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Autore: Banana_Mecha    27/07/2013    4 recensioni
"La signora Kim siede vicino alla vetrina, nella sua caffetteria.
La porta è stata chiusa dall'interno con una spessa catena allucchettata; eppure non è neanche il tramonto.
Dentro le luci sono accese, e diffondono un caldo bagliore arancione, ma adesso che questo locale è vuoto… Prima che scatti il coprifuoco c'è ancora chi si azzarda a venire a trovarla. Sono molte meno di prima, certo, però vengono quasi ogni giorno.
Le passano ancora le lettere. Alcune addirittura portano del cibo.
Le si avvicinano e le sussurrano: «Yesung sta bene?»
Gli occhi della signora Kim si riempiono di lacrime. Non lo so, vorrebbe rispondere, mi manca mio figlio e non so niente di lui da mesi. Però non dice niente. Annuisce, e cerca di sorridere."
Settembre 2013. E' bastata una notte, e nessuno poteva sospettare che sarebbe accaduto così. Il Nord ha attaccato il Sud e la capitale è in ginocchio. La musica viene bandita dalla legge.
Gli artisti vengono costretti a rifugiarsi e a combattere contro i traumi di una guerra crudele e la paura di essere trovati. Non saranno soli però. Presto nel sottosuolo di Seoul nascerà la ribellione.
SJ, SNSD, B1A4, B.A.P.
Genere: Generale, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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WARNING! Ciao a tutti, la vostra Banana è tornata. Dopo un sacco di tempo. Lo so mi dispiace! Ma sono veramente impegnatissima con i preparativi per il Giappone e in fondo chi la legge questa storia.... ?! Il prossimo capitolo spero arrivi prima del 28 agosto (data della mia partenza). Per i 10 mesi seguenti aggiornerò il più possibile, ma sarò super impegnata a mangiare takoyaki e sul mio tablet è un po' scomodo scrivere... fatto sta che ho promesso a un amico di finirla entro giugno, quindi non mi abbandonate! Ci eravamo lasciati con tutti quanti che scendono nel sottosuolo di Seul per mettersi in salvo dal regime... vediamo cosa succede... e nel frattempo che ne è stato di Heechul? Muahahah, buona lettura chiquitas <3




“Io non mi innamorerò mai”.

Questa era la frase con cui si concludeva una pagina del suo primo e unico diario segreto.
La data recitava il 5 giugno di sette anni prima, esattamente il giorno del suo decimo compleanno.
In quella occasione aveva dato una festicciola in casa e la sua migliore amica aveva passato l’intero pomeriggio con un altro bambino, il suo “fidanzato”, ignorandola del tutto.
Bani ne era rimasta così indispettita che in quella pagina di diario ci era andata decisamente pesante, finché non le era uscita fuori quella frase.

«Attenta a non perdermi di vista».
Bani afferra un lembo della felpa di Jinyoung e lo segue in silenzio fra la folla che gremisce la sala d’aspetto principale della stazione di Oksu. I due si fanno strada a fatica scansando la gente seduta sul pavimento.
Non c’è molta confusione, solo un brusio di sottofondo, come se tutti stessero bisbigliando.
Bani si guarda intorno nervosamente. La stazione è quasi irriconoscibile… è buia e nonostante sia enorme è talmente affollata da sembrare rimpicciolita. Non può credere di aver lasciato il suo tiepido appartamento per venire ad abitare in un posto del genere. Posa gli occhi sui sacchetti della spazzatura neri attaccati alle vetrate con del nastro adesivo per oscurarle, e per sbaglio non inciampa sulla mano di qualcuno.
«Scusa, al buio non ti avevo vista», si volta bisbigliando, ritrovandosi a due centimetri da un volto perfetto.
«Bani!», esclama Jinyoung.
La ragazza si spiccia ad alzarsi in piedi, inchinarsi verso la ragazza che ha urtato e corre ad afferrare di nuovo la felpa di Jinyoung.
«Cerca di non distrarti, non ti voglio perdere, qui c’è tantissima gente e dopo non ti ritroverei più», le sussurra Jinyoung.
«Scusami», bisbiglia lei di rimando, cercando di capire dove può aver già visto la ragazza di poco prima. 
Bani tace, e guarda la nuca di Jinyoung con uno sguardo stanco. Le sembra di aver camminato ore in quei cunicoli bui e umidi, per andare chissà dove. Ha stretto la felpa di Jinyoung per tutto il tempo, nella speranza che potesse trasmetterle un po’ di calore. Il profumo appartiene allo stesso detersivo che usa sempre anche sua madre. 
Non sa perché, ma a forza di guardare le spalle larghe del suo Oppa andare su e giù, le è tornata in mente quella pagina di diario.
E’ curioso come l’unico sentimento che si era ripromessa di non provare mai sia stato il primo che è stata capace di sentire dopo tanto. Il primo che è stato capace di farsi velocemente strada fra i cuscini fra cui si era imbottita il cuore.
Lei e i membri dei B1A4 camminano in fila indiana dietro ad un ragazzo particolarmente alto, dalle spalle larghe. Ha detto di chiamarsi Daehyun. 
Bani lo ha trovato particolarmente bello, di una bellezza diversa da quella tristemente perfetta di Jinyoung. Lui è una bambola di porcellana, sembra disegnato. Ha un volto privo di imperfezioni e lo sguardo vuoto, di chi non sta realmente guardando ciò che ha davanti.
Il ragazzo di nome Daehyun invece ha un viso irregolare, un naso grande e le labbra particolarmente marcate. Ma è armonioso, specialmente quegli occhietti penetranti. C’è qualcosa nel suo modo di essere che le piace e le dà sicurezza. Al contrario di Jinyoung, Daehyun ha gli due occhi piccoli che però sembrano fuochi scoppiettanti; ha quel tipo di sguardo che non si perde mai nel vuoto, neanche quando pensa: le pupille saettano da una parte all’altra attente a non lasciarsi sfuggire niente. 
Quando si erano incontrati in strada circa un’ora prima lui si era presentato gentilmente e poi le aveva piantato gli occhi in faccia. Bani era rimasta a fissarlo immobile, con la sensazione che con quel semplice sguardo le stesse scavando dentro fin dove neppure lei aveva mai avuto il coraggio di andare e, quando pochi secondi dopo la bocca di lui si era piegata in un sorriso soddisfatto, la sensazione di prima si era trasformata in una certezza. Bani non aveva potuto fare a meno di arrossire.


«Bene,  sedetevi qui», Daehyun indica loro uno spiazzo libero sul pavimento.
«Tra cinque minuti iniziamo».
Iniziamo che cosa?, si chiede Bani prendendo posto a sedere fra Jinyoung e un altro membro del suo gruppo di cui ancora neppure ricorda il nome.
Jun Hong sale in piedi su una panchina verde addossata al muro, e si rivolge alla fiumana di persone che affollano ogni angolo della stazione di Oksu. Sono veramente tantissimi; il pensiero di avercela fatta, anche se solo in parte, gli fa palpitare il cuore all’impazzata.
Appena lo vedono portarsi il megafono alla bocca, tutti tacciono improvvisamente.
«Sarò breve e conciso», la sua voce rimbomba contro le volte del soffitto e sente lo stomaco fare una capriola all’indietro. Calmo, hai gestito pubblici decisamente più problematici, pensa.
«La situazione là fuori non è più sicura. Anche se i bombardamenti sono finiti corriamo dei grossi rischi. Il regime che ci ha invaso non pare disposto a tollerare nessuna forma di libertà di espressione, compresa la nostra; ciò significa che da ora in avanti uscire da questo posto è severamente vietato a chiunque di voi abbia fatto parte del mondo dello spettacolo. Il regime vi considera trasgressori della legge e vi posso assicurare che, se vi prenderanno, non ci andranno piano», detto questo si alza un lembo della maglietta con la mano fasciata e dalla folla si leva un’esclamazione sconvolta. Lascia passare qualche secondo, giusto per assicurarsi che tutti abbiano potuto distinguere chiaramente le costole che si intravedono fra un brandello di pelle tumefatto e l’altro, sul lato destro del torace, poi si copre. 
«Questo è il posto più sicuro che abbiamo trovato, ma tuttavia non è perfetto. Mancano tantissime cose. Il problema dell’acqua potabile  si può ovviare bevendo dai lavandini dei bagni, ma, come vi sarete presto accorti, il posto gode di una scarsissima illuminazione, manca il cibo e tante piccole accortezze per rendere la vita un po’ meno difficile. Spero vi siate portati provviste a sufficienza per almeno quattro, cinque giorni. Alla fine della riunione seguite le vostre guide, vi porteranno alle vostre personali stazioni della metropolitana, le vostre case. Vi prego di averne cura, perché non sappiamo per quanto dovrete viverci. Entro due giorni voglio anche sapere i nomi dei vostri rappresentanti, massimo tre per ogni stazione. Grazie», Hong scende dalla panchina e spenge il megafono.
Le persone iniziano ad alzarsi e dalla folla si leva un brusio indistinto.  Hong si china per infilare il megafono nello zaino, ma poi si volta perché si sente picchiettare leggermente una spalla.
«Mi chiamo Bani Tomohisa», dice la ragazza che ha cercato di attirare la sua attenzione. Hong si alza in piedi  e fa per infilarsi lo zaino in spalla, ma una fitta di dolore al torace lo piega in due per qualche secondo.
Bani gli prende lo zaino in tutta fretta e se lo carica sulla schiena.
«Grazie», ansima Hong appoggiandosi al muro per riacquistare l’equilibrio.
«Io posso darvi una mano… per trovare le cose che mancano insomma», afferma Bani sorreggendolo per un gomito. Hong arrossisce, ma fa finta di niente.
In tutta la sua vita non ha mai conosciuto una ragazza così straordinariamente alta da poterla guardare negli occhi senza piegare il collo. E poi, nota quasi vergognandosene, è proprio bella. Di una bellezza vera e senza artefatti, di quelle che non hanno bisogno di rossetti e fondotinta. Ha dei lunghissimi capelli castani che le scendono dolcemente lungo il viso, come le onde dell’oceano.  Forse è proprio per questo che è arrossito, appena lei l’ha toccato.
Piantala Hong, tieni a freno i tuoi schifosi ormoni da diciassettenne, si rimprovera.
«A-ah, davvero?», si limita a domandare con la faccia più ebete che gli sia mai uscita. La ragazza di nome Bani Tomohisa non sembra averlo notato, e si limita ad annuire.
«Sì. Posso uscire di qui quando voglio, non sono ricercata… Posso andare io a procurarmi le cose che servono».
«Ma qui dentro siamo tantissimi, e tu da sola…», Hong ci pensa su un secondo.
«Serve un piano», conclude.
«Sì, lo so», si limita a rispondere la ragazza. Poi si fruga nella borsa che porta a tracolla e ne estrae un flacone di disinfettante e delle garze.
«Non credo mi servirà di qui a poco. Tienilo tu, nel caso finissi le tue medicazioni. E… questo zaino è veramente pesante. Fallo portare a qualcun altro, non dovresti affaticarti, sei troppo ferito», mormora porgendogli il flaconcino di liquido verde.
Hong lo prende con mano tremante e la ringrazia.
«Bani, dov’eri? Credevo di averti persa… oh, ciao Zelo». Hong trasale; da dove accidenti è spuntato Jinyoung e come mai conosce Bani?
«Voi due vi conoscete?», domanda sorpreso.
«Siamo amici, l’ho portata io qui», dice Jinyoung con la solita aria priva di vita. Alla parola amici Hong non può fare a meno di notare la scintilla negli occhi di Bani.
«Dai andiamo, Daehyun è già pronto a portarci nella nostra stazione».
«Arrivo!», esclama Bani, poi posa lo zaino di Hong per terra e lo saluta con un mezzo sorriso. «Se mi cerchi, io sto con loro», sussurra indicando i B1A4 radunati poco più in là. Un cenno della mano ed è già corsa via.
La guarda per un po’, prima che sparisca in mezzo alla folla, e si ritrova improvvisamente malinconico senza neppure sapere il perché.
«Proprio carina…», mormora Yongguk caricandosi lo zaino di Hong in spalla.
«Accidenti, e tu da dove sbuchi?!», impreca Hong trasalendo. Sente immediatamente le guance colorarsi di rosso.
«Ero qui dietro, pronto a prendermi la tua sacca, quando ho visto che ci aveva già pensato quella…»
«Bani», conclude Hong.
«Lei. Ho pensato che non sarebbe stato carino interrompervi, e poi guardarti annuire come un deficiente è stato piuttosto divertente», Yongguk lo saluta con un cenno del capo e si allontana, con due zaini giganteschi in spalla. Uno dei quali è di Hong.
Lui lo sa, per quanto Yongguk cerchi di fingersi tranquillo, il pensiero di Hong che è stato torturato al suo posto e  la morte ingiustificata del signor Kim lo tormenteranno per sempre. I rimorsi e i sensi di colpa non lo lasceranno mai. Mai più.
E poi, più di tutto, il pensiero di aver ucciso qualcuno di sua mano non gli fa più chiudere occhio. La notte scappa a vomitare e batte i pugni contro il muro del bagno finché le nocche non gli sanguinano.
Hong suo malgrado non ce l’ha con lui se è stato picchiato a sangue finché la pelle sulla cassa toracica non gli si è completamente maciullata, se adesso deve riuscire a mangiare senza molari, o se il signor Kim è stato ucciso. Non è colpa di Yongguk. 
Lui è solo stato sfortunato.
Se un soldato si fosse introdotto in casa sua puntandogli una pistola alla tempia, forse anche Hong avrebbe cercato di divincolarsi. E, forse, anche lui per sbaglio tentando di disarmare il soldato avrebbe finito con il premere accidentalmente il grilletto.
Ma non importa quante volte lui e gli altri glielo ripetano. Da quella notte Yongguk è cambiato per sempre e non tornerà mai più quello di prima. Mai più.



Hyukjae distende il suo sacco a pelo sul pavimento polveroso della sala d’aspetto di una stazione qualunque, uguale a tutte le altre. Stesse seggioline di plastica tutte in fila, stessi tabelloni bianchi appesi ai muri con sopra i vari percorsi della metro. Ci sono solo un po’ più di ragnatele fra una colonna gialla e grigia e l’altra, ma alla fine ha un aspetto piuttosto anonimo.
La dividono con i membri degli MBLAQ, con cui non può dire di avere una vera e propria amicizia, ma che sicuramente non gli dispiacciono come coinquilini. A parte Cheol Yong, in arte Mir. Lui a essere onesti lo spaventa un po’, specialmente perché si è portato dietro un’iguana gigante spiegando che se l’avesse lasciata a casa sarebbe morta presto di fame. 
La stazione di Yaksu era sempre stata piuttosto sporca un tempo, ma appena arrivati avevano cercato di pulirla un po’ alla meglio con le poche cose che si erano portati. Era stato Ryeowook a insistere, visto che c’erano delle ragnatele grandi come arazzi tra i muri e il pavimento. Per un paio di ore tutti e sedici si erano dati daffare a spiaccicare ragni e insetti e a disinfettare un po’ per terra aiutandosi con l’illuminazione delle loro torce. Ora sono tutti esausti.
Kyuhyun, che aveva solo fatto finta di lavorare, è quello che si butta più rumorosamente sul suo sacco a pelo. 
«Ciccione», bofonchia Zhou Mi mezzo insonnolito con il suo accento cinese. 
«Ma piantala, è l’offesa più pesante che sai in coreano?», ribatte Kyuhyun scartando una merendina.
«E’ difficile pensare a qualcosa di più pesante del tuo culo».
«Cinese del cacchio», Kyuhyun lancia la cartaccia della merendina addosso a Zhou Mi. 
«Kyuhyun, guarda che ha ragione… da quando ti ho conosciuto avrai messo su almeno dieci chili», si intromette Lee Joon, che sta estraendo il cuscino dallo zaino. Anche  nella penombra il suo fascino è un pugno nello stomaco. Sungmin lo guarda con gli occhi lucidi, quasi si trovasse davanti a una visione divina.
«Il tuo neo invece è più peloso».
«Acido».
«E’ per questo che vinsi io la gara dei sacchi a pelo».
«State zitti, l’iguana si sta infastidendo».
«Mir, sei un deficiente».
«E tu Cheondung invece hai la testa troppo grande rispetto al corpo».
«Woah, avete intenzione di offendervi per tutta la notte?», esclama Hyukjae. Per un attimo si sente solo il “crunch crunch” di Kyuhyun che mastica.
«Di’ la verità, hai paura di quando arriverà il tuo turno?», lo punzecchia infine Donghae. 
«Figuriamoci, non c’è assolutamente niente di cui prendermi in giro».
Passano due secondi e poi la sala si riempie di quindici fragorose risate.
«Vaffanculo, scemi», borbotta Hyukjae rigirandosi su un fianco.
«Mi manca la risata di Jungsu», bisbiglia Sungmin, facendo cadere improvvisamente un silenzio carico di angoscia. «Quando ridevamo tutti insieme, la sua risata era quella che si sentiva più di tutte».
«E’ vero, anch’io ci ho pensato proprio adesso», bisbiglia Siwon. «Vi ricordate quella sera in dormitorio quando eravamo tutti un po’ sbronzi perché Wookie ci aveva corretto il tiramisù e iniziammo a imitarlo? E lui rideva ancora di più…»
«E quella volta che Hangeng inciampò sul gatto di Chul, rovesciandogli addosso la coca cola?»
«Già, Hangeng… chissà come sta, sembra così solo adesso…»
«L’unico con cui si sentiva raramente era Heechul…»
Il silenzio si fa ancora più pesante. Nessuno dei membri degli MBLAQ osa romperlo. Qualcuno inizia a soffocare i singhiozzi nel cuscino, ma al buio non si vede chi sia. Forse Ryeowook.
«Buonanotte», sussurra Hyukjae rintanandosi dentro il sacco a pelo. Questa è l’ultima parola che viene proferita prima dell’alba.
Una volta Yangee gli aveva detto che fin da bambina, tutti gli eventi importanti della sua vita erano stati segnati dalla fiaba di Cenerentola. 
«In che senso?», le aveva chiesto Hyukjae.
«L’ultimo regalo di mia madre prima di morire fu un libro con la fiaba illustrata di Cenerentola. Leggevo quel libro il giorno in cui conobbi la mia migliore amica. Quando mi sono trasferita a Seul, quando ancora vivevo con mio padre, di fronte al nostro palazzo c’era un gigantesco cartellone pubblicitario del musical Cinderella. Da allora sono convinta che sia una specie di messaggio che il destino mi lancia», aveva risposto lei riscaldandosi le mani sulla lattina di tè caldo che lui le aveva offerto. 
Stupidamente quella volta aveva pensato di invitarla alla festa, illudendosi di essere lui, il suo principe. 
Con il tempo però ha capito che la chiave non stava né nel ballo, né nel principe. La chiave stava nella scarpetta di cristallo. 
Era quello il messaggio; un giorno sarebbe successo un avvenimento, una svolta inaspettata, qualcosa che l’avrebbe aiutata a rialzarsi dalla polvere e dal fango in cui era stata costretta fino ad allora. Lui non era stato capace di portarle quella scarpetta; l’aveva solo fatta scappare via, lasciando che si rinchiudesse ancora più giù, ancora più nel buio. Possibile che quella svolta potesse essere solo la morte? 
Anche stanotte la sogna. Sogna il suo viso dolce e pulito da bambina quando si sedeva per terra, sul tetto dell’agenzia, tutta avvolta con la sua sciarpa rossa – gliel’aveva regalata lui – e sorseggiava il suo solito tè in lattina. Il rumore delle bombe che cadono ed esplodono tutto intorno a lei non sembrano intaccarla. Gli sorride e appoggia la mano per terra, di fianco a sé, come per invitarlo a sedersi.
«Stanotte fa un bel freddo, vero?»
«Yangee, non dovresti essere qui. Scappa, o una di quelle bombe ti ucciderà!», esclama lui.
Lei scrolla le spalle, e si porta la lattina fumante alle labbra.
«Non possono farci niente, questo è solo un sogno», si limita ad osservare la ragazza. Si alza lentamente in piedi spolverandosi il sedere, e poi si gira a guardare oltre la rete che circonda il tetto, lontano verso gli edifici illuminati. Un aereo vola sopra di loro con un frastuono assordante, e li sorpassa. L’aria si riempie con quell’odioso fischio, e un attimo dopo arriva il fragore di un’esplosione. Hyukjae la raggiunge e si mette a guardare quella scena apocalittica al suo fianco. E’ come se quella recinzione di metallo potesse proteggerli per sempre.
«Darei qualsiasi cosa perché non fosse un sogno... Perché tu fossi davvero qui, in carne ed ossa», bisbiglia Hyukjae, sentendo gli occhi sul punto di bagnarsi. 
«Oppa, sei proprio scemo. Preoccuparti per me che sono morta… che senso ha? Non c’è modo per riportarmi indietro-». 
«Non sei morta. Io lo sento, tu… tu sei salva, da qualche parte, là fuori», la interrompe lui trattenendo a forza le lacrime. Yangee gli rivolge un sorriso dolcissimo, di quelli che sfoderava sempre quando lui la faceva sentire importante. 
«Hey, Oppa. Finché è solo un sogno, è ok che tu mi tenga in vita. Ma una volta sveglio devi imparare a vivere anche senza di me. Pensa piuttosto alle persone che puoi ancora salvare», mormora lei con il tono più dolce che lui le abbia mai sentito usare. Poi lentamente gli prende la mano (e a Hyukjae sembra di sentire di nuovo il suo tocco gelido) e gliela chiude intorno alla lattina di tè ancora calda. Poi si china a prendere lo zaino e scivola via. Hyukjae neanche si gira quando la sente richiudersi la porta di metallo alle spalle. Guarda il cielo con gli occhi umidi. Dannazione, è un fottuto sogno, pensa.
Però nella sua testa va a finire che sembra tutto sempre così reale… anche ora che gli aerei sono lontani e le luci della città spente e in cielo brillano un’infinità di stelle.



«Allora», mormora una voce femminile dal timbro profondo. «Kim Heechul. Sembra proprio che tu sia l’unico sopravvissuto al nuovo farmaco. Complimenti».
Heechul apre gli occhi a fatica ma si trova costretto a richiuderli immediatamente. Sopra la sua faccia qualcosa emette una luce bianca accecante. 
Il semplice tentativo di tornare padrone dei suoi sensi gli ha provocato una fitta lancinante alle tempie, tanto che per un attimo gli sembra di essere nuovamente sul punto di svenire. 
Qualcosa di morbido gli sfiora la guancia.
«Sai, sono proprio contenta che tu ce l’abbia fatta. Un bel ragazzo come te…», sussurra lei afferrandogli il mento. Qualcosa si intromette fra lui e la luce, e allora tenta di riaprire gli occhi, con difficoltà.
Guarda il volto della giovane donna a pochi centimetri dal suo, i suoi occhi glaciali, la montatura metallica degli occhiali e la pelle candida.
Se potesse le vomiterebbe in faccia, o quantomeno le urlerebbe di non toccarlo con quelle luride mani. Fa per aprire bocca, ma l’ennesima fitta alle tempie gli impedisce di proferire parola.
«Shh… lo so cosa stai pensando. Riesco a leggere tutto l’odio che provi per me dall’espressione della tua faccia. Confesso che, più mi guardi così, e più ti trovo attraente», gli bisbiglia la donna posandogli le labbra sull’orecchio. 
«Sai cosa ho pensato, Kim Heechul?», domanda ad un tratto ad alta voce, tornando in piedi. Heechul è nuovamente costretto a chiudere gli occhi per colpa della lampada che la donna gli tiene puntata in faccia.
«Mi arrivano decine di cavie umane ogni settimana per condurre i miei test, ma nessuno di loro finora aveva superato il mio nuovo virus, specialmente con l’uso di quel farmaco sperimentale diciamo… poco ortodosso».
«Mi hai drogato», biascica a fatica Heechul sentendo la stanza intorno a lui andare su e giù. 
«Drogato…», lo scimmiotta la donna decidendosi finalmente a spegnere il potente faretto bianco e permettendo a Heechul di mettere a fuoco la stanza d'ospedale in cui si trova.
«Se ti avessi addirittura drogato dopo la roba che ti ho iniettato in vena per impedirti di farti esplodere le arterie, a quest’ora avresti del minestrone al posto del cervello, intesi?», sibila con la sua voce fredda. 
Heechul cerca di alzarsi, quando realizza di essere legato polsi e caviglie al lettino.
«Liberami…», mugola. Si sente il corpo pesante come un macigno, quasi qualcuno gli fosse caduto addosso dal terzo piano.
«Per darti modo di tentare la fuga come l’ultima volta?», sbotta la donna lasciando cadere con stizza il bisturi che aveva appena preso in mano dentro un vassoio metallico. 
I continui sbalzi d’umore della Dottoressa lo terrorizzano. 
Ci sono state volte in cui gli ha tenuto il volto serrato nella sua stretta gelida così forte che si è messo a supplicarla di lasciarlo, singhiozzando come un bambino.
Vorrebbe scappare, ma non gli è permesso. Morirà in quella piccola stanzetta bianca e fredda dal soffitto alto, in quel letto di ferro battuto con lo smalto sbucciato. Oppure morirà qualche metro più in là, magari vicino alla ciotola de riso, accasciato sul pavimento di linoleum grigio e ci metteranno così tanto giorni a trovarlo che sarà già mezzo decomposto.
Heechul è prigioniero in quella stanza d’ospedale da chissà quanto. Mesi, anni, poche settimane.  Non sa dirlo.
Neanche ricorda come ci è arrivato. Chissà come riesce ad avere un quadro chiarissimo di cosa sia successo, e del perché una pazzoide in camice lo usi come cavia umana per esperimenti senza che venga denunciata all’ONU per violazione dei diritti umani, ma non ricorda assolutamente come sia finito in quella schifosissima stanza d’ospedale sempre chiusa a chiave. Sospetta di essere stato drogato durante il trasferimento.
Ma che diamine dice, è CERTO di essere stato drogato. Se gli facessero un prelievo ora risulterebbe avere un tasso di morfina nel sangue talmente alto che per disintossicarsi non basterebbe una vita intera.
Da quando è lì è come se il resto del mondo fosse stato inghiottito in un buco nero. Quando non è solo, giorno e notte, la Dottoressa è l’unico essere umano con cui gli sia concesso entrare in contatto. Solo una volta ha cercato di scappare, mentre lei apriva la porta per uscire, ma era talmente intontito dalla roba che gli dava che a metà corridoio era svenuto per lo sforzo.
Da allora la donna aveva preso l'abitudine di incatenargli le caviglie al letto costringendolo a strisciare per terra come un cane. 
Nonostante la finestra con le tende sempre scostate, Heechul è arrivato al punto di non distinguere più il giorno dalla notte. Passa le giornate rannicchiato contro la parete a guardarsi riflesso nel vetro con la stessa intensità con cui si fisserebbe un morto. No, non sono io quello, si ripete sempre. Ha il viso di un bianco cadaverico e gli occhi totalmente spenti cerchiati da profonde occhiaie scure. Non era mai stato così magro... la pelle sulle braccia sembra non riuscire a contenere neppure le ossa. I capelli gli scendono incolti fino a sotto le spalle e sono perennemente sporchi a causa della febbre che gli sale a giorni alterni.
A volte si sveglia scoprendo di essere stato lavato e di avere la barba fatta, o constata di avere un pigiama pulito, ma non ricorda mai niente. Pensa a tutto la Dottoressa. 
Sospetta che non si limiti a lavarlo, quando è sotto l'effetto della droga, ma ringrazia il cielo di non ricordare niente. Non sopporterebbe anche l'umiliazione di uno stupro.
Le luci si accendono e si spengono a intervalli irregolari, e per la metà del tempo è intontito dalle strane sostanze che gli inietta in vena quella donna raccapricciante.
La Dottoressa.
Nella lontana ed improbabile ipotesi in cui lui riuscisse ad uscire di lì sano di mente, o quantomeno vivo, lei popolerebbe senz’altro i suoi incubi ogni fottuta notte fino alla morte.
Ogni volta che apre gli occhi lei è lì. Come una maledizione, uno di quegli incubi che continuano anche quando ti svegli. E’ lì che gli parla con la sua voce profonda, che gli punta il suo gelido sguardo in faccia, che gli mette le sue mani ossute simili a grossi ragni addosso.
E’ incredibilmente alta, e da sotto il camice spuntano due gambe sottilissime. Porta immancabilmente  i soliti pantaloni bianchi di cotone, sempre incredibilmente candidi. Raccoglie i capelli lunghi in un’anonima coda di cavallo sulla nuca, e porta un paio d’occhiali dalle lenti ovali e la montatura in alluminio. 
Se l’avesse semplicemente incontrata per strada, un giorno, probabilmente l’avrebbe scambiata per la tipica madre casalinga con tre figli.
Ben presto ha capito di essersi sbagliato.
«Sai, Heechul», riprende la donna, tornando del tutto calma e rivolgendogli uno sguardo carico di compassione. «Credo davvero che alla fine non ti ucciderò».
«Ah no», biascica Heechul sbattendo più volte le palpebre. Ha bisogno di acqua.
L’angolo della bocca della donna che si piega in un sorriso sadico è forse una delle visioni più agghiaccianti che Heechul abbia mai potuto osservare.
«No. Perché in fondo sarebbe un peccato, un bel ragazzo come te… Mi servi molto di più da vivo che da morto», mormora baciandogli la fronte.
Heechul sente che vorrebbe urlare. Vorrebbe alzarsi, rovesciare tutto e iniziare a colpirla con tutta la violenza possibile, romperle le ossa e ucciderla. Ma non basterebbe. Non basterebbe a pareggiare i conti.
Per tutte le torture sadiche a cui l’ha sottoposto, per le volte in cui l’ha lasciato giorni senza mangiare né bere, per gli esperimenti, gli elettro shock, per tutte le volte in cui gli ha drogato il cibo e dopo l’ha costretto a fare chissà cosa. Non basterebbe per avergli lasciato incisa sull’addome la frase: “c’è un solo modo per liberarsi da un desiderio ormai ossessionante; soddisfarlo”, come un tatuaggio indelebile.
E l’ossessione della dottoressa è lui. Quella donna incarna la follia più pura, cambia stati d’animo con una rapidità terrificante, niente è troppo estremo per lei ma, di tutte la malsane, malate, sporche, perverse ossessioni che ha, Heechul è in assoluto la più grande.
«In confidenza, nessuna delle cavie che ho avuto finora, soffre in un modo più sublime del tuo. Mi piace vedere il tuo corpo perfetto che si contorce dal dolore e le tue grida mi fanno girare la testa… Hai una voce così… sensuale», gli sussurra accarezzandogli il volto e chinandosi per baciarlo sulle labbra.
«Mi fai vomitare», risponde lui con voce debole. 
«Lo so, e il tuo totale disprezzo nei miei confronti non fa altro che eccitarmi di più…», risponde la Dottoressa con il suo sguardo folle. Si china ad afferrare la pesante catena che pende dal capezzale del letto e la lega stretta intorno alla caviglia di Heechul, dove le maglie di ferro hanno già leso la carne, dopodiché slaccia le cinghie con cui lo teneva bloccato al materasso. Appena ha i polsi liberi Heechul scivola giù dal letto e si accascia per terra in preda a un calo di pressione che per un attimo gli annebbia la vista.
«Ma guardati... non ti fai neanche un po' pena... che creatura inutile che sei diventato, Kim Heechul», lo canzona la Dottoressa chiudendosi la porta alle spalle e dando due mandate di chiave alla serratura.
Heechul si distende sul pavimento portandosi le ginocchia al petto e inizia a singhiozzare. Come quella volta che Hangeng se n'era andato ed aveva pianto una notte intera abbracciando il suo cuscino sperando che ritornasse. 
Ma lui non era tornato mai più. Inutile mandargli mail, messaggi o telefonargli in piena notte, per tutti quegli anni lui non si era mai più fatto vivo. Perché dovrebbe succedere ora, stupido di un Heechul?, si maledice mentalmente. 
Fuori dalla finestra la luna riesce a farsi spazio fra le nuvole e lo accarezza con il suo bagliore tenue. A poco a poco Heechul si calma e scivola in uno dei suoi sogni tormentati.


Hangeng fissa il cielo, disteso scompostamente nel suo letto. Guarda le nuvole che coprono la luna, fuori dalla grande finestra del suo appartamento, pensando di aver sbagliato tutto nella vita.
In una mano tiene il giornale di oggi, dove in prima pagina c'è l'ennesimo articolo sull'occupazione della Corea del Sud. Da un mese ormai non chiude più occhio per via dell’angoscia che lo attanaglia. In Corea ha lasciato cose… ha lasciato persone… che forse avrebbe dovuto salutare con un po’ più di riguardo. O che semplicemente avrebbe fatto meglio a non conoscere.
No, forse non ha sbagliato tutto, pensa. Si è comunque concesso di amare. E l'ha fatto senza riserve, si è completamente abbandonato a quel sentimento e ha lasciato che lo sballottasse da una parte all'altra finché lui non gli ha spezzato il cuore. Ma in fondo preferisce un cuore spezzato, ad un cuore gelido e incapace di amare.
Sospira, sbattendo le palpebre. Heechul era come la luna. Come lei, ogni giorno cambiava faccia ed atteggiamento, e sembrava voler nascondere la sua vera natura dietro quell'aria misteriosa e fredda. La verità era che, come la Luna, era incredibilmente solo. Attratto sia dal sole che dalla Terra, ma troppo distante da entrambi per toccarli, girava in tondo costantemente alla ricerca di qualcosa che potesse curare la sua solitudine. 
Come aveva potuto pensare in qualche modo di riuscire a colmare quel vuoto, pensa Hangeng con amarezza, mentre dalla spessa coltre di nuvole filtra un raggio di luce bianca e va ad accarezzargli una guancia. Perché ogni singola notte deve sentire questo vuoto opprimente nello stomaco? Aspetta che la luna sparisca di nuovo inghiottita dalle nubi, ma invece rimane lì. 
«Dannazione!», esclama in un impeto di rabbia. Si tira in piedi lanciando a terra il giornale e copre a grandi passi la distanza che lo separa dalla finestra. Afferra un lembo della tenda con tutta la sua forza e fa per tirarla, ma qualcosa lo blocca. Rilassa i muscoli e a passi lenti torna a buttarsi sul letto, guardando il disco lunare con rassegnazione. 
«Morirai come Li Po»,gli diceva sempre sua madre quand'era piccolo. «Annegherai cercando di afferrare la luna riflessa nel fiume». Allora non l'aveva capita, era solo un bambino, ma ora il significato di quelle parole gli è così chiaro... Sospira mettendosi una mano sul petto cercando di fermare il suo improvviso e frenetico batticuore.
La verità è che sta davvero annegando. 
«Non ce la faccio più...», sussurra con un fil di voce abbracciando il cuscino.



Hyoyeon è andata afare un giro per la metroplitana. Il breve scambio di sguardi tra lei e Hyukjae poco prima alla stazione di Oksu l'ha lasciata così frustrata che non è riuscita ad addormentarsi. Mappa alla mano, si fa luce con una torcia elettrica lungo i cunicoli bui della rete sotterranea della città, ignorando gli squittii dei topi e i fruscii inquietanti. Confronta sulla mappa se la porta di metallo che ha trovato corrisponde effettivamente all'uscita. Pare di sì. 
Non è prudente uscire, ma non sente rumore di camion provenire da fuori e starà attenta a non farsi scoprire. Per precauzione lascia la mappa dentro, in modo che in caso di arresto non gliela trovino addosso, poi spinge silenziosamente la maniglia e sguscia fuori. Non si era resa conto di quanto fosse pesante l'aria dentro finché l'aria gelida di ottobre non le ha riempito i polmoni. Si stringe nel cappotto e si guarda intorno; la strada è completamente deserta e i lampioni sono spenti. Per terra i marciapiedi sono coperto di uno spesso strato di polvere, inevitabile dopo aver ridotto in frantumi gli edifici di mezza città. Sotto la suola delle scarpe, la polvere e i detriti scricchiolano sempre in modo sordo e Hyoyeon si chiede spesso se non stia calpestando le ceneri dei suoi genitori. Da quel tragico giorno, Seul si è trasformata in un città fantasma, come una di quelle isole piene di fabbriche abbandonate che ci sono in Giappone, diventando lo scenario perfetto per un thriller un po’ apocalittico. Solo che Hyoyeon in questo momento è dentro al film, la sola creatura vivente in mezzo a due file di edifici altissimi, e il suo cuore batte così forte che teme possa rimbombare contro le pareti di cemento di cui è circondata.
Alza lo sguardo verso il cielo, un cielo nuvoloso e coperto, e poi si dirige pian piano verso l'angolo fra le due strade. Quando sta per svoltare però, sente un rumore di pneumatici; si volta, con il cuore in gola, e vede un camion in fondo alla via che le si avvicina lentamente. Per un attimo il terrore le attanaglia lo stomaco, fa in tempo a sussurrare un’imprecazione a denti stretti, e poi inizia a scappare più veloce che può. Non sa neppure se hanno fatto in tempo a illuminarla, ma a scanso d'equivoci deve mettersi in salvo. Per quale assurdo motivo è uscita? Stupida di una Hyo. 
Corre come il vento, quasi saltando, fende l'aria e imbocca le strade più strette e buie che riesce a trovare. Quando si sente sufficientemente al sicuro rallenta un po' la corsa, anche perché sente i polmoni che stanno per scoppiare. Si volta indietro giusto per assicurarsi di averli seminati, e proprio mentre sta per girarsi nuovamente in avanti va a a sbattere contro qualcosa di morbido, inciampa e cade a terra rovinosamente. Rimane acquattata sull'asfalto per qualche istante, giusto il tempo di riprendere un po’ di fiato, poi alza gli occhi per vedere contro cosa è finita.
Il ragazzo, venticinque anni al massimo, la osserva dall'alto in basso avvolto in una aderente divisa nera da militare nordcoreano; ha ancora la mano ferma su un mazzo di chiavi inserito nella toppa di un portone.
Hyoyeon si affretta ad alzarsi decisa a scappare nuovamente via, ma una mano calda le afferra il polso.
«Lascia-», prima che possa urlare qualsiasi cosa il ragazzo le ha tappato la bocca e l'ha sollevata di peso trascinandola  fin dentro il portone. Pochi secondi dopo, nella strada è nuovamente calato il silenzio.
  
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