Prologo
Si
svegliò con la
notte che già premeva
impaziente ai vetri scuri. Inforcò gli occhiali con una
lentezza esasperante e
si rizzò malamente a sedere massaggiandosi la nuca. Ancora
una volta, non si
ricordava dove si fosse addormentato la sera prima né
perché in quel luogo ci
fosse una tale puzza di aceto e alcool. Tentò di mettersi in
piedi ma un
braccio femminile gli si avvinghiò al collo trascinandolo di
nuovo giù. Senza
guardare in faccia la proprietaria dell’arto possessivo si
districò da quella
stretta indesiderata e finalmente riuscì ad alzarsi.
Intorno
solo mobili rovesciati, bottiglie vuote, resti di cibo e di vestiti e
qua e là
qualche individuo completamente sbronzo riverso su un fianco. Doveva
essere
stata proprio una bella bolgia quella del giorno precedente, proprio un
peccato
non ricordarne neppure un dettaglio.
Con
un po’ di fatica riuscì miracolosamente a reperire
le scarpe ed il cappotto,
dopo essersi accertato che fossero veramente i suoi dato che si sentiva
ancora
un po’ annebbiato, ed uscì spingendo a caso una
grande porta a vetri.
Fuori
tutto il gelo della notte lo investì come un pugno allo
stomaco e rabbrividì
negli abiti consunti che aveva addosso. Si strascinò
stancamente per le vie
innevate e semivuote evitando a malapena quei pochi passanti che di
tanto in
tanto gli passavano accanto e lo urtavano con sgarbo.
L’ennesima
notte di perdizione era appena che già un’altra
era in fermento nei bordelli
aperti lungo le vie. Vecchi bavosi che si affannavano dietro le gonne
ridicolmente corte di giovani donne. Disgustosi. La bellezza doveva
essere
accompagnata esclusivamente alla bellezza. Senza bellezza non
c’era alcuno
motivo di proseguire ostinatamente a vivere. Perso ogni fulgore
giovanile l’unica
via era la morte. Perché sottoporre un fisico ormai ridotto
all’ombra di sé
stesso ad una tale quanto mai ingiusta agonia. La bellezza e la
giovinezza
erano le uniche due buone ragioni per condurre
quell’esistenza insensata e
dolorosa.
E
lui le aveva entrambe, lo vedeva chiaramente negli occhi febbricitanti
di
desiderio di quelle estroverse dame che, mentre venivano strette da un
qualche
orribile individuo, gli lanciavano sguardi supplichevoli, implorando
una sua
qualche attenzione. Lo vedeva nelle vergini in fiore che poco sapevano
dell’amore
carnale quanto a profusione di quello puramente platonico.
Lo
vedeva anche in quei giovani fanciulli dei quali nessuno avrebbe mai
scoperto
le nascoste perversioni. Lo vedeva, lo sentiva, l’odore del
sesso.
Casa
sua non gli era mai sembrata tanto lontana come allora, che arrancava
ancora
imbacuccato nel cappotto di stoffa grezza. Uno strano senso
d’inquietudine lo
prese quando svoltò un angolo in una via deserta. Continuava
a voltarsi
indietro, tremebondo che qualche anima inquieta lo stesse seguendo, che
avesse
una qualche ombra gli fosse alle costole, per punirlo di quella sua
perdizione
ormai non più espiabile. Eppure ogni volta che il suo cuore
aveva un fremito,
quelle presenze sembravano svanire nel nulla e solo il vento con il suo
lento
soffiare gli ricordava il gelo dell’inverno.
Ad
un tratto però una delle sue paure sembrò balzare
improvvisamente fuori dalla
sua mente. E si adagiò sulle spalle di una figura davanti a
lui, veleggiante
sul sentiero. Una donna, anzi, una ragazza, vestita con solo una
camiciola di
stoffa leggera così bianca che si confondeva con la neve
stessa e così
trasparente da farla assomigliare ad un qualche elfo.
Il
freddo sembrava non scalfirla nella perfezione della sua figura,
piegata qual
volta a raccoglier rami intirizziti con una febbrilità
armoniosa. Lui, rimasto
impietrito da quella visione ultraterrena che quanto più gli
si avvicinava
tanto più gli pareva irreale, si lasciò sfuggire
un gemito di stupore e
confusione.
Cosicché
la giovine lo vide, ma il suo sguardo d’acqua lo
sorpassò, e si fermò in un
punto oltre le sue spalle. Tese poi le braccia candide aprendo piano le
dita e
si diresse nella sua direzione, come un sonnambulo che cammina in un
sogno noto
solo a lui.
-Chi
c’è?- domandò piano e finalmente lui
incontrò le pupille vuote che ormai non
conoscono più luce di due occhi ciechi.
-Chi
c’è? Chi c’è?-
ripeté agitando le braccia nel nulla. Con prudenza lui le
sfiorò
le punte delle dita, quasi con paura di poterla rompere tanto gli
appariva
fragile.
-Sei
tu Rin? Rin sei tu?- lentamente le sue mani diafane descrissero ogni
zigomo del
suo viso, soffermandosi qualche secondo sulle palpebre chiuse, per poi
scendere
dolcemente fino alla curva del collo, là dove iniziavano le
spalle.
-Tu…non
sei Rin- e questa volta non era una domanda.
-Mi
chiamo Luis. Luis Onorik-
Lei
soppesò un attimo quel nome sulla lingua come una caramella
dal gusto
particolarmente delicato.
-Luis…
io sono Wendy-