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Autore: zippo    05/02/2008    5 recensioni
Rebecca era solo una ragazza del liceo quando, ricevendo la visita di un bellissimo ragazzo, scopre di essere un angelo. Le sue radici, la sua storia e la sua stessa anima appartengono ad un altro mondo, ben diverso dal nostro, dove magia e creature mitologiche vivono indisturbate in armonia con i loro abitanti. Rebecca, sotto la protezione del suo maestro, dovrà essere iniziata all’arte della guerra e alla pratica della magia dato che in quello stesso pianeta così perfetto e tranquillo un altro angelo minaccia la sua distruzione. Una storia interessante basata sull’amore, sul coraggio e sul Bene.
Il primo capito della saga: IL BENE
"L'eroe non è colui che non cade mai ma colui che una volta caduto trova il coraggio di rialzarsi" Jim Morrison
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap. 4 - UN PASSO SILENZIOSO -

E tutto divenne sfuocato, indefinito…come se attorno a lei una fitta nebbiolina lievitasse nell’aria.

“Loro sanno che io sono…?”

“No, e non devono saperlo”

Digerire quello che aveva appena scoperto sulla sua vita era troppo difficile per far finta di niente, Bec era pallida e bianca come un fantasma e teneva le mani chiuse a pugno.

“Ma da dove vengo?” chiese, supplicandolo.

“Vieni dal mio pianeta”

“Non capisco!”

Rebecca si tappò le orecchie come per cercare di alleviare un fastidiosissimo mal di testa. Strizzò gli occhi e fece una smorfia di dolore.

“Ti spiegherò tutto, ora devi solo fidarti di me”

“Dove mi porti?”

“In un luogo più sicuro”

Gabriel le prese forte la mano e con un gesto protettivo camminò con lei non lasciandola, tenendola stretta, passando un braccio attorno ai suoi fianchi. Uscirono dagli spogliatoi e attraversarono la mensa vuota, probabilmente la pausa pranzo era terminata da un pezzo. Se ne andarono dalla porta di sicurezza e percorsero il vialetto della scuola. Gabriel si fermò davanti ad una macchina: una mini cooper rossa sfiammante con il tettuccio bianco. Rebecca avrebbe voluto fare i suoi più sinceri complimenti sul bellissimo gusto del ragazzo in fatto di macchine ma in quel momento non aveva proprio voglia di aprire la bocca, era come se le costasse fatica parlare.

Gabriel montò al posto del guidatore e le aprì la porta del passeggero. Lei salì e meccanicamente si allacciò la cintura, aspettando che lui partisse. Appena la macchina girò la prima curva, la scuola era già lontana.

“Non hai niente da chiedermi?” domandò Gabriel, lanciando un’occhiata veloce alla ragazza, per poi ritornare a guardare la strada.

“C’è molto che avrei da chiedere” rispose lei, come un automa.

Lui non rispose, tanto sapeva che lei avrebbe comunque parlato.

“Come mai, se sono nata a Chenzo sono stata portata sulla Terra? Con quale scopo?”

“Al momento della tua nascita si conoscevano i tuoi poteri perché dimostravi il comune simbolo
che lega tutti gli angeli”

“Io non ho simboli!”

“Ah no?” chiese lui, guardandola di sottecchi.

“Beh, ora che ci penso ho qualcosa di strano. Sul braccio sinistro ho una serie di nei che formano
una croce…ma non vuol dire niente!”

“Ecco. Visto? Cosa ti avevo detto?”

“Sarebbe quello il simbolo?” sbottò, perplessa.

“Sì, un simbolo sacro che al tempo stesso non da nell’occhio”

“E perché sono stata allontanata?”

“Perché qualcuno ha sparso la voce che era nato un angelo e Mortimer ti avrebbe trovata nel giro di pochi giorni. Dovevi essere portata via subito, e la Terra era l’unico posto che a noi è sembrato più giusto per far crescere una come te”

“Tu eri già nato?”

“Sì”

“E poi?”

“Sono prematuramente diventato un angelo”

“Sei immortale?”

“Tutti gli angeli lo sono, sia i bianchi  che non. Io però non lo sono più”

“Ma allora come si fa ad ammazzare questo Mortimer?!”

“Un angelo è immune al tempo ma non ad una spada”

“Sono stata adottata”

“Già”

“E come sono, voglio dire, i miei genitori…quelli veri, intendo”

“Sono morti” tagliò corto, Gabriel.

Rebecca si pentì di aver fatto quella domanda, era ancora sconvolta per il fatto di essere stata adottata, non era pronta a scoprire anche che i suoi genitori biologici erano morti.

“E come sono morti?”

“Questo non centra niente”

“Che stronzata” sbottò.

“Fammi domande intelligenti, per l’altro c’è tempo”

Bec lanciò uno sguardo inceneritore al ragazzo che prontamente evitò di incontrare i suoi occhi.

“Fammi capire: finchè ero piccola e indifesa sono stata portata al sicuro e ora, che sono grande e vaccinata, devo tornare per salvarvi tutti? Ma chi diavolo sono io per far questo? Non puoi dirmi queste cose! Non ho mai combattuto contro nessuno!”

“Imparerai, la battaglia ce l’hai nel sangue”

“Ma aspetta! C’è un problema più grande! Se devo venire via come faremo a far sparire le mie tracce? I miei genitori non mi lasceranno andare!”

“Infatti dobbiamo cancellarli la memoria prima di partire”

“Oh” l’unico suono emesso dalla sua voce fece capire molte cose: tristezza, rimpianti, sorpresa, sconfitta, orrore…

“Sarà come se non fossi mai esistita”

L’auto viaggiava dolcemente lungo le dritte strade di Aquila, come uno sciatore percorre una discesa: leggera e silenziosa. Bec non voleva dire addio alla sua famiglia ma doveva. Doveva andare su un altro mondo perché aveva appena scoperto di non essere umana. Doveva combattere e apprendere la magia perché non poteva più fingere la sua identità…ora che l’aveva scoperta. Aveva un milione di motivi validi per andarsene e solo uno per restare: i suoi genitori le sarebbero mancati, anche se era stata adottata loro avevano saputo darle tutto l’amore e tutta la felicità che un qualsiasi genitore biologico avrebbe dato al suo figlio biologico.

“Vi occuperete voi della cancellazione della memoria?” domandò lei, tornando distaccata, come se la questione non la toccasse nemmeno.

“Sì, ci arrangeremo noi. Sarà un lavoro lungo, ci occorrerà un intero giorno, le persone che devono dimenticare sono tutte quelle che hanno avuto rapporti sia con noi che con te. In quel giorno tu, intanto, potresti andare a salutare la tua famiglia”

“Non credo. Credo che mi comporterò come ho sempre fatto. Tanto, una volta che avrò tagliato la corda non si ricorderanno neanche chi era Rebecca Burton” sospirando appoggiò la testa nel finestrino e un deserto rosso era l’unico paesaggio che li accompagnava in quella carreggiata. Poi, come un fulmine a ciel sereno, si drizzò nel sedile e facendo un verso stupito chiese a voce alta, quasi isterica:


“Come diavolo ti è saltato in testa di mettermi un pugnale dentro lo zaino?! Se i miei genitori l’avessero trovato?!”

“Cos…? Ah! Quello! Sì beh, ti piace?”

Gabriel aveva iniziato a passare la mano libera dal volante sui suoi capelli e a mo di scuse tentò di far esaltare la bellezza raffinata di quell’arma.

“Non mi importa sapere che cavolo di pugnale è! Perché l’hai dato a me? A che mi serve?”

“Beh, ho pensato che regalarti un’arma ti avesse fatta contenta. Non lo sei?”

“Sì, come no…ho sempre sognato un’arma per il mio compleanno”

“Quella è speciale. Era di tuo padre, era giusto dartela”

“Anche mio padre era un angelo?”

La curiosità stava iniziando a invaderle il corpo e voleva avere subito delle risposte. Ma Gabriel, come sempre, la guardò malissimo e rimase zitto.

“Eh dai! Dimmi almeno se era o no un angelo come me”

Dopo vari tentennamenti Gabriel non resistette alla faccia supplichevole della graziosa ragazza che, come una gatta, lo stava implorando con quegli occhi dolci e caldi.

“Sì. Ma ora basta!” tagliò corto.

Era meglio, altrimenti avrebbe continuato a parlare sotto l’effetto di quello sguardo ammaliatore.

Gabriel notò che Rebecca era incredibilmente bella. Non aveva mai fatto caso al suo aspetto fisico “in quel senso” ma ora che la guardava meglio doveva ammettere che era proprio carina.

Non aveva una di quelle bellezze provocanti o appariscenti, possedeva  un qualcosa che le altre ragazze non avevano, diversa dai soliti canoni di “bella e perfetta”. E lei di difetti ne aveva, eppure erano così carini e teneri che sembravano incarnare una bellezza tutta loro in quel corpo così grazioso ed elegante. Certamente, le altre non potevano competerle.

Accortosi che stava fissando un po’ troppo il corpo della ragazza, Gabriel tornò con i piedi per terra e riprese la sua guida, chiudendo e bloccando altri pensieri.

La macchina si fermò davanti ad una grande casa, bellissima. I muri erano bianchi e aveva delle enormi finestre con dei balconi azzurri, un enorme portico con una sedia a dondolo occupava l’intera facciata dell’abitazione. Sembrava una di quelle case country adatta solamente alle ricche famiglie benestanti. L’abitazione, infatti, era completamente circondata dal verde e un vialetto in erba battuta attraversava il giardino, assomigliava tantissimo ad una locanda o ad un posto di villeggiatura per sole coppiette di innamorati.

Quando Rebecca vide che la macchina, ormai, si era arrestata e che Gabriel era sceso, aprì la portiera e una leggera brezza calda e profumata la invase.

“Dove siamo?” chiese, estasiata da quell’aroma afrodisiaco che sapeva di fiori ed erba appena tagliata.

Il ragazzo si coprì con una mano la fronte, in modo da guardare la casa senza che i raggi del sole accecassero i suoi occhi. Un sorriso soddisfatto s’impadronì del suo bellissimo volto.

“Questa angelo, è casa mia”



***



Dopo l’iniziale sorpresa, Gabriel, fece strada a Rebecca verso l’ingresso. Non doveva esserci nessuno in casa perché il silenzio era disarmante e la quiete era assoluta. Anche all’interno i muri erano chiari, con delle rifiniture e delle greche in alto. Il colore che predominava era il bianco e il verde acqua. Davanti all’ingresso, delle scale in legno scuro portavano a quello che doveva essere per certo il secondo piano, mentre di fronte a loro si poteva scorgere una cucina in fondo al piano e un salotto alla sinistra. C’erano poi altre due porte che però Rebecca non ebbe la sfacciataggine di domandare dove portassero. Le piaceva quella casa, sembrava uno scenario che utilizzavano per i film western, con sfarzose ed eleganti case arredate in stile inglese.

“Non vivi con i tuoi genitori, vero?”

“No. Vivo con gli altri: Denali, Kevin, Delia e Rosalie. Sono, diciamo, la mia famiglia, e dato che Denali è il più grande fa lui da responsabile e da padre a tutti noi”

“Ah, ho capito”

Gabriel la fece accomodare in un divano pomposo e gonfio, con un’infinità di cuscini ai lati e il tutto molto azzeccato nei colori e nei minimi particolari. Nel sedersi Rebecca si sentì sprofondare dalla morbidezza del divano.

“Uhm…cosa ci facciamo qui?” urlò, dato che Gabriel era sparito in cucina.

“Aspettiamo gli altri” gridò lui, in risposta.

“E fra quanto arrivano?”

“Tra pochi minuti dovrebbero essere qua”

Gabriel tornò in salotto con un vassoio di thè e biscotti al cioccolato. Posò il tutto su un tavolino in legno al centro dei divani e si accasciò in una poltrona, gemella anch’essa della coppia di sofà.

“Grazie” disse Bec, allungando un braccio verso una tazza di fumante thè caldo, prendendo anche un biscotto che aveva tutta l’aria di essere buonissimo.


“In che modo possono aiutarci?”

Gabriel, che non aveva toccato cibo, era rimasto a guardarla e rispose in maniera calma e pacata anche se l’ansia lo stava attanagliando.

“Loro ritorneranno con noi a Chenzo. Mi aiuteranno a cancellare la memoria a tutte le persone, appena arriveranno inizieremo subito. Prima finiamo meglio è”

N’anche il tempo di ribattere che la porta d’entrata si aprì, provocando un rumore secco di chiavi che giravano dentro la serratura. Bec si voltò per vedere le figure bellissime dei quattro ragazzi che erano appena arrivati, probabilmente, da scuola. Si aspettava un’accoglienza sgarbata e distaccata da tutti e quattro ma appena la videro seduta accanto a Gabriel fecero un enorme sorriso di benvenuto, solo Rosalie era la più triste ma anche lei, almeno, si sforzò di fare un cenno del capo.

“Oh, era ora! Finalmente!” Kevin, l’ultimo ad essere entrato dalla porta era stato il primo a saltarle addosso. Le tese la mano e la gioia gli sprizzava da tutti i pori.

“Smettila Kevin, non vedi che la spaventi?!” quello che aveva appena parlato doveva essere Denali, nascosto in angolo del sottoscala, e subito si fece riconoscere per la sua serietà, il suo volto era marchiato da una vita più lunga e sofferta rispetto agli altri e sembrava molto più grande di quanto non lo fosse. Certamente l’esperienza gli aveva anche conferito un tono autoritario che solo i capi, i leader, potevano avere.

Le due ragazze non le avevano dato un’accoglienza calda come Kevin ma erano comunque contente e un po’ agitate.

Rebecca non riusciva a spiegarsi Rosalie. Appariva contenta ma lei sapeva che quella era solo una maschera usata per non svelare i veri sentimenti che provava. Scacciò quei pensieri e ritornò a prestare attenzione a Kevin che era ancora in piedi davanti a lei e sembrava la stesse studiando, come se si aspettasse che un paio di ali bianche spuntassero dalla sua schiena.

Bec salutò timidamente tutti, passando lo sguardo uno ad uno e rivolgendo sorrisi sinceramente grati.

“Ora che ci siamo tutti direi di iniziare” disse Gabriel, interrompendo i faccia a faccia tra Bec e i quattro ragazzi.

“Ok. Gabriel, tu che sai intercettarli dovrai darci le loro coordinate precise, dopodichè noi interveniremo sulla loro memoria”

Tutti fecero un cenno di assenso a Denali.

“Ehi! Aspettate!” Rebecca si era alzata in piedi, presa in contro piede. Sperava che non se ne fossero dimenticati.

“Cosa c’è?” domandò Gabriel, allarmato.

“I miei genitori. Avevi detto che potevo salutarli prima di partire” disse, rivolta verso il ragazzo biondo che ritornò calmo dopo l’agitazione improvvisa.

“Infatti”

“Non ti seguo. Spiegati”

“Loro sono già qua”



***



Denali, Kevin, Delia e Rosalie stavano aspettando Gabriel fuori in giardino, attorno alla mini cooper rossa sgargiante.

In casa invece Gabriel stava accompagnando Rebecca dai suoi genitori. Le aveva spiegato che era andato a prenderli dopo che lei era partita per scuola, che gli aveva portati in casa sua e che adesso era arrivato il momento per lei di dirli addio. Aveva anche aggiunto che era stato obbligato a portarli lì, perché la cancellazione della loro memoria avrebbe richiesto più tempo ed energia rispetto alle altre persone, i loro ricordi con Bec erano certamente maggiori e più intensi.

Rebecca voleva chiedergli come aveva fatto a rapirli senza scioccarli più di tanto ma se l’era risparmiata, non era ancora pronta per scoprire quali tipi di magie Gabriel era in grado di fare o in quali era immischiato. Si aspettava comunque di non trovare i suoi genitori in perfetta coscienza di quello che era accaduto.

“Sono in quella stanza. Io devo andare, ti vengo a prendere dopo”

E se n’era andato. Così. Senza aggiungere altro. Lasciandola in casa sua senza la minima protezione.

Lo stanzino dov’erano racchiusi i suoi genitori era al piano superiore, all’interno della sua camera da letto, le aveva detto Gabriel. Quando arrivò a toccare con il palmo la maniglia della porta il cuore iniziò a battere fortissimo nel suo petto. Con un movimento deciso fece scattare la serratura e aprì la porta accompagnandola, finchè non ebbe l’intera visuale della stanza davanti ai suoi occhi. I balconi erano chiusi, il buio oscurava la camera ma tutte le sagome erano ben distinte grazie ai raggi del sole che riuscivano a filtrare dal legno dei balconi nonostante tutto fosse chiuso. Con il cuore che rischiava di scoppiarle in gola, Rebecca li chiamò.

“Mamma, papà, dove siete?”

Entrò completamente nella stanza e accese la luce grazie all’interruttore che si trovava subito dopo i cardini della porta. La scena che si presentò davanti a lei le provocò un forte senso di nausea.

Non sarebbe riuscita a dirli addio.

Marta e Jonathan dormivano beatamente nel grande letto matrimoniale di Gabriel, erano abbracciati anche nel sonno e il loro volto era rilassato, come se niente in quel momento potesse turbarli. Rebecca capì che i suoi genitori non dovevano essersi ancora accorti di dov’erano stati portati, pensavano ancora di essere a casa loro, nel loro letto, nella loro camera. Vederli dormire in quel modo, così ignari, così beati…fu una dura prova per il suo autocontrollo.

Perché ora lei doveva venire lì e distruggere tutto? Rovinare la sua famiglia, cancellare la sua vita, far dimenticare a tutti la sua esistenza?

Un enorme vuoto pressava dentro di lei e la voglia di scappare e mettersi a piangere era tanta. Fece un passo verso il letto e scosse sua madre che aveva il volto interamente coperto dai suoi bei riccioli biondi.

Marta aprì a fatica gli occhi, esaminò sua figlia e quando osservò davanti a lei un quadro appeso al muro che non aveva mai visto in camera sua capì di non essere nel suo letto. Quel muro e quel quadro erano sconosciuti. Alzandosi di colpo fece svegliare anche il marito che, anche se non subito, si accorse che c’era qualcosa di strano che non andava.

“Bec! Ma dove siamo?!” chiese Marta, spaventata. Prima che anche suo padre iniziasse a parlare la ragazza disse le prime cose che le vennero in mente.

“Siamo a casa di un mio amico. Quando sono tornata da scuola vi ho trovato svenuti in cucina, era saltato il gas e vi ho portati qui”

Anche se la risposta era del tutto improvvisata fu piuttosto convincente, dato che si calmarono e non s’insospettirono.

“E la casa? Non è saltato in aria tutto, vero?” sua madre, la solita che si preoccupava dell’integrità fisica della sua amata casa, anzi, villa.

“Ora il gas è chiuso, giusto?” intervenne Jonathan.

“Sì, sì, ho fatto tutto, solo…dovrete restare qui per un po’ perché stanno ancora controllando, insomma, non vogliono che corriamo rischi se dovessimo tornare”

I due si guardarono in faccia e annuirono contemporaneamente.

Il più era fatto.

“Bene” annunciò serafica Rebecca, contenta che i suoi se la fossero bevuta. “Ora se non vi dispiace vorrei salutarvi prima di andare” la frase avrebbe dovuto concludersi con un: “andarmene per sempre” ma non riuscì a pronunciare quelle parole. Era meglio pensare al loro distacco non come ad un addio ma come ad un arrivederci.

“Bec, tesoro, sei sicura di non aver preso una botta in testa?” chiese Marta, mentre la ragazza si faceva spazio in mezzo a loro nel bel letto matrimoniale.

Rebecca non era mai stata una ragazza che amava farsi coccolare e quindi risultò strano, per loro, quello slancio improvviso di affetto.

“Tutto bene, mamma”

Rebecca si sistemò sotto alle coperte, con una mano prendeva quella del padre e con l’altra quella della madre. Le tenne strette, finchè suo padre non spense la luce e lei potè dar sfogo all’agonia che portava dentro.

“Appena torniamo a casa, Bec, dobbiamo parlare”

Lei non vide la faccia della madre ma giurò che stesse guardando suo padre e delle lacrime iniziarono a bagnarle gli occhi.

Quel momento non sarebbe mai arrivato, i suoi genitori non avrebbero mai potuto confessarle quella sera, appena arrivati a casa, che non era figlia loro. Entro il pomeriggio avrebbero addirittura dimenticato di avere una figlia. Bec si godette quei pochi attimi che le restavano da passare con i suoi genitori, stringendoseli a sé come quando era bambina e aveva paura dei temporali. Era da moltissimi anni che non dormiva con loro, da quando aveva smesso di avere paura della notte. Ma ora, un’altra paura l’aveva portata ad unirsi con loro nel letto, una paura più spietata e più crudele.

Una paura più difficile da superare.



***



Facendo attenzione che tutti e due dormissero Rebecca si alzò pian piano dal letto e camminando in punta di piedi uscì dalla stanza, il volto ancora rigato dalle calde lacrime. Andò giù in salotto, gli altri non erano ancora arrivati. Approfittando della loro assenza marciò verso la cucina e aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa di commestibile, lo stomaco le sembrava vuoto e aveva bisogno di riempirlo con qualcosa. A Gabriel non sarebbe dispiaciuta la sua inflazione nel suo frigorifero.

Prese, con le mani che ancora le tremavano, una tavoletta di cioccolata bianca e quando chiuse l’anta del frigorifero aveva già cacciato un urlo trovandosi davanti Gabriel che la fissava beato con uno strano sorrisino stampato in faccia.

“Ma sei scemo?!” esclamò, cercando di riportare il battito del cuore al suo ritmo naturale.

“Semmai sei tu la scema che fruga nel mio frigo” disse, con un sorriso furbetto e vispo.

“Come mai già di ritorno?” gli domandò con gli occhi ridotti a due fessure.

“Abbiamo fatto”

“Quindi partiamo?”

“Esatto. Hai salutato i tuoi genitori?”

“Si” fu l’unica, vera, risposta.

“Allora, io dovrei andare da loro…sai, per la memoria, devo modificarla e…ehm…”

“Sì, sì, ok” sbottò e la sua irritazione non passò inosservata al ragazzo.

“Mi dispiace” disse, e sembrava profondamente dispiaciuto.


Forse anche lui, come lei, aveva dovuto passare un momento simile, ma la sua acidità non diminuì.

“Per cosa ti dispiace? In fondo, non erano neanche i miei veri genitori”

Gabriel socchiuse gli occhi, sorvolando su quella battuta poco carina che Rebecca aveva appena fatto.

Fece dietro-front e si avviò al piano superiore.

Lei rimase in cucina, in ascolto, all’erta, cercando di captare un qualsiasi segnale che le facesse capire cosa stesse succedendo nella camera di Gabriel. Forse i suoi genitori erano svegli e vedendo entrare un estraneo avrebbero preso paura? E se Gabriel fosse entrato mostrando le sue ali, i suoi genitori non avrebbero cercato di scappare davanti a tanta assurdità? Avrebbero fatto resistenza?

Nello specifico, com’è che funzionava la cancellazione della memoria? Bec non poteva saperlo dato che nessuno l’aveva informata sull’argomento. Sarebbe stato doloroso? Avrebbero sofferto lentamente oppure era una cosa veloce?

Dal silenzio che albeggiava in casa i suoi genitori dovevano ancora essere addormentati e se tutto andava bene, non si sarebbero n’anche accorti del bellissimo ragazzo biondo che, di soppiatto, avrebbe strappato loro ogni bel ricordo della figlia adottata.

Dei passi la riscossero e le fecero capire che Gabriel aveva finito e che stava tornando dopo aver concluso la sua ultima missione.

Iniziò a piangere. Ancora. E quando tentò di smettere due braccia possenti l’abbracciarono da dietro e il freno che la tratteneva dalla disperazione si spezzò e il suo pianto silenzioso cominciò a diventare un gemito soffocato.

Solamente quando ogni lacrima fu esaurita e ogni singhiozzo finito Rebecca si calmò, sempre sorretta da Gabriel che l’aveva tenuta stretta non aprendo bocca neppure un momento.

Voleva aspettare a parlarle, aspettare che lei si riprendesse dalla consapevolezza di una perdita. La sua prima perdita. Quante ce ne sarebbero state a Chenzo? Niente era sicuro. Nessuno poteva essere sicuro di sopravvivere.

Chi ha paura del domani?

Solo chi non sa se ce l’avrà.

Gabriel prese in braccio Rebecca e la posò delicatamente sul divano pomposo, in modo da farla star comoda, aspettando che anche gli altri arrivassero.

Ora che avevano tolto ogni ricordo a tutte quelle persone erano veramente pronti per partire. Prima però avrebbero dovuto spiegarle come funzionava il passaggio da una dimensione all’altra. Solo i nati a Chenzo potevano, da un mondo all’altro, tornarvici. Lei non era un’eccezione e avrebbe dovuto imparare le regole del gioco. Doveva capire una volta per tutte a quale mondo apparteneva.

La Terra diverrà allora un bel ricordo lontano, un posto che non verrà più preso in considerazione.
Gabriel toccò con le sue mani fredde la guancia arrossata di Rebecca e lei, istintivamente, gliela schiaffeggiò. Il ragazzo si ritrasse e scocciato dal suo comportamento si alzò.

“Dovrebbero essere arrivati. Asciugati gli occhi” le disse con durezza.

La ragazza si passò entrambe le mani sulla faccia, cercando di non far notare ai quattro ragazzi che stavano arrivando, il suo stato d’animo catatonico e un po’ pietoso. Si mise in piedi e approfittò di uno specchio attaccato al muro per mettere apposto anche i capelli che erano tutti spettinati con qualche ciuffo ribelle che andava in su.

Appena ebbe finito di aggiustarsi la porta d’entrata si aprì, sbattendo contro il muro e facendo vibrare alcuni quadri lungo il muro. Entrò per primo Denali che si sistemò il lungo cappotto (inadatto alla temperatura esterna) dandosi una spazzolata con le mani. Gli altri entrarono successivamente, arrossati e molto agitati.

“Dobbiamo andare, presto!” l’esclamazione di Denali lasciò interdetta Rebecca, che non capiva tanta fretta come gli altri.

“Non possiamo andarcene senza averle spiegato come superare il passaggio” lo corresse Gabriel.

Denali indugiò su di lei, squadrandola da capo a piedi. Il suo battito accellerò.

“Bene. Ma lo faremo mentre siamo in macchina” disse Denali, con lo sguardo ancora posato sulla ragazza. “Ci hanno trovati”

Bec lesse il terrore negli occhi freddi di Gabriel e l’irrequietezza negli altri. Capì a cosa si stavano riferendo: i Sentori dovevano averla captata. È così che funzionava: loro imparano a distinguere il tuo odore e quando ti trovano…beh, è meglio darsela a gambe.

In un modo o nell’altro Rebecca si ritrovò con gli altri nel giardino della casa, tutti stavano correndo verso la macchina e la paura era impressa nei loro volti come un marchio indelebile. Le parve che tutto stesse andando a rallentatore, come nei film: lei che raggiungeva la macchina e il vento le muoveva i capelli coprendole la visuale, Gabriel che da dietro le teneva un gomito e la spingeva in macchina. L’auto che, lentamente, inevitabilmente, iniziava a partire.



***



Un passo silenzioso.

Ecco cos’avevano fatto.

Mentre la macchina andava lungo una strada sconosciuta Rebecca stava pensando alla loro fuga.

L’intero mondo non si sarebbe neppure accorto della loro scomparsa: lenti e attenti se ne stavano andando senza lasciare tracce, ricordi, immagini…

Un passo silenzioso che gli avrebbe portati via, per sempre. Un passo che nessuno si sarebbe accorto di aver sentito, visto, udito…stavano diventando invisibili al resto del pianeta. Tra pochi minuti Rebecca Burton, per la Terra, non sarebbe mai esistita.

Ripensò con ansia al campeggio, ai Sentori e alla paura che aveva provato nell’essere attaccata da loro. Le amiche che aveva dovuto lasciare, anche Judi. Nonostante si conoscessero appena Bec ne era convinta: sarebbero potute diventare ottime amiche. Ma purtroppo quella era un’utopia.

Una curva presa male fece sbattere Rebecca contro Gabriel, che lo schiacciò contro il finestrino.

“Scusa”

“Non fa niente”

“Allora…” disse Denali, che alla guida della macchina ora guardava i due ragazzi che stavano dietro attraverso lo specchietto. “Gabriel, ti decidi a dirle come funziona il passaggio o devo far tutto io?”

“Ora lo faccio” disse l’angelo, spazientendosi.

“Aspetta!”

I conti non tornavano. Sbaglio o in macchina eravamo in quattro?

“Dove sono Delia e Rosalie?” chiese la ragazza.

“Loro vengono con la macchina di Delia. Non ci stavano anche loro, dopotutto è pur sempre una mini cooper” un sorriso amichevole le arrivò da Kevin, che stava seduto davanti vicino a Denali.

Anche lei sorrise di rimando.

Si voltò verso Gabriel, aspettando che il ragazzo si decidesse a spiegarle come cavolo doveva fare per attraversare il confine umano. Il ragazzo alzò le spalle.

“È semplice, devi appoggiare la tua mano destra su una pietra”

“Una pietra?” Bec strabuzzò gli occhi.

“È una pietra molto particolare, riconosce solamente i provenienti di Chenzo e nessun altro. Perciò si attiva esclusivamente con noi”

“Perfetto”

Fu un gesto automatico, Rebecca iniziò a sfregolarsi le mani e la consapevolezza che si stavano avvicinando al grande salto ebbe il sopravvento.

Gabriel notò la sua inquietudine e con tenerezza le prese le mani tra le sue massaggiandole in movimenti fluidi e leggeri, tanto che lei dovette sbattere le palpebre per evitare di dar vita al senso di piacere e benessere che si stava impossessando di lei. Scansò immediatamente la mano da quelle morbide del ragazzo, maledicendosi e imprecando.
La macchina si fermò dopo pochi minuti. Scesero tutti e quattro e Rebecca dovette esaminare più volte l’enorme colosso marmoreo che aveva davanti agli occhi prima di capire che aveva la forma di una mano aperta con il palmo rivolto verso l’alto. Sembrava una montagna di rocce di un rosso scuro ma la sua figura era proprio quella di una mano, la dimostrazione che ciò che Gabriel aveva detto era vero e che come in un libro la soluzione di quell’enigma era racchiusa nella sua forma estetica.

Pian piano si avvicinarono alla struttura di sassi e nel basso, quello che doveva essere il polso della mano, c’era una caverna, una rientranza che sicuramente portava nell’interno della montagna.

Miracoloso, pensò Rebecca quando entrarono.

Le pareti erano levigate, non come all’esterno dove le rocce apparivano tozze e irregolari. Era buio pesto ma Denali reggeva una pila e, davanti che conduceva la fila, faceva strada nelle tenebre di quella grotta.

Appena lo stretto corridoio finì si aprì una grandissima stanza circolare con una colonna alta circa un metro nel centro. La ragazza, presa dalla curiosità, si avvicinò alla colonna bianca e nel mezzo stava disegnata una sagoma che, rientrando nel marmo, formava una mano. Non era una mano qualunque. Gabriel le aveva detto che per accedere al passaggio bisognava appoggiare la mano destra sulla roccia ma era come se mano destra e mano sinistra si sovrapponessero a formare un’unica mano con le dita rivolte verso una parte e verso l’altra, come a simboleggiare la presenza di entrambe e non solo di una: la destra.

“Gabriel” lo chiamò.

N’anche il tempo di assicurarsi che il ragazzo fosse arrivato che lui era già al suo fianco.

“Come mai sono raffigurate entrambe le mani? Non avevi detto bisognava metterci solo la destra? Perché devo appoggiare anche la sinistra?”

Gabriel rimase a fissare in silenzio la figura nella roccia e il suo volto divenne una smorfia di orrore, impallidendo a vista d’occhio. Quando parlò, la sua voce era incrinata e non del tutto sicura.

“Rebecca, qui c’è raffigurata solo la mano destra”

“Prego?”

“N-Non c’è la sinistra, non la vedo. Per accedere è la mano destra che devi appoggiare, la sinistra non centra niente”

“Ma io le vedo tutte e due, Gabriel”

“Non può essere, non…”

“Cosa? Cosa c’è?”

“Ecco, vedi…”

Denali e Kevin li raggiunsero insieme a Delia e  Rosalie.

“Noi andiamo”

Denali mise la sua mano destra nella sagoma sopra la roccia e con uno sguardo apprensivo sparì. Letteralmente sparì, perché poco prima si trovava al centro insieme agli altri e dopo…niente! Volatilizzato, scomparso, non c’era più.

Accadde tutto in pochi secondi.

Anche Rosalie, Delia e Kevin (uno alla volta) passarono davanti al blocco di marmo e scomparvero.

Erano rimasti solamente Gabriel e Rebecca. Lei era terrorizzata mentre Gabriel aveva ancora quello sguardo assorto e pensieroso.

“Devo andare prima io?” gli domandò, cercando di rimanere il più calma possibile.

“Sì, sarebbe meglio”

“Ma quale mano devo mettere?”

“Prova a mettere la sinistra”

Rebecca alzò il braccio e con l’arto che tremava appoggiò la mano sinistra sopra la colonna bianca facendola aderire completamente e facendo prendere alla sagoma la forma della sua mano. Un lampo di luce rossa invase la stanza e anche lei sparì. La sensazione era quella di essere risucchiati, come se il tuo corpo si stesse restringendo, schiacciato da due pareti.

L’ultima cosa che vide fu lo sguardo di Gabriel e non le piacque per niente come la stava guardando. Sembrava che avesse paura di lei e i suoi occhi erano sbarrati, vuoti, spaventati per qualcosa che aveva appena scoperto.



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