Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: habanerossosangue    01/08/2013    1 recensioni
Dal primo capitolo:
Qualcosa mi colpisce violentemente all'altezza dello stomaco, mentre i miei occhi, nascosti da ridicoli occhiali da sole [uno dei migliaia di modelli che lui mi ha comprato], scorrono velocemente sui loro volti pallidi, sconvolti, martoriati dalla paura di essere scelti [di morire]. Sono venuta per metterli in guardia da quelli che li attende, per cercare di salvargli [prolungargli] la vita. Ma le corde vocali non hanno intenzione di collaborare, la mia gola comincia a bruciare e pizzicare; l'aria non riesce a raggiungere correttamente i polmoni tanto che devo fare respiri veloci e piccoli. Come una foto, tutto si ferma favorendo l'ansia a impadronirsi completamente del mio organismo, facendomi vacillare sul mio intento di fare qualcosa di buono.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
IL CAMBIAMENTO [L'ESPERIMENTO]

------
 
La presa del soldato sul mio braccio era così forte da far bloccare la circolazione del sangue. Ci trascinarono fino ai parcheggi della scuola, dove sentivo addosso gli occhi di tutti gli studenti che ebbero il coraggio di affacciarsi dalle finestre. Raggiungemmo un furgone bianco con l'insegna della riforma, con quell'aquila rossa che da giorni vedevo in ogni singolo angolo della città. Cercai di divincolarmi in preda al terrore ma sentii la bocca di un'arma appena sotto le costole.
«Salite sul furgone! Muovetevi! E non azzardatevi a fare un passo falso!» gridò l'uomo che mi puntava la pistola.
Venni spinta dentro per ultima e mentre mi ammanettavano a una sbarra di ferro e chiudevano le ante riuscii a vedere, oltre la figura dei militari, Christopher che entrava in una nera macchina blindata con un sorriso stampato sul volto.
 
Il viaggio non fu per niente breve. Il tempo non passava mai. Sembrava che stessimo girando a vuoto.  Il furgone sballottava da un lato ad un'altro per le numerose fosse e noi eravamo costretti a sopportare il dolore delle strette manette che ci segavano i polsi. I soldati stavano seduti accanto ad ogni prescelto [vittima] impassibili al fastidioso tragitto che il guidatore decise di prendere. 
Guardai gli altri poveri ragazzi e vidi che erano emotivamente messi peggio di me. C'era chi continuava a piangere silenziosamente, chi ancora cercava di staccarsi dalla sbarra, chi guardava un punto fisso ormai rassegnato alla propria fine. Cosa potevo fare per cambiare la situazione? Assolutamente niente. 
Arrivati a destinazione ci fecero scendere dal mezzo allo stesso modo in cui ci fecero salire. La sede di tutta la rinascita [distruzione] umana era qualcosa di affascinante ma allo stesso tempo spaventosa. Un grattacielo triangolare fatto completamente in vetro, tranne i primi piani costruiti in mattoni neri rovinando la meravigliosa alternanza di luci e colori che creava il palazzo grazie ai raggi solari. Riuscivo a intravedere delle figure camminare per i piani e i mobili presenti nelle diverse stanze. Mi guardai intorno mentre i soldati cominciavano a farci strada verso l'enorme cancello presente, pochi metri prima dell'entrata della sede. Ci trovavamo nel bel mezzo del nulla. Eravamo circondati solo da una distesa giallognola con qualche filo di grano che spuntava dal terreno. Nessuno avrebbe avuto possibilità di trovare il famosissimo palazzo [prigione] del creatore e, altrettanto, nessuno avrebbe avuto la possibilità di tornare [scappare] in città. 
Arrivammo al potente cancello in ferro battuto notando dei sottili fili attraversare quasi ogni centimetro. Due soldati erano posti di guardia e appena videro i loro colleghi accompagnarci [trascinarci] uno di loro spinse un pulsante attaccato alla cintura. Sentimmo la chiusura elettrica di qualche marchingegno per poi vedere il cancello aprirsi automaticamente.
«Il perimetro e completamente ricoperto da una potente corrente elettrica. Provate ad infiltrarvi...o a scappare...e venite fritti come uova.»
Ci comunicò mentre rideva sotto i baffi come se la morte di qualcuno fosse un film comico. Mi fece rivoltare lo stomaco. Ci addentrammo nel grattacielo superando telecamere, guardie e ancora trappole umane. Quando finalmente oltrepassammo quella porta il cuore mi si fermò per qualche attimo, il tempo sembrò fermarsi e l'aria presente in quella specie di atrio sembrava bruciarmi i polmoni, non ottenevo abbastanza ossigeno tanto che dovetti aggrapparmi ad un'altra povera vittima prima che venissi spinta violentemente da un milite. Continuarono a trascinarci per corridoi bianchi, troppo bianchi e lindi per i miei occhi. Ci fecero entrare in un ascensore abbastanza grande da contenere una quindicina di persone, circondato da specchi in cui potevi vedere chiaramente il riflesso del terrore dipinto su di noi e, invece, l'indifferenza [arroganza] e serenità [felicità] di quella dei soldati. Cominciammo a scendere abbastanza velocemente e osservai nel piccolo schermo sopra i pulsanti dei piani le cifre che cambiavano ad ogni secondo che passava.
0
-1
-2
-3
-4
La discesa non aveva intenzione di terminare e il mio cuore non faceva altro che battere prepotentemente per uscire dal petto. 
-5
-6
-7
Quanto sottoterra era posto il luogo d' allenamento [laboratorio]?
-8
-9
-10
L'ascensore si fermò di botto, facendoci tutti leggermente sobbalzare. Le porte si aprono con un suono metallico e continuammo la nostra marcia verso diversi corridoi. Il cemento che ci circondava faceva sembrare quel luogo ancora più macabro. Ci chiusero in una stanza rettangolare per niente ospitale. I mattoni delle pareti posti uno sopra  l'altro in modo simmetrico, la luce al neon al centro del soffitto e l'unica sedia presente erano i primi avvertimenti del futuro che attendeva ognuno di noi. Quando ci fecero mettere in fila contro una delle pareti cominciai a non ragionare lucidamente. La paura [follia] si stava impossessando completamente del mio organismo e non riuscivo a scacciarla. Prima mi segue lontana avvertendomi che stava arrivando poi passo dopo passo si fa sempre più vicina fino a quando non si posiziona al mio fianco, fino a quando non si attacca per controllare le mie azioni. L'idea di intraprendere la strada della fuga si fece largo nella mia mente osservando la porta della stanza spalancata. Il mio cervello era completamente cosciente che non avevo nemmeno la minima possibilità di uscire viva di li, ma, di nuovo, quella stupida speranza di riavere la libertà, di avere una possibilità di sopravvivere dominava sulla razionalità della situazione in cui mi trovavo. I miei occhi saltarono su ogni cosa presente in quel buco sotterraneo non curanti di attirare l'attenzione di qualcuno.
I militari
La porta
Le armi attaccate alle uniformi
La porta
Gli altri ragazzi in preda al terrore
La porta
Il mio piede che si alzava leggermente da terra 
La porta
Christopher Knight che entrava nella stanza
Il sangue mi si congelò nelle vene. Avevo la bocca asciutta e un disperato bisogno di acqua fresca. Avanzò a passo strisciante [elegante] lungo la file di ragazzi squadrandoci da capo a piedi. Si sedette nella sedia e mettendo una gamba sopra l'altra come se fosse un re ci guardò con un falso [magnifico] sorriso sulle labbra. 
«Allora? Come vi sentite? Non siete eccitati all'idea di diventare i rappresentati del futuro
Mi sfuggì un piccola risata di sdegno dalle labbra e subito un soldato mi puntò la pistola alla tempia. Sgranai gli occhi e il cuore si fermò finchè Knight ordinò di non alzare le armi senza il suo consenso. Mi guardò intensamente per poi continuare a parlare facendo finta di niente.
«Da ora in avanti sarete sotto il controllo di una guardia. Appena uscirete di qui vi accompagneranno nelle proprie dimore finchè non sarete chiamati per..» fece una piccola pausa e notai che per una frazione di secondo i suoi occhi trapelavano inquietudine «per gli accertamenti sanitari» concluse velocemente per poi alzarsi e strofinarsi le mani come se avesse concluso un'affare «Qualche domanda?»
Ci fu silenzio quando una voce profonda si fece largo nell'aria asfissiante.
«Per quanto riguarda mangiare e il bagno, come faremo?»
Knight si mise una mano nella tempia con fare teatrale.
«Giusto! Dio, che mente abbiamo qui! Come ho potuto non pensare ai viveri e all'igiene?!» lo fulminò con lo guardo poi continuò «Colazione, pranzo e cena ve li porteranno direttamente nella camera le vostre... guardie personali» disse con un ghigno «Per quanto riguarda bagno e vestiario troverete tutto nella stanza. Altre domande? Sensate possibilmente.»
Questa volta una voce timida gli rivolse una domanda.
«A che servono questi accertamenti?»
Il volto si ombrò e prima di rispondere fece una risata di scherno.
«Ooh piano piano piano..adesso siete troppo curiosi..Lo scoprirete presto non preoccupatevi.» e mentre se ne andava disse «Il mio lavoro qui è finito. Arrivederci!»  
 
Dopo che mi divisero dal resto del gruppo un soldato mi portò nella mia nuova casa. Mi spinse dentro sbattendo la porta dietro le spalle. L'unica fonte di luce che mi permetteva di distingue gli oggetti all'interno era quella del sole fuori dalla piccola finestra nella parete difronte a me. Mi avvicinai ad essa notando dei piccoli filamenti che percorrevano l'estremità e le sottili sbarre. Non era concessa nemmeno una boccata d'aria in quel carcere. Sembrava essere tornata nella stanza di prima, solo che avevano aggiunto mobili: una brandina per dormire con una sedia accanto, un'asta con appeso qualche vestito [straccio], il neon al soffitto, una specie di tenda per coprire un mini gabinetto, un lavandino e una doccia forse non funzionante.
Restai chiusa in quella cella esattamente otto tramonti e sette albe. Il soldato che sistematicamente stava davanti all'unica porta d'uscita [di salvezza] mi porgeva i pasti. Entrava rigido, testa bassa senza mai alzarla, non concedendomi di guardarlo in volto, buona parte coperto dal capello militare. Posava delicatamente il vassoio a terra e velocemente usciva come se si nauseasse di stare un secondo di più nella stessa stanza dell'ennesima pedina. Ero curiosa di conoscerlo, di guardarlo, di venire a conoscenza di cosa passasse per la testa a coloro che lottano a favore della distruzione. Ma l'unica cosa che riuscii a memorizzarmi di quell'uomo era il fisico allenato, l'uniforme indossata alla perfezione e la nuca che mi mostrava ogni qualvolta usciva dalla camera. Nemmeno il suono della sua voce riuscii ad udire oltre la porta. L'intero piano era sempre immerso nel silenzio. Non scoprii se durante la notte continuava a svolgere il suo ruolo da sentinella, se dormiva seduto a terra o se qualche altro milite gli dava il cambio. Passai quei otto giorni nel totale isolamento. Guardavo sempre fuori dalla piccola finestra con la speranza che qualche martire sarebbe venuto a salvarmi da morte certa. Ma quell'aspettativa era ovviamente vana. Quando fui immersa nell'angoscia più totale di quel scorrere del tempo così lento, decisi di contare le mattonelle che costituivano la mia nuova [ultima] dimora, in attesa che finisse in fretta un'altra giornata. Erano esattamente 2028 mattoni, compresi quelli del soffitto e del pavimento. Ogni giorno prendevo una parete e contavo. Ricontavo per due volte per esserne sicura che il numero era esatto e poi sommavo il risultato con quello del giorno precedente fino a che arrivai alla conclusione che in quei otto giorni ero fissata da 2028 mattoni neri. Anche i pasti consumavo lentamente. Avevo paura che se divoravo il misero cibo che mi davano finivo col morire di fame. Ogni morso lo masticavo lentamente ricordando quanto amavo mangiare; ricordando che a casa mi ingozzavo fino a saziarmi, bevevo acqua solo a piatto finito e solo perchè mangiavo troppo velocemente da far rimanere tutto nella bocca dello stomaco, mi pulivo la bocca quando mia madre mi rinfacciava quanta poca compostezza avevo a tavola. Mi mancava casa mia, i miei genitori, i miei amici. Desideravo ardentemente fuggire.
All'alba del nono giorno ricevetti una visita. La porta si spalancò di botto. Saltai giù dalla misera brandina con il cuore in gola. Due soldati entrarono in sincronia e mi afferrarono le braccia. L'urlo che prontamente stava fuoriuscendo dalla gola venne fermato dall'artefice. Mi ero scordata quanto ribrezzo [meraviglia] mi provocava solo osservarlo. Ci fissammo negli occhi per qualche istante. Io con sguardo di sfida -non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi terrorizzata all'idea di quello che mi avrebbe aspettato oltrepassata quella porta-; lui con sguardo freddo, marcato da un velo d'ansietà. Un'ansia che mi fece vacillare. Per un'attimo ebbi la sensazione che cercasse di dirmi qualcosa.
«E' arrivata la mia ora?» dissi con voce rauca, già disabituata ad uscire dalla bocca, ma con tono orgoglioso.
Sospirò divertito.
«La tua arroganza non è per niente scemata. Non riesci proprio a parlare senza questa tua scenata da 'super eroina che non ha paura di niente'?»
«Dovrai farci l'abitudine.» risposi per poi subito pentirmene. Mi rivolse uno sguardo ghiacciale che, se era possibile, capace di bruciarmi la pelle.
«Come fai ad essere così sicura di te? Ad essere certa che riuscirai a sopravvivere?» disse a denti stretti avvicinandosi di qualche passo. Non aveva mai parlato così apertamente, così a bruciapelo, del progetto che aveva in serbo per i prescelti. Ripeteva sempre che ci sarebbe stato un cambiamento, ma mai un'accenno alle conseguenze o a quello che tutti dovevamo sopportare.  
«A che cosa dovrei sopravvivere?» domandai trattenendo il fiato.
Prese un respiro in risposta, chiuse gli occhi e quando li pose di nuovo su di me, la rabbia che aveva era scomparsa nel nulla.
«Te l'ho già detto che sei una ragazza alquanto interessante vero? Spero che avrò più tempo da passare con te...» confessò con voce maliziosa. Mi fece venire i brividi in tutto il corpo.
«Non perdiamo tempo!» concluse rivolgendosi ai soldati.
Mi portarono in una stanza simile a quella degli ospedali. Il lettino al centro illuminato da una grande lampada posta accanto e un carrello con tutto il necessario per un'operazione. Oltre i miei accompagnatori erano presenti altri soldati più due uomini in tunica bianca. Forse medici. I miei occhi trapelarono paura. Questo non riuscii ad evitarlo. Cosa mi avrebbero fatto? Mi avrebbero aperto il petto per fare qualcosa al cuore? Mi avrebbero operato al cervello iniettandomi qualche oggetto meccanico impadronendosi anche della mia mente? Mi avrebbero segato le gambe assicurandosi che non sarei fuggita? Dovevo scappare. Ma non ci riuscivo. Knight vide il mio terrore e senza battere ciglio ordinò agli uomini di mettermi nel lettino. Cercai di divincolarmi dalla loro presa ferrea ma senza risultati. Mi coricarono con forza e mi ammanettarono mani e piedi. Mi dimenevo urlando in quella specie di tavolino per cadaveri ma uno dei medici inserì uno strano liquido arancione nel braccio. Le forze mi stavano velocemente abbandonando. Le palpebre cominciarono a diventare pesanti e a malapena riuscivo a tenere gli occhi aperti. L'ultima cosa che vidi fu la bocca sottile di Christopher e la luce accecante del neon. L'ultima cosa che sentii fu la sua voce tremante seguita dal rumore di metallo contro metallo.
«Non morirai. Promesso.»
 
Mi svegliai di colpo e col fiato corto mentre quelle parole risuonavano nella testa. Era un'allucinazione provocata dalla pesante morfina che mi avevano iniettato. Non poteva essere altro. Mi alzai a sedere cercando di guardare in giro. Era tutto completamente immerso nel buio. Mi tastai il corpo in cerca di qualche segno dell'operazione ma niente. Ero ancora viva. Sorrisi non percependo più l'enorme peso che mi aveva soffocato per tutto quel periodo. Di scatto una luce giallognola venne accessa. Per il fastidio portai le mani agli occhi per poi scoprire che erano accuratamente bendati. Con mani tremanti toccavo la garza avvolta alla testa e l'ossiggino mi venne a mancare. Che mi avevano fatto agli occhi? Mi avevano tolto la vista? Con rabbia cominciai a strappare la bendatura.
«Fermati!» una voce severa ma allo stesso tempo amichevole mi bloccò. Non l'avevo mai sentita prima d'allora e soprattutto non sapevo a chi a appartenesse e questo mi faceva paura. Quale altra tortura voleva infliggermi quella serpe?
Sentii che si avvicinava e mi posò qualcosa sulle gambe.
«Sono ancora in via di guarigione. Non toglierti niente.» sospirò «avevo già cambiato la bendatura stanotte. Adesso dovrò rifarla.» borbottò fra se. 
Rimasi interdetta dalla tranquillità della sua voce. Ma non avevo intenzione di interromperlo. Ero come ammaliata a sentire quel suono. Aprì un cassetto poco distante, prese qualcosa e poi lo richiuse. Il materasso si piegò sotto il suo peso quando si sedette difronte e con delicatezza cambiò la garza che avevo strappato. Un profumo di dopobarba mi invase le narici.
«Ti ho portato la colazione.» aggiunse «Vuoi che ti aiuto?»
«Quanto sono stata priva di sensi?» sussurrai. 
«Ho capito ti aiuto.»
«Che mi hanno fatto?» chiesi. Ne seguì un breve silenzio poi un suo sospiro.
«Dove mi trovo?» continuai ma non ci fu nessuna risposta. «Dov'è Knight?» chiesi ancora, ma quel tizio stava completamente ignorando le mie domande «Perchè non mi rispondi?»
«Mi è stato ordinato di farti da baby-sitter. Per quanto ne sappia, non posso rispondere a nessuna delle tue domande.»
Mi mise tra le mani qualcosa da mangiare. Addentai senza esitazioni. Era un cornetto al cioccolato.
«Mi dici almeno come ti chiami?» insistetti seccata.
Come risposta ricevetti solo il suono di un piccola risata. 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: habanerossosangue