aver mai conosciuto un uomo più
intelligente di Javier Almeida. Un
figlio mio? Donna, tu sei pazza. Non sai quello che dici. Un figlio nero. Lo
condanneresti all’infelicità, e condanneresti anche te stessa: te ne rendi
conto?
Ma io non
sono come tutte quante le altre: sono una teatrante, un’artista, una persona
che vive fuori dalle regole e che non si giudica secondo il metro di schemi
consueti. Per la gente, non sono una donna, sono solo una voce. Zerlina,
Astrifiammante la Regina della Notte, Euridice...A chi mi applaude in teatro,
non importerebbe se avessi un figlio senza avere un marito. Bianco, negro...Non
cambierebbe niente. Alle donne come me non si chiede di essere delle sante, ma
solo di cantare.
Povera
illusa, non conosci questa città...
La mia
città è Venezia: qui sono solamente di passaggio.
Il gelo.
I pensieri che non osavano diventare parole. In fondo, lo conosceva da qualche
giorno appena, di lui sapeva ben poco. Che era bellissimo. E che era così
giovane. Tanto più di lei. Forse, l’ostacolo era la differenza d’età, più che
il colore della pelle. O forse era incapace di amare, Javier Almeida la
Pantera: vanitoso, pieno di sé, quello che voleva se l’era preso in cambio d’un
ciondolo d’oro e di smalto identico ai tatuaggi che gli segnavano i polsi. Era
come tutti quanti gli altri uomini, anche se riusciva a leggere nel pensiero, a
mantenere il controllo del suo corpo
quando gli altri per il solito
lo perdevano, anche se era scampato ad una ferita mortale, anche se, con la sola
forza del suo sguardo era riuscito a fermare l’attacco del cane idrofobo. Non
era diverso dai ricchi porci che barattavano l’amore col denaro, anche se era
un mago. Non era diverso da loro, anche se baci e carezze riusciva a darli e a
prenderli con una dolcezza e una
sensibilità struggenti, di cui lei non
avrebbe mai neppure sospettato l’esistenza. O era magia, inganno anche quello?
Masina si
strappò dal collo il gioiello d’oro e di smalto, lo gettò a terra, lo guardò
ruzzolare tra i lastroni infestati d’erbacce del cortile, per andarsi a fermare
tra le sbarre di ferro della gabbia sotto la tettoia, la gabbia dove Javier
rinchiudeva la vecchia Spes quando la sua amante bianca che aveva paura dei
cani andava a trovarlo di nascosto.
-Era
grossa come un vitello, ma non avrebbe fatto del male a una mosca. Aveva dieci
anni, quando è morta. Non ho più voluto cani: vivono troppo meno di noi. Siamo
costretti a vederli morire. L’età dei cani mi mette paura.
Se è per
questo, è l’età di qualunque creatura che non sia io ad atterrirmi. Avrebbe
voluto dirglielo. Forse avrebbe dovuto. Il destino mi costringe a subire la
morte di chi mi è caro, e senza poter piangere. Un giorno ti dirò tutto quanto,
Masina: sei molto cara, senz’altro capirai. O mi prenderai per pazzo.
Troppo sensibile. Mezzo matto, proprio come George, come Ugo e Andrea. Forse scriveva poesie anche lui, magari di nascosto, poesie che nessuno aveva mai letto. Un giorno ti spiegherò tutto quanto, e allora potrai capire...Basta, Javier, ho capito perfettamente, non ho bisogno delle tue spiegazioni. Va’ al diavolo, maledetto te, e vedi di restarci.
Capitolo quindicesimo
Il
vecchio raccattò da terra la cosa luccicante e la osservò attento con l’unico occhio che gli
funzionasse, una smorfia sulla faccia glabra e grinzosa dai tratti meticci,
molto indiani, molto bianchi e appena appena un po’ africani.
Un
gioiello di valore, non occorreva essere degli intenditori, e un vecchio nero
quasi sicuramente non lo era, per rendersene conto. Non l’aveva perso Javier,
anche se a lui piaceva l’oro e se ne metteva addosso parecchio: era roba da
donne, quella. Forse della bella bionda che gli era capitato d’incontrare
diverse volte, da un po’ di tempo a quella parte. Una cantante di grido, aveva
saputo, appena giunta chissà da dove per esibirsi al Teatro dell’Opera. Una bella
figliola, non molto alta ma proporzionata, con due grosse tette che le tremolavano provocanti sotto il corpino
dell’abito attillato. A Javier doveva piacere parecchio, e altrettanto lui a lei, malgrado fosse bianca
come il latte e le donne bianche non se la facessero con i neri. Ma quella era
straniera e, in ogni caso, la reputazione appresso a un pezzo d’uomo come il
padrone, straniere o no, serie o meno, sarebbero state disposte a giocarsela in
parecchie anche a Nuova Orleans.
Chissà
come mai continuava a chiamarlo padrone, anche se non lo era. Ma non era
neanche suo figlio o suo nipote, e una qualsiasi alternativa non era mai
riuscito a farsela venire in mente, il vecchio. In ogni caso, lo conosceva da
sempre, Javier Almeida la Pantera. Ti ho visto nascere, gli diceva. Ti ho preso
in braccio e fatto ballare sulle ginocchia, quando eri alto così. Conoscevo tua
madre: era bella come te. E anche quella maledetta carogna di tuo padre, possa
marcire per sempre all’inferno con tutti quelli della sua razza.
Il
gioiello gli scintillava tra le dita secche e stecchite, illuminato dal sole
freddo della giornata invernale. Il piccolo gancio che avrebbe dovuto tenerlo
chiuso era rotto, certamente doveva averlo perso la bionda, la cantante,
l’amica di Javier, Masina o come accidenti si chiamava. Forse era stato proprio
lui a regalarglielo, anche se non gli aveva mai conosciuto l’abitudine di fare regali costosi alle sue
amanti: cose del genere le fanno quelli vecchi, brutti e ricchi. Javier era
povero e bellissimo. E giovane, almeno così sembrava. Non aveva ancora ventisei
anni, quando...Il vecchio scosse la testa, continuando a rigirare il ciondolo
tra le mani. Era di quelli che si possono aprire e aveva tre grossi brillanti
incastonati sul coperchio: chiunque l’avesse acquistato, doveva averlo pagato
parecchio. Le unghie spesse fecero scattare la molla: sul lato interno del
coperchio, era stampigliato il
monogramma di Javier. Non sapeva leggere, lui, ma gli era stato insegnato a
riconoscere le iniziali del padrone: J A. Proprio quelle. E, non fossero
bastate, il segno della luna sul sole dipinto a smalto nel medaglione, identico
ai tatuaggi sopra i suoi polsi.
Non avrebbe mai comprato l’amore di una donna in cambio d’un gioiello d’oro, lui. Quante volte glielo aveva sentito ripetere? Forse la cantante era riuscita a fargli cambiare idea, o forse...Una settimana ancora, e il buio della notte avrebbe inghiottito la luna. Lo sapeva, perché se lo sentiva dentro, quando capitava, esattamente come Javier, come chiunque appartenesse al Popolo dei Gatti. Non dovevano essercene molti, al mondo, e lui era uno di questi, anche se le circostanze non gli avevano mai permesso la Trasformazione. La magia del padrone era potente, invece. Potente e perfettamente controllabile, ma quando la notte inghiottiva la Luna...Sette giorni fanno in fretta a passare, si disse il vecchio da sé solo. Occorreva agire, e alla svelta.
Capitolo
sedicesimo
-Era da
ieri che volevo dirtelo, Masta1 Javier...
-Non
voglio che mi chiami in quel modo, Concho, maledizione. Sono un nero tale e
quale come te, anzi, sono perfino più nero di te e non mi devi chiamare più
così, altrimenti mi arrabbio, e se mi arrabbio...
Ma
rideva, Javier Almeida la Pantera, rideva con tutti quei bei denti bianchi come
le perle di una collana.
-Si
avvicina la prima notte di luna piena...
-Lo so.
Me lo sento dentro, quando succede, come capita a te. Come capita a tutti
quanti i Gatti.
Ma
sarebbe stato diverso, questa volta. Il dolore alla testa, l’oppressione al
petto li avrebbe sentiti più forti del solito, perché la luna si sarebbe
nascosta dentro il buio della notte, e neppure l’ortica avrebbe calmato la sua
inquietudine, stornato il pericolo che l’altra
natura si liberasse dalla prigione del suo corpo di uomo. Ma Concho
sapeva quel che doveva fare, quando capitava: la gabbia aveva sbarre robuste,
lui, forse per l’età, forse perché il suo potere non era abbastanza forte, non
subiva la Trasformazione e una notte fa in fretta a passare. Eppoi non capitava
più d’un paio di volte all’anno: non gli era stato difficile impedire alla luna
di renderlo suo schiavo, ma un Gatto non poteva nulla contro l’Eclissi, solo
accettarla come si accetta l’ineluttabile.
-La
cantante, Masta Javier...
-Sono
quattro giorni che non la vedo.
E la
cosa ti secca molto e non poco, Masta Javier. Ti piaceva, quella donna, come
può piacerti una destinata a invecchiare e a morire: un privilegio che al
Popolo dei Gatti è negato. O è un privilegio essere quello che sei per sempre,
mentre alla donna che ami cadranno i denti, si imbiancheranno i capelli e si
riempirà la faccia di rughe...Non gliel’hai spiegato, come stanno le cose,
quando s’è accorta che le tue ferite guariscono all’istante e che l’argento
agisce su di te tale e quale come un veleno? No, morirebbe di paura, se sapesse
una cosa del genere. Come quando hai guardato fisso quel cane e l’hai spedito
all’altro mondo. O forse anche lei l’ha pensato, era arrivato alla fine, era
troppo malandato per campare ancora un minuto soltanto. Non mi ha morso e non
ha morso neanche te, ringraziando il cielo. Ma adesso ho paura. Portami a casa
tua. Tienimi stretta...
-Guarda
qua, Masta Javier.
Maledizione, ancora. Un nero non può chiamare padrone un altro nero. Se
poi condivideva con lui certi segreti... O forse lo faceva per non dare
nell’occhio: non erano pochi, a Nuova Orleans, gli schiavi che avevano un
padrone nero. E meno loro due avessero dato nell’occhio, meglio sarebbe stato:
un giovane uomo di colore libero che per mantenersi faceva il maestro di
scherma e un vecchio con un occhio solo e senza la barba, un ermafrodito, uno
scherzo di natura, il suo schiavo, che gli preparava il pranzo e, la sera, gli
massaggiava le spalle indolenzite con l’olio di cocco.
-Guarda
qua, Masta Javier. Non è roba di quella cantante lì?
-Si
chiama Masina, Concho. Sì, forse è suo, credo d’averglielo visto.
-Credi,
Masta Javier...Non gliel’hai regalato tu, allora.
-Non sono
affari tuoi, Concho.
Già, non
erano affari suoi. Che quella puttana della cantante si facesse sbattere da
Masta Javier, che era giovane, bello, povero e nero e accettasse regali come
quello da qualche ricco sporcaccione anche un
servo privo d’uso di mondo come lui lo capiva, figurarsi il padrone, che
era intelligente, e conosceva tante cose, sapeva perfino leggere, ed era
tutt’altro che ingenuo.
-Allora...
-Non ho mai comprato le donne con l’oro, lo sai. Eppoi...Questo e questo e quest’altro sono brillanti, hai capito, vecchio zotico? E questo è il punzone di Niverdoux, quello che ha la bottega in Rue St. Charles e fa pagare a peso d’oro pure la latta.
Non sei
l’unico, Javier. Le cantanti son tali e quali come le puttane, e quella Masina
non sarebbe stata disposta ad accontentarsi della sua bellezza. Gli piaceva, ma
non era unica e insostituibile, pensava, accarezzando con le dita e con lo
sguardo il ciondolo d’oro sul palmo giallastro e grinzoso del vecchio: un bell’oggetto, di buon gusto, oltre che
di valore.
-Se non
sei stato tu, può essere stato solo lui.- Una smorfia grottesca gli aveva contorto tutta la faccia, mentre
l’unghia spessa del pollice faceva scattare la piccola molla del coperchio. -La
luna e il sole, Masta Javier: forse abbiamo finito di cercare.
La luna si
sarebbe nascosta nel buio e ci sarebbe
stata la Trasformazione, dolce e potente come un orgasmo, ineluttabile come il
destino. Ma nessuno avrebbe chiuso la porta della gabbia, quella notte. E
Concho non si sarebbe preoccupato di gettare oltre le sbarre una vecchia
gallina per placare la sua fame.
Capitolo
diciassettesimo
Si
chiamava Jacques Aubry. Le sue stesse iniziali, pensava Javier. Non conosceva
Masina di persona, gli aveva detto, ma ne ammirava il talento: era sempre stato
un appassionato dell’Opera, e il gesto di regalarle un gioiello d’oro era stato
soltanto un omaggio alla bellezza della sua voce. Poteva permetterselo,
nonostante fosse ancora piuttosto
giovane era un avvocato tra i più qualificati della città, con un fior di
clientela e parcelle salate.
Chissà se
c’era da credergli. Ma aveva senso, arrivati a quel punto, essere gelosi?
L’avvocato Aubry l’aveva ringraziato per la sua onestà, e gli aveva anche detto
che quel gioiello era stato copiato da un portafortuna di famiglia, un vecchio
argento quasi del tutto annerito che lui aveva ereditato da sua nonna. Sotto
sotto anche questo qui è convinto che tutti i negri siano dei ladri, aveva
pensato Javier, guardandolo: era piccolo e grasso, con una pelle tesa e
colorita, segnata sulle guance e ai lati del naso da un reticolo di venuzze.
Dovremmo essere un po’ parenti. Chissà come ci resterebbe male, se glielo
dicessi.
-Non
dev’essere stato facile, per voi, trovarmi.
-Ho
riconosciuto il punzone di Niverdoux e mi sono rivolto a lui.
Sei
intelligente, per un negro: intelligente e onesto invece che stupido e ladro.
Ma la faccia paciosa dell’avvocato Aubry non tradiva pensieri malevoli e gli
ricordava, chissà perché, quella di un gigantesco neonato, con le guance rosse
e i capelli radi e piumosi. Era sposato da poco, con una piccoletta
giovanissima che lo contemplava con sguardo adorante. Una coppia innamorata,
contrariamente a quanto accadeva di solito. Forse gli aveva detto la verità,
non c’erano stati secondi fini, da parte sua, quando aveva regalato quel
ciondolo a Masina. Sei brava, hai talento, meriti tutta quanta la tua fortuna e
questo ti aiuterà a conservarla e incrementarla. Ci ha creduto mia nonna. E ci
ha creduto mio nonno, a suo tempo: don Gregorio De Almeida. Ma lui non è stato
poi così fortunato. Lo sai chi era? Forse no, è facile che te lo abbiano
taciuto: nemmeno tuo padre sapeva di essere suo figlio...
Aveva una
bella casa, l’avvocato Aubry, una solida casa borghese dal mobilio austero, una
casa con tanti quadri di valore e tanti
libri antichi, una casa dove sembrava che cultura e saggezza impregnassero gli
arredi, la boiserie* di quercia, i
tendaggi. Perfino l’aria che si respirava. E anche lui si portava
appresso un’apparenza solida e saggia
come la sua casa, più vecchia degli anni che doveva avere. Mancava poco alla
notte della resa dei conti. Sua moglie avrebbe pianto come una disperata.
Sembrava una bambina, con quegli enormi occhi scuri nel faccino pallido.
Non è
giusto. Non mi ha fatto niente. Una nebbia fredda ed umida avvolgeva la strada,
gli edifici, la gente. Meno di un giorno alla resa dei conti. Concho non
avrebbe chiuso la gabbia, supplicarlo o minacciarlo sarebbe stato inutile. Che
fare? Sarebbe stato inutile anche
tentare di resistere al richiamo della luna. O cercare di uccidersi .Se avesse
provato a tagliarsi le vene o a gettarsi nel fiume la morte lo avrebbe
respinto: ai Gatti non era dato di morire.
Dio c’è. Lo so. Lo avrebbe aiutato, pensava varcando il portone aperto della chiesa di St.Claude. Dio è più forte del diavolo.
-Padre...
-Desideri...confessarti, figliolo?
-Parlarvi, Padre.
Dirvi che
ci sono cose più preziose della vita, e più orribili della morte. Dirvi di
strapparmi via questo demonio che mi mangia l’anima. Chiedervi come potrei
morire, Padre. Non è colpa mia, se...
C’era un
odore stantio d’incenso, di candele e di umidità, dentro la chiesa. Javier
afferrò il candelabro d’argento e la pelle del palmo bruciò, sfrigolando.
L’argento, il veleno della magia nera.
Il mio è un male antico, Padre...
-Esci dalla Casa di Dio, maledetto. Vade retro, Satana...
*Rivestimento delle pareti interne, in legno
pregiato.
Capitolo
diciottesimo
L’inverno
sarebbe finito, e presto. Il freddo però pungeva ancora, pensava Valentine,
stropicciandosi gli occhi, era un dolore come di spilli, sopra i lividi che le
segnavano la faccia, sul labbro gonfio che batteva come un cuore. Chissà se
sanguinava ancora tra le gambe, se qualcuno aveva notato quella sconcezza e s’era
messo a riderle dietro le spalle, immaginando tutto quanto, ma di certo non il
male che aveva sentito, quando il signore bianco le aveva scaricato addosso i
suoi pugni per costringerla a fare quello che non avrebbe voluto, eppure era
stato così gentile, le aveva offerto un passaggio sulla sua bella carrozza, e
lei aveva accettato senza farselo dire due volte, il cestino carico di
biancheria lavata e stirata era pesante e la vecchia signora a cui avrebbe
dovuto consegnarlo stava a parecchi isolati di distanza. Era stato gentile,
già. Le aveva parlato con dolcezza, comprato un cartoccio di frittelle da un
venditore ambulante. Le aveva detto che era bella, mentre le liberava i lunghi
riccioli scuri dal fazzolettone che glieli nascondeva. Le aveva detto ormai sei
una donna, e il tocco indiscreto delle sue mani le aveva fatto provare
vergogna. Lei aveva urlato, cercando di difendersi con la forza della
disperazione e la debolezza del suo corpo ancora troppo piccolo. Per lui era
stato facile farla tacere a forza di botte, si era rivelato per ciò che era e,
mentre la carrozza continuava ad andare senza fermarsi, le aveva fatto quella
cosa terribile di cui si sarebbe vergognata negli anni a venire, fosse campata
mille anni, anche se era difficile pensare che quel dolore non l’avrebbe
uccisa.
Non ti ho fatto niente di niente, solo quello che tutti gli uomini fanno alle donne. Mi piacciono le ragazzine come te. Ti verrò a cercare, quando me ne verrà dinuovo la voglia, che ti garbi o no. Magari finirà col piacerti, quelle come te sono puttane... Come avrebbe fatto a chiedere a zia Celeste di non mandarla più fuori da sola? E come avrebbe fatto a raccontarle quello che era successo? Zia Celeste era severa: l’avrebbe picchiata, la picchiava sempre di santa ragione quando, giocando, cadeva e si sbucciava le ginocchia, chissà come avrebbe reagito di fronte a quei lividi, quegli strappi sui vestiti, quel macello che le avevano fatto là, in quel posto che era indecente solo a nominarlo. E chissà come avrebbe reagito, venendo a sapere che aveva perso il cestino con la biancheria pulita di Madame Dutroux. Sei una scema, di te non ci si può fidare...E giù sberle.
Si leccò
piano le labbra peste, sporche di sangue e di zucchero a velo. La testa le
girava, e aveva male dappertutto, come se l’avessero riempita tutta quanta di
vetri rotti. Sarebbe caduta lunga distesa in mezzo alla strada, se non si fosse
fermata a tirare il fiato. Si sedette su di un gradino, sospirando. Chi le
passava vicino non faceva caso alle sue lacrime e ai suoi lividi, stracciata com’era dovevano averla presa per
una mendicante, una signora caritatevole le aveva lasciato cadere vicino un
quarto di dollaro che lei aveva afferrato e stretto nel pugno, chissà, magari
alla vista dei soldi zia Celeste si sarebbe calmata e non l’avrebbe picchiata.
Si
accoccolò contro il muro, cercò di addormentarsi col pollice in bocca, come
quando era una bambina piccola e la mamma era ancora viva, quella mamma tanto
bella quanto sciocca di cui le aveva detto zia Celeste, quella mamma che, fosse
stata ancora con lei, non avrebbe permesso che le accadesse niente di male. E
suo padre? L’avrebbe difesa con la sua scure da boscaiolo dal signore cattivo,
quel negro grande, grosso e forte che abbatteva gli alberi e che era morto
prima ancora che lei venisse al mondo.
Tutti gli
uomini vogliono quella cosa dalle donne. Quella cosa che fa male e fa schifo.
Tutti quanti. Anche Monsieur Almeida, il maestro di scherma? Si sarebbe
sposata, a sedici anni, non avrebbe fatto la fine di zia Celeste, lo diceva
sempre. Si sarebbe sposata per amore, con un uomo bello e gentile come lui, e
sarebbe stata felice. Le lacrime le correvano giù fredde per le guance,
mescolandosi al sangue che le colava dalle narici e le finiva dentro la bocca, dolciastro
e denso di secrezioni. Avrebbe trovato il coraggio di tornare a casa, di
affrontare, dopo quella prova, anche la rabbia di zia Celeste? Col coso che
serve per pisciare, aveva sentito una volta da una ragazza più grande, un uomo
può mettere un bambino in corpo alla donna, ed era proprio quello che aveva
fatto con lei il signore bianco. Aveva una grossa testa, capelli lunghi e
folti, il sopracciglio spaccato. Andava a tirare di scherma da Monsieur
Almeida. Marchese...Marchese De Conteneau, ecco.
Capitolo
diciannovesimo
Era tanto
malconcia da sembrare irriconoscibile e tremava come una foglia, quando Javier
l’aveva trovata. Dove mi portate? Ma a casa tua, ti cureremo, guarirai, il
dolore e questi brutti tagli spariranno e ritornerai bella com’eri prima...No,
non dirà niente, zia Celeste, ti abbraccerà stretta e ti dirà che ti vuole
bene. Devi solo dirmi chi è stato.
La bocca
che tremava era spaventosamente gonfia, un occhio nero. Il naso le sanguinava,
e gli aveva imbrattato la camicia bianca. Difficile credere che quel fagotto
tumefatto, pesto e sanguinante, che gli singhiozzava tra le braccia mentre il
cavallo camminava al passo verso casa, poche ore prima fosse una bella bambina
sana, spensierata e felice di stare al mondo. Sarebbe guarita, le sue ferite
non erano gravi. Ma non sarebbe mai più tornata ad essere quella che era stata,
questo era sicuro.
-Devi
dirmelo. La pagherà.
La paura,
la vergogna e il dolore le chiudevano la gola. Anche Monsieur Almeida era un
uomo come quell’altro lì, un individuo schifoso, o forse no, non aveva gli
occhi di quell’altro, non sarebbe mai stato capace di farle del male, ed era
salva, almeno fintantochè lui non l’avrebbe ritrovata, e sarebbe stata un’altra
volta paura, vergogna e dolore. Un filo di sangue continuava a scorrerle tra le
gambe, macchiandole la stoffa fiorita della gonnella, le calze di lana, i
polacchini sformati.
-Ha
approfittato di te, maledetto. Devi dirmi chi è stato e lo ammazzo, com’è vero
Dio.
Sarebbe stato bello che la spada di Monsieur Almeida lo passasse da parte a parte. L’inferno lo avrebbe inghiottito, e lei non avrebbe più avuto ragione d’aver paura. O forse no, sarebbe tornato a visitare i suoi sogni, per farle rivivere tutto quello che era successo. E lei avrebbe sentito ancora le sue mani, l’odore del suo alito sopra la faccia, il dolore dei suoi pugni pesanti, si sarebbe svegliata nel cuore della notte, madida di sudore, urlando come una pazza: il suo incubo non sarebbe finito, mai.
-Avanti,
dimmelo, Valentine. Tanto verrei a saperlo comunque.
-Ha detto
che mi ucciderà se...
Singhiozzi forti, dolorosi, le schiantavano le costole ammaccate. Ti
verrò a cercare, se ne parlerai con qualcuno, ma non per fare l’amore. Per
ammazzarti come un cane, sgualdrinella nera.
-Sarò io
a ucciderlo, Valentine: per quello che ti ha fatto, merita solo di essere tolto
dal mondo.
Valentine
chiuse gli occhi, sospirò. Il Marchese, sussurrò con un filo di voce. Quello
che viene da voi quasi tutti i giorni.
Capitolo ventesimo
La mia fiducia tradita e il dolore di un’innocente esigono soddisfazione. Se vi è rimasto un po’ d’onore e il coraggio di battervi da uomo a uomo, vediamoci questa sera alle sette al Campo de los Palmitos. Sapete dov’è. Non portate padrini, secondi e gente del genere, è tra me e Voi. E non crediate di sfuggire al destino, verrei a cercarvi. Spada, all’ultimo sangue.
Se
l’era presa più a cuore rispetto a quanto la faccenda meritasse, Javier Almeida
la Pantera, si ritrovò a pensare il Marchese De Conteneau appallottolando quel
suo insolente biglietto e gettandolo in un angolo. Un negro, ma come diamine si
permetteva? Soltanto ai gentiluomini era dato di poter lavare un’onta col
sangue, non ai selvaggi, agli africani, alla marmaglia che chissà da dove
diavolo veniva. Quanti anni aveva la ragazzina, l’angelo, l’innocente?
Abbastanza da farsi sbattere da un uomo, le negre sono precoci, e quella era
una donna, malgrado fosse piccola e
minuta, una donna già tenuta per legge
a mettersi il fazzoletto sulla testa prima di uscire in strada. La prima volta
strepitano e strillano tutte quante, ma dopo...Che avrebbe potuto pretendere di
meglio dalla vita, quella mocciosa? Fosse stata carina e gentile con lui,
avrebbe potuto solo trarne dei vantaggi, quindi a che pro fare tanto la
difficile? Perché prima di farle la festa le aveva rotto il naso e abbottato un
occhio? Avrebbe imparato presto che il confine tra il dolore e il piacere era
molto incerto, come soleva sostenere quel cugino francese di sua madre, la
pecora nera della famiglia, discreto scrittore e libertino impenitente, che era
riuscito, per i suoi costumi scandalosi, ad inguaiarsi con il Vecchio Regime,
la Monarchia Costituzionale, Robespierre, il Direttorio e Napoleone. Donatien Alphonse De Sade. Non può esserci piacere se non c’è sofferenza.
Capace
che la pensassero così anche Javier Almeida e quella puttana della sua
cantante. Capace che quel maledetto negro se la fosse presa tanto a cuore
perché in realtà ci teneva a farla lui, la festa alla piccola. Valentine. Si
chiamava così.
Questa sera alle sette, al Campo de los Palmitos. E’ tra me e voi. Niente padrini. Spada. All’ultimo sangue...Le parole gli ronzavano come mosconi dentro le orecchie. Se vi è rimasto ancora un po’ d’onore e di coraggio...
Il
Marchese sguainò la sua spada dal fodero. Ci sarebbe andato, al Campo de los
Palmitos. Da solo. E lo avrebbe sgozzato come un cane.
Capitolo
ventunesimo
-Che tu sia maledetto.
Pronunciò le parole con voce
calma, quasi piatta, avanzando verso di lui, la spada in pugno, i lunghi
capelli neri scomposti dalla brezza. Il sole era ormai basso sull’orizzonte e, dalla terra scura, si levava un
vapore di nebbia che s’attaccava alla
pelle, facendoci correre sopra un brivido che non era freddo soltanto.
-Quentin De Conteneau. Che tu sia mille volte maledetto.
La punta
della sua spada strisciava per terra, e il suo passo era malfermo, barcollante.
Contrariamente alle sue abitudini, Javier Almeida, che per il solito beveva
quasi esclusivamente un infuso verdastro, forse tè cinese o qualche altra
porcheria del genere, doveva essersi ubriacato come un carrettiere. Ha paura di
me: sa che posso distruggerlo, diversamente non avrebbe fatto quello che non fa
mai.
-Che tu sia
maledetto, vigliacco...
E’
ubriaco. O forse sta male. Sembra che stenti a reggersi in piedi. Mi teme, già:
sa bene quello che valgo, con la spada in pugno, sa che potrei ammazzarlo come
un cane...Quasi quasi gli sarebbe dispiaciuto doverlo fare, pensava, era
giovane, un bel ragazzo pieno di vita, e simpatico anche, ma si era messo in
mezzo a faccende che non lo riguardavano. O me o lui, uno dei due non ne uscirà
vivo, è nei patti. La luce della luna gli illuminava la bella faccia arrogante
e fiera, gli occhi colore del miele dentro un vasetto di vetro. Non aveva mai
notato che Javier Almeida avesse degli occhi così chiari, era sempre stato più
che sicuro che aveva i soliti occhi neri di tutti quelli come lui, ma poteva
essersi sbagliato. O, forse, era solo il riflesso del giorno che dileguava a
battergli sulla faccia, creando quell’impressione. In ogni caso, non era lo
sguardo di un ubriaco, quello. Gli occhi che lo fissavano erano gli stessi che,
per generazioni, avevano spiato l’avanzare del leone tra l’erba alta della
savana.
-Battiti
da uomo. Sempre ammesso che tu lo sia e lo sia stato.
Lo sguardo
intenso di quegli occhi così
curiosamente chiari gli penetrava nel cervello come un ago di ghiaccio. Era uno
sguardo furente, famelico, forse più simile a quello del leone che avanzava tra
l’erba gialla della savana che a quello del cacciatore in agguato, con la
zagaglia stretta nel pugno.
Sarò il
cacciatore? O sarò la preda? Lo sente, lui, l’odore della mia paura? Il suo
sguardo impenetrabile non diceva nulla, mentre le spade cozzavano. Sì, lo
sento, l’odore della tua paura. Un odore dolciastro, caldo, che mi fa stare
male dentro. E quando il buio inghiottirà la luna...Allora il panico ti torcerà
le budella e il terrore ti stringerà la gola, Quintin De Conteneau.
Ma la
luna era ancora alta nel cielo, bianca e tonda come una faccia di bambina. La
bestia cercherà la preda, quando uscirà fuori dalla sua prigione e nulla potrà
nulla per impedirlo, né la volontà, né il succo dell’ortica, l’unico rimedio
atto a contrastare il richiamo del plenilunio, a impedire la Trasformazione, a
meno che...Ci sarebbe stata l’eclissi, quella notte.
Ma la
luna era sempre alta e nitida nella sua rotonda, luminosa bianchezza. Il
cozzare delle spade copriva il richiamo degli uccelli notturni, l’ululato
lontano di qualche cane selvatico. Faceva freddo, e il vento della notte
gonfiava le leggere camicie dei duellanti.
Javier
Almeida sembrava stanco, a momenti addirittura stremato: da una febbre, dal
vino, da qualche droga, dalla paura, chissà. O forse era tutto quanto un
trucco, una maledetta finzione, perché
in realtà continuava a battersi come un leone, ed il Marchese si rendeva conto
che non sarebbe stato affatto semplice sopraffarlo. Agile, un demonio. Maledettamente
agile, nonostante fosse così alto. Agile, come tutti quanti i negri. E abile,
anche se favorito o forse svantaggiato dalla sua notevole statura, portava parecchie volte i colpi dall’alto,
restando pericolosamente scoperto. Approfittane, infilati sotto la sua guardia,
si diceva De Conteneau. Fallo, e cacciagli la spada nel petto fino all’elsa.
Nessuno reclamerà giustizia per la sua vita spezzata, nemmeno quella puttana
della cantante. Non manca molto al termine della Quaresima, il teatro dell’Opera
riaprirà i battenti e se lo scorderà cantando, il suo bel negro, l’italiana.
Un brandello di nuvola velò la luna e gli occhi cangianti di Javier Almeida. Un sudore copioso lucidava la sua pelle di velluto, un respiro ansimante, quasi asmatico, gli sollevava il petto. Era stanco, ma non si arrendeva. Solo dopo che chi aveva tolto l’anima alla piccola Valentine fosse crollato a terra morto si sarebbe fermato: doveva andare così, era destino, anche se il vecchio Concho aveva in tutti i modi tentato di fermarlo. Non ci sarebbe stato scampo, per chi aveva tradito la sua amicizia e ucciso i sogni d’una bambina di undici anni, costasse quel che costasse: anche mille anni ancora di quel supplizio.
L’affondo del Marchese lo colse di sorpresa, pochi secondi prima dell’eclissi. Ansimò, sputò sangue, come tanti anni prima, sentì il dolore della spada che gli penetrava nel petto con tutta la sensibilità acuita della sua strana natura, né uomo né animale, né angelo né demonio. Stramazzò a terra e De Conteneau si chinò su di lui, gli strappò via dal corpo la spada grondante sangue, urlando al cielo il suo trionfo. Ma urlò di terrore, quando il buio inghiottì la luna, e tacque per sempre, quando i canini acuminati della Bestia gli si serrarono, implacabili, sulla gola scoperta.
Capitolo ventiduesimo
Tutta la
città ne aveva parlato. Un lupo, un cane randagio... Che cosa era costato la
vita al Marchese De Conteneau? Forse un puma, anche se gli indiani e i vecchi
cacciatori sostenevano che il puma è vigliacco, davanti all’uomo scappa. Al
Campo de los Palmitos, dove il cadavere, mangiato dai cani e con la gola
squarciata, era stato ritrovato, capitava che ne avvistassero qualcuno, di
tanto in tanto, fantasmi gialli con gli occhi d’ambra che si muovevano circospetti
nel crepuscolo, pronti a nascondersi al minimo stormire delle foglie, creature
solitarie e diffidenti che nell’uomo conoscevano il loro nemico, un nemico
dinanzi al quale fuggire senza cercare
di difendersi.
Una
settimana, un mese. Lascia una madre anziana e malata, una sorella senza
marito...Come faranno, poverette? Come faranno, con la piantagione da mandare
avanti e senza più un uomo in casa? E la fidanzata? Si sarebbero dovuti sposare
di lì a qualche settimana, non fosse capitato quel che era capitato. Invece,
adesso, il padre doveva affannarsi a cercarle un altro partito, se non voleva
che ammuffisse in casa, e non sarebbe stato facile, ricca era ricca, ma anche
brutta, grassa come una manza e con tutte quelle pustole. Quentin De Conteneau
era morto, e nessuno aveva domandato o
preteso spiegazioni su come fosse andata, neanche a proposito della spada
d’acciaio col segno dell’Eclissi inciso sul guardamano che non gli apparteneva
ed era stata trovata accanto al suo corpo.
L’avevano
lavato, accomodato alla meglio, rivestito con il suo abito da sera, prima di
chiuderlo dentro la bara. Era stato seppellito a St. Louis nella tomba di
famiglia, dopo la cerimonia che ci si aspetta per uno del suo rango, la
carrozza con i cavalli neri, il Vescovo a officiare il rito funebre, le parenti
in gramaglie e quella fidanzata che a stento lo conosceva a faticare per
spremere davanti a un pubblico pronto
al giudizio spietato quelle lacrime di
circostanza che stentavano a venir fuori dagli occhi.
Una settimana,
un mese, un anno. La vita continua, si dice così. Altre gioie, altri dolori,
altri scandali, presto avrebbero cacciato nell’angolo delle cose andate la
storia raccapricciante del Marchese De Conteneau, ammazzato da un puma la notte
in cui la luna si era nascosta, brutto segno, dicevano le fattucchiere di Place
Congo, mentre cercava di difendersi impugnando una spada che non era la sua. O
di Javier Almeida, la Pantera, a cui con ogni probabilità quella spada
apparteneva, l’uomo più bello della città, spadaccino e stregone, dileguato
come se l’avesse inghiottito il niente un paio di giorni dopo il funerale.
Qualcuno l’aveva visto seguire il feretro da lontano, stretto nel suo mantello
nero, i capelli come serpenti che gli ruscellavano giù per la schiena, gli
occhi dorati e scintillanti come monete nuove d’oro zecchino, gli stessi occhi
del puma che aveva tagliato la gola al povero Marchese...I negri di casa De
Conteneau dovevano aver sentito i
brividi e fatto gli scongiuri di nascosto, incrociando quello sguardo. O forse
no, era solo il maestro di scherma del Marchese, s’era sentito in dovere di
partecipare alle sue esequie, come chiunque lo avesse conosciuto, bianchi e
neri, liberi e servi, aveva fatto
semplicemente il suo dovere di cristiano, adempiuto ad un’opera di
misericordia...Ed era sparito. Fuggito con una donna, si era detto. Con una
bianca. Non sarebbe andato lontano.
Con la
fine della Quaresima, il Teatro dell’Opera aveva riaperto i suoi battenti e
Masina Zanetta era tornata ad essere Luna Valmarin la cantante, creatura di
magia, Zerlina, Astrifiammante Regina della Notte, Euridice. Aveva avuto gli
applausi il denaro e l’ammirazione,
tutto quello che dalla vita aveva sempre desiderato, fin da bambina. Anche da
quegli americani rozzi che avevano tanti soldi e non capivano un accidente di
musica, prima che il contratto scadesse, le acque si calmassero e, passato un
anno, potesse ritornare nel posto dal quale era venuta. Era sempre stava
vanitosa, e amava essere amata, com’è nella natura delle donne, checché ne
dicessero le monache della Pietà o i moralisti in cui aveva avuto la ventura di
imbattersi, assillanti come la pittima che, ai tempi della Serenissima
Repubblica, si attaccava alle costole dei debitori insolventi per ricordare senza requie a loro e agli altri colpe
che difficilmente sarebbero state perdonate.
Sei corrotta, Masina. Sei marcia. Chiunque calchi il palcoscenico è
destinato alla dannazione. Il paradiso in terra ti garantisce l’inferno
nell’aldilà...
Per fortuna, la catenella d’oro con appeso
il ciondolo di smalto gliel’avevano restituita. E, per non separarsene mai più,
lei se l’era fatta saldare al collo in modo che non potesse essere tolta.