Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Lacus Clyne    27/07/2013    4 recensioni
"Cominciò con un incubo. Un incubo tornato dalle profondità dell’anima in cui avevo cercato di relegarlo innumerevoli volte, da quando ne ho memoria." Per Aurore Kensington i sogni si trasformano in incubi sin da quando era una bambina. Sempre lo stesso incubo, sempre la voce gentile del fratello Evan a ridestarla. Finchè un giorno l'incubo cambia forma, diventando reale. Aurore è costretta a fare i conti con un mondo improvvisamente sconosciuto in cui la realtà che le sembrava di conoscere si rivela essere una menzogna. Maschere, silenzi, un mistero dopo l'altro, fino al momento in cui il suo adorato fratello Evan e la loro mamma scompaiono nel nulla...
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buongiorno a tutti!! Oh cavoli, oggi sono alquanto inquieta perché ho letto gli ultimi spoiler di 07-Ghost e... voglio necessariamente il capitolo!! nyargh *prende fiato* Ok, tornando a noi, pubblico la terza parte del capitolo! >__< Anche questa è abbastanza lunga, ma spero risulti interessante! >_< Ringrazio come sempre Taiga-chan e non vedo l'ora di risentirti, tesoro! <3 E un grazie anche ad _Alexandra98_ che ha aggiunto la storia nelle preferite!! Oh, aggiungo anche un nuovo disegno: http://imageshack.us/a/img801/3493/4qrt.jpg ecco Arabella! <3 Buona lettura!! *--------*<3

 

 

 

 

 

Nel silenzio, improvvisamente, udii un suono simile allo sbattere d’ali e istintivamente, sollevai gli occhi al cielo. Nel corso del tempo passato nell’Underworld, i miei occhi si erano abituati all’oscurità e ora mi veniva più semplice riuscire a vedere anche in quella situazione, proprio come accadeva a Shemar, nel mio mondo. Vidi una strana creatura, per certi versi simile a un uccello, ma molto più rigida, quasi meccanica, con ali lunghe dalla punta acuminata. Emanava dei fiochi bagliori chiari, come se risplendesse, in qualche modo. Compresi istantaneamente di cosa si trattasse. Era uno dei messi della Croix du Lac. Sperando di essere fortunata abbastanza da non esser vista, corsi all’interno della villa, nascondendomi dietro l’unica anta sopravvissuta del portone. Cercai di trattenere il fiato, soprattutto quando sentii quel battito scendere, assumendo una sfumatura quasi metallica, simile a uno stridio. Chiusi gli occhi, pregando che andasse via lasciandomi in pace, poi sentii un forte rumore, come se qualcosa l’avesse colpito. Il messo lanciò un suono acuto e fastidioso, quasi si stesse lamentando. Subito dopo sentii un altro fruscio, che riconobbi come quello delle ali dei grifoni. Il primo pensiero corse al mio Harundia, che avevo lasciato con Leandrus, assieme a Hibernia ed Hezekiel. Prudentemente, mi affacciai quanto bastava per scorgere un grosso grifone dal manto nero, tanto scuro da mimetizzarsi perfettamente con l’ambiente circostante, e il suo cavaliere, a sua volta vestito di nero. Brandì una spada con perizia e rapidità, tranciando le ali del messo di netto e infilzandolo. I fendenti scintillavano nell’oscurità, come fossero dei fulmini. Quando ebbe finito, del messo non rimase altro che una serie di solchi sparpagliati per terra. Ero sconvolta e a dir poco terrorizzata. Non riuscivo a vedere le fattezze del cavaliere, però uscire allo scoperto non mi sembrava una buona idea. Nel farmi indietro, pestai dei cocci di vetro e maledissi dentro di me la mia disattenzione. Sperai che non mi avesse sentita, ma se così fu per l’uomo non fu lo stesso per il grifone, che ringhiò. Avevo quasi dimenticato che avevano un udito prodigioso. Ero ufficialmente nei guai. Sentii i passi decisi che venivano verso di me, così mi decisi a rientrare del tutto nel palazzo, sperando di riuscire almeno a nascondermi da qualche parte. Il guaio era che non conoscevo il posto, quindi c’era la possibilità che stessi correndo a vuoto. Ripercorsi il tragitto che avevo fatto al contrario, tornando nella stanza in cui mi ero svegliata e nascondendomi sotto al letto. Da piccola lo facevo spesso quando giocavamo a nascondino, anche se Evan mi trovava con facilità. Tuttavia, da quella posizione potevo vedere comunque cosa l’avversario stesse facendo. Quando vidi i neri stivali varcare la soglia della stanza, trattenni il fiato il più possibile, pregando che non gli venisse in mente di piegarsi a guardare sotto il letto. Sentii che tirava il mantello e poco dopo vidi che se lo rimetteva addosso. Il colpo d’aria che ne seguì mi ricordò la voce che mi ordinava di respirare una volta fuori dall’acqua. Se quello che avevo addosso era il mantello del cavaliere, allora doveva essere stato lui a trarmi in salvo. Girò i tacchi e mentre se ne andava, strisciai fuori dal letto.

- Aspetta, per favore!

Esclamai, rialzandomi. Probabilmente, nello gettarmi sotto al letto dovevo essermi graffiata le ginocchia, perché le sentivo bruciare. L’uomo era voltato di schiena. Era alto e aveva le spalle larghe, coperte dal mantello che gli arrivava fino alle caviglie. Portava i lunghi capelli brizzolati legati in una treccia che gli arrivava a mezza schiena, leggermente scompigliati. Si voltò lentamente, così vidi un soprabito scuro sotto al mantello, incredibilmente simile a quello che indossava il professor Warren quando lo incontrai a casa mia. Ma diversamente da lui, sui guanti scuri spiccava un sigillo differente, che non seppi ricondurre a nessuno dei sigilli che avevo visto in passato. Al collo portava lo stesso ciondolo con la runa che avevo scorto prima di perdere i sensi. Il volto, come Liger e le altre guardie, era coperto per metà da una maschera. Quell’uomo era una guardia imperiale, indiscutibilmente.  Mi si mozzò il fiato. Ero stata troppo avventata e adesso mi ero giocata ogni possibilità di salvezza. Che mi era saltato in mente? E soprattutto, come avrei potuto farla franca? Con la coda dell’occhio, cercai qualche oggetto che potesse tornarmi utile per difendermi, ma la stanza era talmente scarna che non trovai nulla. Ero ufficialmente spacciata.

- Stai bene?

Mi domandò, a sorpresa. La voce era sicuramente la stessa che avevo sentito mentre venivo tirata fuori dall’acqua.

- S-Sì…

Risposi. Una guardia imperiale che si preoccupava per me. Ma la spada al fianco non mi rincuorava per niente.

- S-Sei stato tu a salvarmi, vero? Perché?

Sentii i suoi suoi occhi addosso, nonostante non potessi vederli. Mi raggiunse, fermandosi a pochi passi da me. Sollevai lo sguardo. Avevo sfidato la sorte. Adesso non potevo far altro che andare fino in fondo. Raccolse il mio ciondolo tra le dita guantate. Da vicino, vidi il suo, con la runa d’argento. Protezione.

- Perché devi vivere. Custode dell’ametista.

- Sono soltanto una ragazza che vuole ritrovare la sua famiglia…

Mormorai, pensando a mia madre.

- La tua famiglia?

Annuii, pensando alle parole dell’anziano. Celia Kensington, Cerulea Rosenkrantz.

Lasciò scivolare la mia ametista al suo posto.

- Posso conoscere il tuo nome?

Mi domandò. Lo guardai incerta. Gracie, avrei detto, ma quel nome mi ricordò ancora una volta Damien e il dolore si fece strada prepotentemente nel mio cuore e nei miei occhi, velandomi lo sguardo.

- Aurore.

Dissi, semplicemente.

- Aurore.

Ripeté.

- Da quanto questo mondo non vede l’aurora.

Distolsi lo sguardo, ripensando al motivo per cui la mamma mi aveva dato quel nome. Quando ne avevamo parlato, avevamo parlato anche di mio padre, e mia madre mi aveva detto che si erano amati così tanto da diventare l’uno l’anima dell’altra. Alla luce delle parole dell’anziano, i dubbi che mi erano venuti a causa di Leandrus, erano scomparsi.

- Tuttavia, non c’è modo che essa ritorni.

Riprese poi, con tono totalmente disilluso.

Ripensai a Livia, al suo atteggiamento così crudele, nonostante la giovane età. Ma se potevo capirlo vista la sua condizione, com’era possibile che fosse lo stesso anche per qualcuno che ricordava com’era quel mondo quando ancora vi splendeva la luce?

- Non è così.

Contestai. Ebbe un piccolo fremito. Io sorrisi. Stavo sorridendo a una guardia imperiale.

- Fino a che non cambierete il modo di pensarla, allora sarà come dici. Ma se pensate anche soltanto una volta a come sarebbe riavere la speranza, senza temere il prezzo da pagare, allora forse…

- Ideali sciocchezze.

Contestò lui.

Strinsi i pugni.

- Allora se è davvero così… che senso ha avuto la vita di mio padre? Lui ha combattuto per proteggere la sua terra, per far sì che Challant fosse un posto sicuro… sono certa che credesse in questo più di qualunque altra cosa al mondo, e per questo motivo, Challant pros--  

- Nonostante tutto, quell’uomo è stato giustiziato per alto tradimento quasi diciassette anni fa. Ha pagato con la vita il suo voler “proteggere” ciò che gli era caro.

Mi interruppe.

Sobbalzai, sconvolta da quelle parole così taglienti. Sapevo che era morto, ma sentirlo dire così faceva tutt’altro effetto.

- T-Tu… conoscevi mio padre?

Prima che potesse rispondere, dall’esterno, sentimmo i versi di richiamo del grifone nero.

- Devi tornare nel tuo mondo. Ne va della tua stessa vita. Sei ancora troppo giovane per pagare un prezzo così alto.

Scossi la testa, si stupì.

- Non lo farò. Sono disposta anche a questo, se significa riavere la mia famiglia e aiutare le persone che mi sono care. Qualunque cosa accada, ormai ci sono dentro fino al collo e non intendo rinunciarci.

- Sei testarda e ostinata.

- Lo so.

Sorrisi. Avevo preso da mia madre in questo.

- Cavaliere?

- Mh?

- Posso conoscere il nome della persona che mi ha salvato la vita?

Domandai. Attese qualche istante prima di rispondermi.

- Adam.

- Adam. Il Fulmine d’argento.

Notai lo stupore nel modo in cui arricciò le labbra. Ma quando l’avevo visto battersi contro il messo, la sua spada emanava fendenti tanto luminosi da sembrare fulmini d’argento.

- Grazie per avermi salvata.

Dissi. Nonostante l’uniforme che indossava, avevo la sensazione che ci fosse del buono in quell’uomo. Un po’ come Shemar, che prima di essere una guardia imperiale, era il cavaliere di Amber. La fedeltà alla sua signora veniva prima di qualunque altro giuramento. Sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male. E in qualche modo, sentivo che era lo stesso per l’uomo che avevo davanti, chiunque egli fosse. Adam fece un cenno d’assenso.

- Questo posto non è sicuro. Arriveranno altri messi molto presto, e sarà meglio che non ti trovino qui.

- Perché l’hai ucciso?

Domandai.

- Perché la Croix du Lac ha visto fin troppo. Vieni con me, ti porterò in un luogo più sicuro.

Concluse, uscendo dalla stanza. Ripensai all’anziano che mi aveva parlato della famiglia Valdes, ma non mi sembrò una buona idea parlargliene. Considerando la facilità con cui aveva eliminato il messo, non sapevo quanto potesse essere positivo raccontargli di quell’uomo. Ciononostante, mi ripromisi di farlo a tempo debito, sperando che quel vecchio fosse in salvo, da qualche parte. Quando passammo davanti al ritratto, mi fermai, costringendolo a fermarsi a sua volta. L’avrei rallentato, lo sapevo, ma ci tenevo a lasciare tutto com’era prima di scoprire la verità. Sollevai il drappo rosso che era caduto a terra, e prima di coprire il quadro, accarezzai con le dita il volto di mio padre. Un volto giovane, determinato. Non l’avrei mai visto da adulto, e prendere coscienza del fatto che con tutta probabilità era morto senza nemmeno sapere della mia esistenza, mi intristì oltre ogni misura. Ma d’altro canto, adesso avevo scoperto che Greal Valdes era innocente, e avrei fatto in modo di riabilitarlo.

- Papà… tornerò, te lo prometto. Insieme alla mamma...

Sussurrai. Avrei tanto desiderato potergli dire che sarei tornata anche insieme a Evan, ma mio fratello sicuramente l’aveva già rivisto.

- Dobbiamo andare.

Mi ricordò Adam. Annuii, e dopo aver rimesso il drappo al suo posto, andammo via, lasciandoci alle spalle la residenza Valdes, in una campagna sconfinata e in decadenza. In volo nel cielo notturno, protetta dal mio misterioso salvatore, vidi Challant, un paese in rovina. Senza più la famiglia Valdes a governare saggiamente, senza più i Rosenkrantz, la famiglia di mia madre. Mi chiesi se il professor Warren avesse mai avuto qualche pretesa su Challant, ma ne dubitavo, visto il grado di abbandono in cui quella regione verteva. Leandrus mi aveva detto che un tempo era il territorio più bello dell’Underworld, ma ora, ciò che ne era rimasto era soltanto lo spettro di ciò che era. Le maestose residenze, i villaggi, le mura, erano tutti distrutti o abbandonati al loro destino. L’incuria aveva fatto sì che la vegetazione divorasse quei luoghi. I templi apparivano in disuso da molti anni, e ovunque metri e metri di rovi avevano rimpiazzato le storiche architetture. Non sapevo dove stavamo andando, ma man mano che volavamo, la mia ametista brillava, come se stesse piangendo nel vedere quel che era accaduto alla sua terra d’origine. Anch’io mi sentivo triste. Sapevo cosa volesse dire abbandonarsi, e più spesso di quanto volessi, finivo col poggiare la testa, singhiozzando, contro il petto di Adam, che dal canto suo, non protestò mai. Volammo a lungo, ma avevo perso ogni cognizione temporale. Non sapevo nemmeno quanto tempo era trascorso da quando ero precipitata dalla torre del palazzo Devereaux. Intravedemmo la capitale di Challant, Velsen, il solo centro che sembrava essere stato risparmiato dallo scorrere del tempo. Tuttavia, quando chiesi se ci saremmo fermati lì, il mio compagno di viaggio rispose negativamente. Compresi le sue motivazioni quando vidi uno stuolo di guardie imperiali intente a perlustrare i dintorni.

- Toglimi una curiosità.

Gli dissi, ottenendone l’attenzione.

- Perché indossi l’uniforme degli imperiali?

Il grifone, che avevo scoperto chiamarsi Lughoir, fiutò l’aria, poi si diresse in basso, planando verso una radura all’esterno della città, lontana abbastanza per non essere trovati.

- Perché un tempo anch’io ero uno di loro. Ma più che per un qualche sentimento d’appartenenza, al momento è il miglior modo per passare inosservati. Nessuno fa più caso alla presenza di una guardia imperiale in giro.

Non sapevo quanto potesse esser vero per gli altri, ma di certo io ci facevo caso. Probabilmente, considerando l’alto numero di miliziani non c’era da stupirsi, però.

- E il sigillo che porti sul guanto?

- Questo?

Chiese, sollevando la mano. Era molto più elaborato degli altri che avevo visto fino a quel momento, una sorta di croce con dei rami intrecciati e con delle sfumature che sulle prime non avevo notato, un’alternanza di chiaro e di scuro. Istintivamente, tesi le dita a toccarlo.

- E’ molto bello…

Osservai.

- E’ il mio giuramento di fedeltà.

Rispose. Lo guardai.

- Non togli mai la maschera?

- A un imperiale è concesso togliere la maschera soltanto a casa propria. Fino a che si è all’esterno, siamo tenuti a indossarla.

Mi chiesi se valeva lo stesso per Shemar, dal momento che l’avevo sempre visto senza. Anche le guardie che avevano trovato me e la mamma, nel mio mondo, non l’avevano, ma effettivamente, se avessero portato delle maschere anche lì, sarebbero risultati tutti sicuramente molto più sospetti, e dunque non avrebbero potuto portare a compimento la missione assegnata. Chissà se anche il professor Warren la indossava. Quando finalmente potei scendere e mettere i piedi a terra, mi stiracchiai con sollievo. Anche il mio accompagnatore smontò dalla groppa, poi accompagnò Lughoir a bere da una sorgente poco lontano. Io mi guardai intorno. Dalla luminosità del cielo, immaginavo dovesse essere pomeriggio inoltrato. Ma nonostante l’ora, non avevo sonno. Avevo dormito abbastanza, sebbene la stanchezza che avvertivo era di tipo psicologico, per la maggiore. Avevo scoperto così tante cose in così poco tempo, e non era trascorsa nemmeno una settimana da quando avevo lasciato la residenza di Amber.

- Quanto tempo è passato da quando mi hai trovata?

Domandai, quando tornò.

- Due giorni, all’incirca. Come mai?

Feci rapidamente due conti. Da quando eravamo partiti a quando ci eravamo fermati a Wiesen erano trascorsi tre giorni. La sera del terzo giorno c’era stata la finta festa a palazzo Devereaux ed erano trascorsi altri due giorni da quando Adam, il Fulmine d’argento, mi aveva salvata. In totale, erano passati cinque giorni, e prima della cerimonia ad Adamantio ne rimanevano soltanto due. Due giorni in cui avrei dovuto scoprire cos’era successo a Damien. In cuor mio speravo e pregavo con tutta me stessa che lui fosse ancora vivo, e che la spada di Liger non fosse intrisa del suo sangue. Era un pensiero orribile ed egoista, desiderare che un altro innocente fosse stato ucciso al suo posto, ma in quel momento, era il solo modo che avessi per non cedere al dolore ancora una volta. Era una soluzione di comodo, ne ero ben consapevole, ma l’idea di non rivederlo più era troppo straziante. Avevo ancora davanti agli occhi la scena della tortura di Livia, il suo sorriso sadico e divertito mentre i rovi affondavano nella pelle di Damien. Mi morsi le labbra al ricordo delle sue urla di dolore. Lui che era il despota della scuola, la persona più ammirata e temuta del liceo di Darlington. Lui che era l’amorevole fratello maggiore del piccolo Jamie. Il mio cuore batté più forte. Lui che era…

- La persona di cui ti sei innamorata?

Trasalii nel sentire una voce femminile, familiare, alle mie spalle. Mi voltai di colpo. Ero di nuovo nello stesso luogo in cui le pietre avevano portato me e Livia. Solo che stavolta, c’era la Croix du Lac. Aveva gli stessi lunghissimi e lucenti capelli biondi e indossava un leggero vestito bianco, che contrastava del tutto con il resto dell’oscurità, quasi a volerla squarciare. Lungo il braccio nudo, il tatuaggio scintillante che culminava nella Croce di diamante sulla mano.

- Croix du Lac!

Esclamai.

Mi camminò intorno con fare sicuro, poi si fermò davanti a me. Era più alta di almeno una spanna e il suo viso era molto dolce, a dispetto della crudeltà che era capace di dimostrare.

- E’ dura, vero? Perdere le persone che si amano… è così doloroso, al punto tale che ti senti morire anche tu.

Aveva descritto bene quello che provavo, ma che fosse proprio lei a dirlo, sembrava quasi l’ennesima beffa. Lesse il mio stato d’animo dalla mia espressione accigliata e poco disposta a darle retta, poi mi accarezzò gentilmente il viso. Aveva le dita gelide della morte, ma incredibilmente delicate. Non appena mi toccò, il tatuaggio si diradò di colpo nella mano, fino a diventare un minuscolo segno luminoso proprio al centro del dorso. Le sue dita riacquistarono calore, e il suo sguardo si fece improvvisamente più umano. Sembrava sofferente. Che si trattasse della ragazza che era stata offerta in sacrificio?

- C-Chi sei?

Le domandai con un po’ d’esitazione.

Mi guardò con infinita tristezza. Quegli occhi, così incredibilmente simili ai miei, li avevo visti in passato, sul volto di mia madre, quando parlava di papà.

- M-Mamma?

Domandai, incredula.

Scosse la testa e cercò di parlare, ma sembrava costarle fatica. Presi la sua mano, notando che tremava.

- P-Puoi fidarti di me!

Le dissi.

Dall’occhio sinistro scese una lacrima.

- A-Aurore…

Mormorò, con un tono sollevato e al tempo stesso preoccupato. Era come se non avesse tempo a sufficienza. Quella ragazza stava riacquistando coscienza, ma chissà per quanto tempo sarebbe durata.

- Coraggio! Ce la puoi fare! Sii forte, la sconfiggerai!

Esclamai.

- Qual è il tuo nome?!

Le chiesi.

- A-Arabella…

Arabella. Che nome gentile. Sorrisi. Avevamo le stesse iniziali.

- Arabella, fidati di me! Vedrai che riusciremo a eliminarla!

Scosse nuovamente la testa, poi posò la fronte contro la mia. Fu una strana, ma piacevole sensazione.

- Non ho molto tempo. Lei mi controlla. Quando raggiungerai Adamantio, lei si mostrerà al popolo e proclamerà l’ascesa del nuovo Despota. Devi trovare Jamie prima che accada. Lui è…

- Dove?!

Deglutì e respirò con fatica, mentre il segno sulla mano pulsava. Anche la mia ametista prese a pulsare a sua volta.

- I-Il palazzo di diamante. Loro sono… sono…

- Ho capito. Ho capito, Arabella! Grazie…

Sussurrai, chiudendo gli occhi e stringendo forte la sua mano.

- Ti prometto che farò di tutto per aiutarti!

- Lui… lui è vivo… ti prego… salvalo…

Mi chiese, in un ultimo, enorme sforzo prima di perdere il dominio di sé stessa e riconsegnarmi alla Croix du Lac, che si scostò da me inveendo.

- Arabella…

Disse cantilenando il nome. Io la guardai.

- A quanto pare non riesci a mantenere il controllo totale su quella ragazza.

Osservai. Replicò con uno sguardo pungente, che strideva con la bellezza e la dolcezza di quel viso.

- Questione di tempo.

Rispose, poi mi sollevò il viso con le dita, che erano tornate fredde.

- Non vedo l’ora di poterti incontrare di persona, Aurore.

Deglutii.

- Accadrà presto. Ma sappi che non ti lascerò fare il tuo comodo.

- Sai cosa mi è sempre piaciuto di te?

Aggrottai le sopracciglia. Lei sorrise.

- Esatto. Quello sguardo. Determinato e fiero. Esattamente lo stesso che aveva tuo padre, quando presi la sua vita.

Spalancai gli occhi in preda allo shock. Mentre Mente il viso sorridente della Croix du Lac scompariva dalla mia vista, mi ritrovai ad agitarmi, urlando, quando sentii le mani di Adam serrarmi forte per le spalle.

- Aurore!

Esclamò, e la sua voce forte mi risvegliò all’improvviso.

- Aurore, va tutto bene.

Ansimai, quando i miei occhi tornarono a vedere e il suo volto mascherato ricomparve alla mia vista.

- E’ stato…

Mugolai, spaventata e sconvolta.

- Un incubo. Sì, lo so. Sei svenuta di colpo, poco fa.

Mi guardai attorno. Eravamo nella radura ed ero seduta, sostenuta dalle braccia di Adam.

- Devo… devo andare…

Balbettai, cercando di sollevarmi, ma le sue mani furono più forti e mi tennero a terra.

- Non così. Sei troppo agitata.

Aveva ragione. Avevo il respiro corto e difficoltoso, e il torace mi faceva male. La Croix du Lac aveva ucciso mio padre…

- Assassina…

Sussurrai, scoppiando in un pianto dirotto. Strinsi forte il soprabito nero di Adam, piangendo disperata contro il suo petto. Lui non era nessuno di familiare, ma in quel momento, ero talmente sconvolta che desideravo soltanto potermi sfogare. Dapprima esitanti, le sue braccia mi cinsero e posò la mano col sigillo argentato sulla mia testa, accarezzandomi lievemente i capelli. Piangevo e piangevo, senza sapere come spiegargli la mia angoscia e il mio dolore. Assassina. Dannata assassina senza cuore che aveva strappato la vita della persona che più mi mancava al mondo. Per molto tempo non disse niente, ma si limitò soltanto a stringermi, fino a che le lacrime, che non volevano smettere di uscire, lasciarono il posto alla desolazione e al silenzio rotto soltanto dai miei deboli singulti.

- Va meglio, ora?

Mi chiese poi, quando mi calmai. Scossi la testa. Non andava meglio, ma cominciavo a sentirmi affaticata e stanca.

- Sin da piccola ho sofferto di incubi. Di recente, ho scoperto che si riferivano all’Underworld. Ma solo da quando sono qui sono diventati vividi al punto da poter interagire con ciò che vedo.

Spiegai.

- Non so nemmeno perché te lo racconto… scusami…

Aggiunsi. Avevo addosso anche una buona dose di mortificazione.

- Non hai niente di cui scusarti. Ciò che conta è che sia passato, adesso.

- Fino a che non si ripresenteranno. E’ sempre così. Quando abbasso le difese, in qualche modo, si insinuano nella mia mente.

- E sembrano reali.

Annuii. Evan mi aveva detto che nonostante fossero soltanto immagini della mia mente, ciò non toglieva il fatto che fossero la cosa più reale che stessi vivendo.

- La Croix du Lac. L’ho vista, di nuovo.

Non dette cenni evidenti di reazione, sospirò soltanto.

- Non importa, ora. Sei stanca, hai bisogno di riprendere le forze.

- Ma…

- Rimani qui, assieme a Lughoir. Nel frattempo, cercherò di trovare qualcosa per te.

- No. No, è rischioso! Se ti dovessero trovare…

Esclamai, preoccupata. Per quanto fosse una ex guardia imperiale e non conoscessi praticamente nulla sul suo conto, non volevo che corresse rischi, a causa mia, anche lui. Per qualche ragione che non riuscivo a comprendere, forse per via del fatto che gli dovevo la vita, forse per via del suo atteggiamento, temevo che potesse accadergli qualcosa.

- Stai parlando con qualcuno che si sa difendere.

Mi ricordò. Distolsi lo sguardo mestamente. Anche Evan e nostro padre probabilmente, anzi no, sicuramente, si erano difesi, eppure erano stati uccisi. Il pensiero mi gettò di nuovo nello sconforto. Tirai una cinghia del soprabito nero di Adam.

- Sarò di ritorno molto prima di quanto immagini.

Scossi la testa. Lui posò la mano sulla mia, sciolse la presa, poi si alzò.

- Lughoir.

Il grifone nero ci raggiunse.

- Rimani qui. Devi proteggerla. Hai capito?

Lughoir emise un verso d’assenso. Chissà, da qualche parte, il mio Harundia forse mi stava cercando. Adam accarezzò il manto scuro del suo compagno, poi si dileguò nell’oscurità della vegetazione circostante, lasciandomi da sola con il suo grifone. Lughoir si sedette accanto a me, poggiando il lungo muso sulle mie gambe.

- Vuoi farmi da guardia?

Domandai, accarezzando il manto morbido.

- Il tuo padrone è davvero una persona gentile…

Lughoir mi osservò con la coda dell’occhio marrone.

- Anch’io ho un grifone, sai? Si chiama Harundia. In realtà stiamo insieme da poco… e quindi…

Stiamo insieme… La persona di cui ti sei innamorata… in quel momento il mio cuore prese a battere velocemente. Posai la mano sul petto, sperando che i battiti in corsa si calmassero. Damien, la persona di cui mi ero innamorata? Com’era possibile che fosse così? Proprio pochi giorni prima avevamo litigato, e il suo comportamento era così altalenante da mandarmi in confusione. Forse era proprio quello il problema. Eppure, ogni volta che ero con lui, mi sentivo al sicuro. Ripensai alla mamma, a quando mi aveva detto che mi sarei accorta da me se avessi incontrato la persona giusta, ma erano successe così tante cose da quando eravamo nell’Underworld che non avevo avuto nemmeno il tempo di pensarci, benché meno di rendermene conto. Con l’altra mano, carezzai ancora il piumaggio di Lughoir. Mi ricordò quando mi svegliai nel cuore della notte a palazzo Trenchard e Damien era lì, addormentato vicino a me. Aveva trascorso al mio fianco tutta la notte, incurante del prendere freddo e per farmi sorridere, aveva imitato Evan. Strinsi le piume con forza, tanto che Lughoir protestò.

- S-Scusami!

Esclamai, mollando la presa. E poi, quando mi aveva abbracciata forte, dicendo che i miei occhi avevano la sfumatura dei lillà. Il colore dei tuoi occhi, non l’avevo mai visto prima. Mi aveva detto, a casa di Violet. Alzai lo sguardo al cielo. Dio, ti prego, fai che stia bene. Aiutami a ritrovarlo.

Non ero mai stata molto religiosa, ma cominciavo a capire cosa intendesse l’anziano quando mi aveva detto che privati della speranza, gli abitanti dell’Underworld sentirono il bisogno di votarsi a qualcosa di superiore. Ripensai ai canti di preghiera di quel mondo, e chiusi gli occhi, intonando la canzone che mi aveva insegnato la mamma, il canto di Adamantio. La mia voce risuonava nel silenzio di quel luogo pacifico, nella notte eterna, fino a che, esausta, poggiai la testa sul manto di Lughoir. Era così caldo e morbido che mi sembrava di stare appoggiata su un cuscino. Canticchiai più sommessamente, cercando di non addormentarmi. Oltretutto, avevo paura di poter rivedere la Croix du Lac. Dopo quello che mi aveva detto, non ce l’avrei fatta ad affrontarla di nuovo, in quel momento. Sperai che Adam tornasse presto. Avrei voluto chiedergli di mio padre, dal momento che non aveva potuto rispondermi quando gli avevo chiesto se l’avesse mai conosciuto. Sarebbe stato bello se così fosse stato. Cullandomi su quel pensiero, sentii che la stanchezza stava prendendo il sopravvento, quando Lughoir sollevò la testa, scostandomi. Si sollevò sulle zampe possenti, rizzando il muso verso la boscaglia.

- E’ il tuo padrone?

Domandai, alzandomi a mia volta. Avevo i crampi alle gambe, e per di più, ero affamata. Fino a quel momento non ci avevo fatto caso, ma una volta rilassatami, mi ricordai di non aver mangiato a lungo. Lughoir si voltò nuovamente verso di me, poi tornò a sedersi. Falso allarme. Mi sedetti nuovamente anch’io, cercando di non addormentarmi. Tuttavia, quando rividi Adam, la luminosità del cielo indicava che era mattina. Alla fine mi ero addormentata. Mi tirai su, dopo esser stata accoccolata nel manto piumato di Lughoir.

- Ben svegliata.

Mi salutò Adam.

Sbattei le palpebre. Avevo un leggero mal di testa, ma quanto meno la stanchezza era andata via.

- Grazie…

Mormorai.

- E’ giorno…

Osservai, guardando il cielo. Adam annuì, poi prese un paio di mele, allungandomele.

- Mh?

- Immagino tu abbia fame.

Le guardai. Erano scure, più piccole di quelle che ero abituata a mangiare. Mi ricordai la fiaba di Biancaneve. Quand’ero piccola, per il mio quinto compleanno, la mamma mi regalò un libro di fiabe. Amavo osservare i disegni, ma più di tutto, amavo ascoltarla mentre me le leggeva. Ogni volta che si immergeva nella lettura di una storia, sembrava quasi di assisterne alla proiezione come se si fosse al cinema, tanto era realistica. La mamma era davvero incredibile. E la fiaba che più preferivo era La Bella addormentata, che portava il mio stesso nome. Anche se a differenza di lei, il cui sonno era stato lungo e pacifico, ogni volta che mi addormentavo, io rischiavo di fare soltanto tremendi incubi.

- Non sono avvelenate, vero?

Domandai. Credo che le mie parole lo sorpresero, tanto che osservò le mele. Mi chiesi come si vedesse attraverso la maschera, data la poca luce. Poi, ne addentò una, trangugiandola senza problemi.

- E’ buona.

Confermò.

- Sembra che non ne mangi da un po’…

Commentai, prendendo l’altra, nel vedere il modo in cui gustava quel boccone. Rigirai la mia tra le mani, poi la addentai a mia volta. Probabilmente, data la facilità con cui era in grado di uccidere, non avrebbe avuto bisogno di avvelenarmi per togliermi di mezzo. Scacciai quel pensiero, notando invece che la mela era davvero saporita, a dispetto dell’apparenza. Tuttavia, riuscii a mangiarne solo un pezzetto, perché sentii subito una fitta allo stomaco.

- Che succede?

Mi domandò. Lughoir rizzò il collo. Io scossi la testa.

- Niente… è solo che ho lo stomaco chiuso…

Dissi, posando la mano dove sentivo dolore.

- Che vuol dire?

Posai la mela sul mio vestito logoro, abbassando lo sguardo.

- Succede, quando ti accadono cose brutte…

Confessai. Adam addentò un altro boccone.

- E’ molto tempo che non ne mangiavo.

- Eh?

Tornai a guardarlo.

- Ma il sapore è rimasto lo stesso. Il tempo passa, ma certe cose non cambiano.

- Non è sempre così…

- No. Ma almeno è confortante sapere che ci sono cose che rimangono le stesse. Dovresti darle un’altra possibilità.

Sollevai di nuovo la mela, guardando il segno del morso. Ne detti un altro, sentendo la dolcezza in bocca. Lasciai che quel sapore mi si diffondesse dentro. In quel momento, mi fu d’aiuto. Seguirono altri bocconi, fino a che lasciai il torsolo.

- Va meglio, vero?

Mi chiese, quando ebbi finito.

Ci pensai un po’ su, poi annuii.

- Grazie…

- Non ringraziarmi. Va bene così.

Si alzò, lanciando il resto della sua mela a Lughoir, che accettò di buon grado.

- Adam?

- Sì?

Non era più tempo di crogiolarsi. Avevo qualcosa di molto importante da fare.

- Riportami a Wiesen, per favore.

Adam studiò la mia espressione. Speravo di apparirgli più determinata che masochista.

- Hai qualcuno che ti aspetta, lì?

Pensai a Damien e a Leandrus. Chissà se nel sonno avevo parlato di loro. Annuii.

- Allora muoviamoci.

Rispose, afferrando le redini di Lughoir, che scalpitò. Fu così che lasciammo Challant per tornare a Wiesen.

 

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Lacus Clyne