Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: RubyChubb    11/02/2008    9 recensioni
Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia esterna.... -RubyChubb-
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 7

 

Si era aggiornato.
Internet, tv e stampa.
Entrambi i tre grandi canali dell’informazione mediatica riportavano quasi all’unanimità il seguente titolo: ‘Farewell Tokio Hotel, Welcome to the next boy band’, per citare direttamente il ‘Daily Mirror’.
Eh sì.
Era successo.
Nessuna smentita e nessuna conferma.
Nessuna conferenza stampa.
Nessuna parola al riguardo.
No comment.
Strettissimo riserbo da parte di tutti i componenti della band e del loro staff.
Ma non ci voleva una laurea in scienze della comunicazione per comprendere cosa stava accadendo.
Cancellate le interviste programmate.
Cancellate le apparizioni televisive.
Cancellati i servizi.
Avvisaglie di cancellazione delle prime date del tour, ormai imminente.
Per essere sinceri, data la bassa prevendita di biglietti, una data italiana aveva subito un cambio di location e ben due date in Europa dell’est erano state messe in forse. Se si voleva essere davvero del tutto onesti, per la prima volta pochissimi concerti aveva fatto sold out. Neppure una delle date tedesche.
Era davvero passata la Tokio Hotel mania.
Passata come il monsone, ad essere ironici.
Erano arrivati, avevano portato un po’ di scompiglio, ma già al sesto album erano stati riposti nello sgabuzzino dei ricordi.
Le ragazzine che impazzivano per loro erano cresciute, avevano staccato tutti i poster, avevano cambiato modo di vestire, si erano iscritte all’università e non facevano più caso a loro. Magari addirittura si vergognavano di essere state loro fan.
Faceva un male cane realizzare tutto questo.
Straziava l’anima dentro.
Sapere che tutto quello per cui viveva era svanito lo faceva sentire vuoto, senza altri scopi nella vita.
Era nato con i Tokio Hotel, cresciuto con essi e, adesso che erano finiti a gambe all’aria… fino a due mesi prima non sarebbe stato in grado di pensare ad una cosa del genere.
Adesso la stava vivendo.
Sentì il cellulare vibrare sul comodino.
La sua mente, intorpidita ma perfettamente in grado di pensare, costrinse la sua mano ad uscire dal groviglio di coperte per prenderlo e rispondere. Non riuscì a leggere il nome che compariva sullo schermo, ma intuì perfettamente quale fosse e rifiutò la chiamata, restituendo al cellulare la sua posizione naturale.
Tornò ai suoi pensieri, alla sua depressione, alle sue coperte. Allungando l’orecchio, poteva sentire che la donna delle pulizie stava dando l’aspirapolvere in giro per il salotto. Aveva chiuso la porta della sua camera a chiave, da dentro, non sarebbe entrata a disturbarlo.
Di nuovo il cellulare prese a vibrare.
Aveva perso il numero delle volte che David lo aveva chiamato. Cinquanta? Settanta? Novantanove?
Rifiutò di nuovo ma, appena il cellulare ebbe toccato di nuovo il legno del comodino, tornò a vibrare.
Era l’ora di farla finita.
“Che cazzo vuoi David!”, gridò, rispondendo.
Georg… sono io, Helen…”, disse la voce femminile di lei.
Di tutte le persone che popolavano il globo terrestre, lei era quella a cui non aveva mai pensato dal momento in cui avevano rotto.
“Ah… ciao Helen…”, le disse, quasi annoiato, ma allo stesso tempo molto sorpreso.
Volevo… volevo sapere… ma se disturbo…”, fece lei, titubante.
“Oh no… tranquilla, è che non…”, disse Georg, ma gli si impastò la bocca.
Stavi dormendo, vero?"
“Beh… a dire il vero sì, ma non ti preoccupare, è l’ora di alzarsi.”, disse Georg e, con riluttanza, scansò le coperte e si mise a sedere sul bordo del letto, stropicciandosi la faccia.
Ho sentito, insomma, del gruppo e… volevo sapere come stavi.”, disse lei, con una voce così flebile che quasi non la sentì.
“Sto bene, sì… sto bene.”, disse Georg, poco convinto.
Sei sicuro?
“Sì, abbastanza.”, ripetè, con più sicurezza.
Vuoi parlarne?”, gli chiese Helen.
“Non mi farebbe male.”, disse, sospirando.
Davanti ad una tazza di caffè? Così magari ti svegli…”, disse lei, ridendo sommessamente.
“Sì, non è una cattiva idea.”, fece Georg.
Le disse che poteva passare nel tardo pomeriggio, o comunque quando fosse stata libera, e lei acconsentì.
Anche se avevano rotto in malo modo, quella chiamata gli fece un po’ piacere.
Parte di lui voleva parlare.
L’altra parte di lui…
Posò il telefono, si alzò dal letto ed andò a farsi una doccia.

  

Tutto era tornato al suo posto. Non c’erano più la barba incolta, i capelli spettinati, la camera in disordine ed il vago odore di scarpe che aleggiava nella casa. Tutto era stato lustrato a fondo, pulito e profumato. Quella casa non sembrava più il rifugio di un terremotato, né del bassista di una band della quale non si sapeva più nemmeno se esitesse ancora oppure no.
Dopo aver mangiato qualcosa, se ne stette per diverse ore davanti allo schermo del suo portatile, in cerca di qualche notizia in più che lo riguardasse. Solo voci, rumori, gossip, nessuna voce ufficiale. In ogni forum, in ogni rivista on-line o sito qualsiasi che parlasse di loro, ognuno aveva da dire la propria sul perchè i Tokio Hotel si erano sciolti.
Ma si erano davvero sciolti? Si chiese Georg.
Non poteva sapere le intenzioni degli altri, ma sicuramente vertevano su una risposta affermativa per quella domanda.
Più che ci rifletteva, più che si diceva che basta stop, la favola dei quattro di Magdeburg era giunta al termine.
Il campanello suonò alla porta, era arrivata Helen, interrompendo la sua divagazione mentale sull’argomento.
Si presentò sorridente e lui la abbracciò volentieri. Era stato carino da parte sua porgergli una spalla su cui aggrapparsi quando il resto del mondo sembrava sparito. Si era visto un paio di volte con Fabian, ma solo per qualche ora, perchè purtroppo il suo lavoro lo stava massacrando e, con grande rammarico, non aveva molto tempo da dedicargli… almeno lui aveva qualcosa da fare, pensò Georg, invece di starsene tutto il giorno a farsi seghe mentali, sdraiato sul letto... e non solo mentali...
“Grandi brutte occhiaie.”, gli disse lei, ridendo.
“Sì, purtroppo non dormo molto bene ultimamente.”, si giustificò Georg, mentendo spudoratamente perchè il dormire occupava il novanta percento della sua giornata, “Accomodati pure, vado a fare un po’ di caffè.”
Sparì per qualche minuto nella cucina, per tornare poi con un vassoio, su stavano cui due belle tazze di caffè fumante, zollette di zucchero e cucchiaini.
“Oh, grazie mille.”, disse Helen, prendendo la sua tazza.
“Non c’è di che… come va col lavoro?”, le chiese, prima di bere il suo caffè.
“Abbiamo appena finito i servizi speciali sulle settimane della moda di Londra e di Berlino… sono praticamente esausta!”, disse lei, col suo classico tono gioviali di cui lui non si era dimenticato.
“Come sarà la moda dei prossimi mesi? Dammi un anticipo!”, le fece.
“Il colore prevalente sarà il turchese, torneranno di moda i calzettoni al ginocchio e le scarpe basse… uno schifo, se vuoi la mia opinione!”, esclamò lei, facendolo ridere.
“Beh, non ho mai avuto un debole per il turchese…” disse Georg, “Penso che non comprerò nuovi vestiti!”
“Fai bene… piuttosto… Vuoi parlarne?”, gli chiese, con calma e serenità.
“Non c’è molto da dire.”, le fece, sorseggiando del caffè.
“A quanto leggo in giro sembra proprio di sì… ma perché non fate una conferenza stampa per smentire tutto?”, disse Helen.
“Perché…”, iniziò Georg, ma poi si bloccò.
“Stanno speculando in una maniera impensabile!”, riprese Helen, animandosi, “Ormai la vostra siete diventati come una telenovelas…”
A Georg scappò una risata a bassa voce.
“Se devo dirtela tutta, non sento nessuno di loro da diversi giorni. L’ultima volta che ci siamo visti è stato circa cinque o sei giorni dopo la live performance… e poi più niente.”, le rivelò Georg.
“Allora vi siete sciolti.”, ne dedusse Helen.
“Non lo so.”, rispose Georg, facendo spallucce, “Te l’ho detto, non sento nessuno di loro. E comunque rifiuto le loro chiamate.”
“Ah sì?”
“Sì… ho dei buoni motivi per farlo.”, disse semplicemente Georg.
“Mi dispiace…”, fece Helen, “Ma forse parlando con loro risolverete i vostri problemi.”
“Non credo.”, disse Georg, “Se avessimo voluto veramente risolvere in nostri problemi, lo avremmo già fatto… ma dato che siamo a questi livelli, penso proprio che non sia il caso di tornare indietro.”
“Ci avete almeno provato?”
“Io ho tentato… ma non è facile scontrarsi con delle mura di gomma, rischi solo di rimbalzarci e farti del male.”, disse Georg.
“Ma qual è il vero motivo di tutto questo casino!
", sbuffò Helen, "Non vorrai mica dirmi che quattro fischietti sono bastati per farvi mandate tutto a quel paese!”
“No, tranquilla, ci sono anche tante altre cose in sottofondo…”, disse Georg, grattandosi la fronte.
“E quali?”
Le lanciò un’occhiata di traverso.
“Sto iniziando a sospettare che tu voglia sapere queste cose per pubblicare poi un articolo sul giornale per cui lavori.”, le disse, cercando però di non far passare quella sua ipotesi come un’accusa.
“No, tranquillo!”, esclamò Helen, ridendo, “Non ho né microfoni né microspie addosso!”
“Lo sai che qualsiasi cosa detta da me non deve uscire di nuovo dalla tua bocca.”, le ripetè, sempre con il solito tono scherzoso ma comunque fermo e deciso.
“Sì, non me lo dimentico, puoi starne certo.”
L’importante era mettere le mani avanti prima di sbattere la testa, pensò Georg. Non che non si fidasse di Helen ma… Dato che certe notizie facevano gola a tutti, doveva tacere, e già aveva detto troppo. Certo, gli stava facendo bene sfogarsi con qualcuno. Ma data l’occupazione di Helen, era meglio drizzare le antenne e stare alla larga dal rivelare determinati dettagli.
“Mi dispiace per l’altra volta.”, disse poi lei, abbassando lo sguardo sulle sue mani, che giocherellavano con uno dei suoi anelli.
“Lascia stare, è stata colpa mia, non dovevo rivolgermi a te in quel modo.”, si scusò Georg.
“E io avrei dovuto richiamarti… ma ero troppo impegnata col lavoro e… poi ero ancora arrabbiata con te.”, proseguì Helen, con un lieve sorriso imbarazzato sulle labbra.
“Io ho fatto lo stesso.”, disse Georg, poi le porse la mano.
“Sì, meglio così.”, disse Helen, comprendendo che quel gesto era una sorta di riconciliazione da amici.
Quando entrambe le mani si lasciarono, ci fu qualche secondo di silenzio, quasi imbarazzato, in cui nessuno dei due trovava qualcosa di intelligente da dire.
Georg finì la sua tazza di caffè e la posò sul vassoio.
“Quindi… va tutto bene con il lavoro…”, disse, dato che la sua mente si era completamente svuotata in pochi secondi.
A dire il vero c’era una cosa ben precisa che incombeva nella sua mente, ma…
“Sì.”, rispose lei, con un sorriso stretto.
I suoi capelli biondi stavano legati in una coda di cavallo alta sulla nuca.  Aveva un maglioncino a collo alto nero, tinta unita, ed una giacca grigia con dei grossi bottoni neri ed una fascetta per tenerla ferma in vita.
Il nasino a punta, le piccola bocca, gli occhi verdi…
Le avvicinò una mano delicatamente al viso e la baciò, senza riflettere. Lei si liberò subito, discostandosi e guardandolo con occhi stupiti e quasi arrabbiati.
“Georg…”, disse poi, risentita.
“Scusami… non volevo, perdonami.”, disse lui immediatamente, pentitosi di quel piccolo gesto.
Al che fu lei a prendere il suo viso tra le mani e a baciarlo.

 

Mentre Helen si stava facendo una doccia in bagno, Georg ne approfittò per accendersi una sigaretta e fumarsela in pace.
Ne aveva proprio avuto bisogno.
Non della sigaretta.
Di quello che era venuto prima.
Non perché lo aveva appena fatto con Helen, ma semplicemente perché lo aveva fatto e basta.
Fatto davvero, nessun surrogato. Nessun menage a uno.
Completamente rilassato, con la spalla lievemente indolenzita per via di quei tre o quattro morsi che Helen gli aveva dato, se ne rimase a fissare il soffitto, in contemplazione della ragnatela che la donna delle pulizie non aveva tolto.
Nessun pensiero gli sfiorava la testa, a parte la possibilità di concedersi un bis, dato che lo scrosciare dell’acqua nel bagno lo stava stimolando di nuovo.
La sigaretta finì e venne spenta presto nel posacenere, sul comodino. Helen riapparve in camera con l’asciugamano legato sul petto e gli si distese accanto, appoggiando la testa sulla sua spalla. Gli dette un piccolo bacio sulla guancia e si mise, come lui, a fissare il soffitto.
“Hai una caramella?”, gli chiese, “Una di quelle gommose…”
“Non so.”, disse Georg, per il quale il dopo era sempre determinato da un lungo periodo di silenzio.
“Ah… accendo un po’ di tv.”, disse Helen e, guardandosi intorno, “Dov’è il telecomando?”
“Dentro al cassetto del comodino… dalla tua parte.”, le spiegò.
Nel mentre lei lo stava cercando, Georg ne approfittò per rivestirsi, stava iniziando a sentire un po’ di freddo.
“Cos’è questo?”, sentì dire ad Helen.
“Cosa?”, le chiese e, dopo aver indossato una t-shirt qualunque, si voltò verso di lei.
“Questo qui.”, disse Helen, porgendogli con sguardo divertito un libro.
Ancora quel libro.
“Lo sai cos’è.”, le rispose, tornando a sdraiarsi con noncuranza sul letto.
Lo aveva richiuso nel cassetto del comodino, come aveva fatto qualche tempo fa, per poi di ritrovarselo inaspettatamente dentro il borsone, pochi minuti prima dell’esibizione in unplugged. E lì lo aveva riposto ancora, dopo il piccolo 'screzio' con Mondenkind, capendo che quel coso, da quando lo aveva avuto in mano, non aveva fatto altro che mettergli strane idee in testa.
“Lo stavi leggendo?”, disse Helen, sedendosi a gambe incrociate sul letto ed iniziando a sfogliarlo.
“Un po’… me lo hanno regalato.”, le disse, mentendole in parte perché non aveva voglia di tornare sull’argomento. 
L’ultima volta che quel libro, ma soprattutto il film che ne era stato tratto, era entrato tra di loro, avevano rotto. Non che in quel momento fossero tornati insieme, assolutamente no. Ma tenersi Helen come una buona amica di letto non era una cattiva idea.
“Il film faceva schifo… figuriamoci il libro!”, sbottò Helen.
Poi si accomodò, appoggiando la schiena alla testata del letto, ammorbinendola con un cuscino, e prese a leggere qualche passo, in silenzio. Georg accese la tv con il telecomando che Helen si era dimenticata di prendere, attratta dal libro.
Si sistemò accanto a lei ma tra di loro c’era comunque una piccola distanza, quella classica che si aveva tra due persone, quasi estranee, ma che condividevano una sola cosa. Il sesso. Per il resto nient’altro.
“Non riesco a credere che la mia maestra delle elementari potesse credere nella demenzialità di queste parole.”, disse Helen, chiudendo il libro.
Georg, in un primo momento, non rispose, non era stato a sentirla.
“Diceva che il più grande insegnamento di questo libro era credere nei sogni, nella fantasia e nei desideri.”, proseguì Helen.
“Ne abbiamo parlato anche l’ultima volta che ci siamo visti e la serata non è andata a finire bene.”, le ricordò Georg, mentre saltava ininterrottamente da un canale all’altro.
“Sì, lo so… solo che quella volta ti sei arrabbiato. E stavolta no.”
“Perché dovrei farlo ancora?”, sbottò Georg.
“Perché parevi credere molto in quello che stavi leggendo.”, fece Helen, maneggiando il libro tra le sue mani, “Mi facesti capire che credere nei propri sogni era tutto nella vita.”
Georg fece spallucce e tornò al suo zapping.
“Ma i sogni spesso si infrangono… non è vero Georg?”, continuò Helen, alludendo evidentemente a quello che gli stava succedendo, “Quindi perché crederci? Prima o poi tutto finisce… e ne rimaniamo delusi.”
Come poterle dare torto, pensò Georg.
“Se non ricordo male”, fece Helen, “in questo libro il mondo della fantasia veniva mangiato ogni giorno dal cosiddetto Nulla. Non è così, Georg?”
“Sì…”, disse il ragazzo, abbandonando la tv ed il telecomando.
“E il Nulla… che cosa pensi che sia? E’ la realtà, Georg, che vince sulle stupidaggini. Cosa sogniamo a fare se poi tutto va sempre per il verso sbagliato? Bisogna prendere di petto la situazione ed andare avanti…”, disse Helen.
“Sei in vena di lezioni di vita, oggi…”, le fece Georg, che aveva visto scomparire tutte le possibilità di fare sesso per una seconda volta.
“La realtà ti ha raggiunto, ti ha mangiato…” continuò a dire Helen.
All’improvviso, Georg non potè fare a meno di pensare alle parole di uno specifico personaggio della storia. Quel personaggio, comparso anche nel film, si chiamava Mork. Nella trasposizione televisiva era un grosso lupo; sulla carta era comunque un lupo, però mannaro. In entrambe le versioni, era stato messo alle calcagna di Atreiu per catturarlo, per non farlo continuare oltre nella sua Grande Ricerca.
I due si erano incontrati nella città dei Fantasmi, detta anche Paese della Malagenia, ed ebbero una discussione fondamentale, forse la più importante di tutto il libro. Mork, il lupo mannaro, disse di avere la possibilità di poter passare da Fantàsia al mondo umano con semplicità, ma di  non appartenere né alla Terra, dove Atreiu avrebbe dovuto cercare il salvatore dell’Imperatrice, e dove lui aveva le sembianze di un essere umano, né al mondo di Fantàsia, dove invece era il mostro che Atreiu aveva davanti agli occhi. Disse di essere un servo del Potere, di quella forza oscura e maligna che sfruttava il Nulla per inghiottire Fantàsia, proiettandola sul mondo umano sotto forma di menzogne, paure, manie e disperazioni per assoggettare così il mondo degli uomini al suo completo controllo. 
'Che cosa siete dopotutto, voi abitanti di Fantàsia? Chimere, visioni fantastiche, immagini di fantasia, invenzioni del regno della poesia, personaggi di una storia senza fine! O forse che tu ti ritieni, in realtà figliolo?', disse Mork, dopo che Atreiu lui gli ebbe chiesto che tipo di menzogna sarebbe diventato se fosse caduto nel Nulla, che stava mangiando lentamente il posto in cui si trovavano insieme, 'Beh, sì, certo, qui nel suo mondo sei realtà. Ma una volta che sei passato attraverso il Nulla non lo sei più. Allora diventi irriconoscibile. Allora sei in un mondo diverso. Laggiù non avete più alcuna somiglianza con voi stessi. Voi portate nel mondo degli uomini accecamento e illusione. Diventate manie, idee fisse nella mente degli uomini, idee di disperazione là dove non c'è ragione di dipserarsi, immagini di angoscia dove non c'è motivo di angosciarsi...'
Quel libro era degno della trama di alcuni dei migliori film sul futuro catastrofico umano, pensò Georg.
Nel mondo degli uomini c’è una grande quantità di schiocchi (che naturalmente si considerano molto intelligenti e credono di servire la verità), zelantissimi nel convincere i bambini a non credere all’esistenza di Fantàsia. Chissà, forse sarai utile proprio a loro’, lesse Georg nelle parole di Mork.
Atreiu comprese allora che nessuno degli uomini voleva più venire a Fantàsia perchè tanto più la distruzione dilagava, tanto più grande diventava il fiume di menzogne che si riversava sul mondo degli umani. Ogni minuto che passava, quindi, allontanava sempre di più la possibilità che il figlio di Adamo, di cui lui era alla ricerca, venisse a salvarli, accecato dalle bugie e dalle manie.
Gli uomini avevano causato il Nulla, smettendo di sognare e di sperare.
Ed il Nulla stava arrivando per annientarli definivamente.
Avevano dimenticato i sogni.
Rinunciato alle speranze.
Perso la fantasia.
Ed Helen, in quel momento, con il suo sermone, pareva uno di quegli schiocchi zelantissimi nominati da Mork.
“Troverò un altro scopo nella vita, se è questo che ti interessa.”, disse Georg, stanco delle sue parole.
“Ecco, questo è un buon inizio.”, disse Helen, soddisfatta nell’aver sentito quello che voleva che uscisse dalla bocca di Georg.
Che palle, si disse Georg.
Pensava di essere lui il maestro della sua vita.
Di nuovo gli venne da fare un’altra analogia tra la sua vita e quel libro.
Avevano perso la fantasia: il nuovo album era esattamente uguale a tutti quelli precedenti. Non si erano rinnovati, non avevano dato spazio alle influenze da altri generi e si erano semplicemente lasciati trasportare dalla corrente, scrivendo pezzi che non avevano niente di diverso, stilisticamente parlando, da quelli pubblicati negli anni passati.
Avevano dimenticato i sogni: fare musica insieme, per sempre. Se lo erano promesso, a quindici anni.
Perso la speranza: non stavano facendo niente per rattoppare le loro vite, tornare a fare il sold out ai concerti ed avere riconoscimenti in tutto il mondo.
Il Nulla che loro stessi avevano generato, con i loro comportamenti sbagliati, adesso se li stava mangiando tra due belle fette di pane, magari anche con qualche condimento extra.
Era il momento di portare le scuse a qualcuno di sua conoscenza.

 

***

 

Quando vide Mondenkind rimase quasi spiazzato. Era talmente pallida che poteva benissimo essere trasparente. Era in piedi, stava catalogando dei libri mentre suo nonno fumava la sua pipa seduto sulla sua poltrona, assorto in una lettura.
Sembrarono non sentire il suono dei campanellini attaccati alla porta, quando lui entrò. Si voltarono verso di lui solo quando attirò la loro attenzione con un buongiorno, sventolando lievemente la mano destra, che teneva stretta il libro.
“Georg…”, disse Mondenkind, con una voce quasi inesistente.
“Ah… è arrivato il giovanotto!”, sbuffò subito suo nonno, mentre dalla sua pipa uscivano fuori anelli di fumo che si rincorrevano nell’aria, sopra la sua testa.
“Sì… sono proprio io…”, disse Georg, sorridendo a denti stretti.
“Allora me ne vado nel mio studio… così vi lascio soli.”, disse il simpatico vecchietto, alzandosi dalla sua amata poltrona e chiudendosi nello studiolo, insieme alla sua pipa e al libro.
I due ragazzi attesero che la porta si chiudesse per scambiarsi qualche parola.
“Sono venuto per… scusarmi. Per l’altro giorno, ovviamente.”, disse Georg, grattandosi la testa.
“Ti capisco benissimo Georg… ti ho innervosito con il mio atteggiamento un po’, come dire, da sapientona. Non volevo assolutamente passare per quella che dispensa lezioni di vita a destra e a manca. Ognuno deve fare ciò che vuole.”, disse  Mondenkind, chiudendosi nella sua felpina rosa, come se avesse avuto freddo.
Almeno lei aveva la maturità necessaria per capirlo, pensò immediatamente Georg, dopo essere tornato con la mente al giorno precedente, alla chiacchierata che aveva avuto con Helen.
“E comunque hai ragione… cosa ci potrai mai trovare in un libro come quello?”, proseguì Mondenkind, con una certa aria sconfitta.
“E’ proprio lì che volevo scusarmi.”, disse Georg, “Magari tu a questo libro ci tieni veramente, ci sei affezionata… tuo padre ti ha chiamato esattamente come l’Imperatrice! E io l’ho trattato come se fosse carta straccia!”
“Allora visto che ci tieni tanto… scuse accettate!”, disse Mondenkind, sorridendo.
Georg le porse la mano e lei, titubante, gliela strinse. Ma la tenuta di Mondenkind non aveva la benché minima forza, era debole. La sua mano era del tutto fredda, sterile e senz’anima.
Si stupì del cambiamento strabiliante che aveva visto nell’aspetto di quella ragazza. Dapprima era gioviale, la sua risata era contagiosa, la sua faccia era luminosa.
Adesso era l’ombra di se stessa.
Magari aveva solo bisogno di uscire un po’ di più all’aria aperta, di svagarsi, di conoscere nuova gente… di cambiare vestiti… di togliersi quegli occhialetti buffi… Di sicuro non le faceva bene passare tutto il suo tempo dentro a quella libreria, nella penombra, a trafficare libri antichi e vecchie edizioni. Se lei avesse accettato, le avrebbe fatto conoscere  un po’ dei suoi amici, così… tanto per toglierla di lì.
“Dovrei anche parlarti di un’altra cosa..”, disse Georg, sorridendole.
Lei ricambiò il suo sorriso con un espressione simile, ma molto stanca.
“C’è qualcosa che non va, Mondenkind?”, le chiese.
Non si sentì strano nel preoccuparsi per lei, dato che fino a quel momento il contatto più reale che aveva avuto con un essere umano, che non fosse stato se stesso, era avvenuto proprio con Mondenkind.
Una totale sconosciuta, l’unica cosa che aveva in comune con lei era quel libro, eppure quando si parlavano lei dimostrava sempre di capirlo, di accettare i suoi punti di vista. Silenziosamente, Mondenkind lo ascoltava, gli porgeva domande, lo faceva riflettere senza pretendere niente in cambio.
“Te l’ho detto, ultimamente non mi sento per niente bene.”, gli ripetè la ragazza, come aveva già fatto altre volte.
“Ma ci sarà un motivo per questo!”, esclamò Georg.
Poi un pensiero gli passò per la testa. E se avesse avuto una malattia di cui non voleva parlare?
“Non lo so che cos’è che ho… i dottori dicono che sto bene, che tutto sembra essere a posto. Ma non è così.”, disse Mondenkind, con aria rassegnata.
“Ti sei fatta fare degli esami? Degli accertamenti?”
“Sì… ho fatto tutto. Ma niente, non sono serviti a niente.”, disse Mondenkind.
“Per favore, siediti.”, le fece Georg, avvicinandoli e sostenendola finchè lei non si fu accomodata sulla vecchia poltrona.
“Forse uscire fuori da qui ti farà stare meglio.”, le propose, del tutto insicuro.
“No, non credo.”, disse Mondenkind, appoggiando la fronte sulla mano, “Qual è l’altra cosa di cui volevi parlarmi?”
Georg sospirò, cercando di organizzare la valanga di pensieri che era franata dentro la sua mente.
“Di un mucchio di cose… e forse di nessuna di queste.”, disse, sorridendo con amarezza.
“Cosa intendi?”, disse Mondenkind, con aria perplessa. Poi, con un cenno della testa, gli indicò un punto non precisato alle sue spalle, che si rivelò essere uno sgabello, abbandonato contro uno scaffale. Georg lo prese e si sedette davanti a lei.
“Beh… ho avuto una chiacchierata, ieri sera, con una mia amica…”, iniziò a dire Georg.
“Amica?”, lo interruppe Mondenkind, con sorriso lievemente malizioso.
“Sì, insomma…”, disse il ragazzo, abbassando lo sguardo con un certo imbarazzo, “Ed ho capito un paio di cose.”
“Quali?”
“Forse tutti i torti non ce li hai, Mondenkind.”, disse Georg, sorridendole.
La ragazza annuì concentrata con la testa, come per dirgli che poteva andare avanti.
“Vedi… forse ho ancora una qualche possibilità di tirarmi fuori dal Nulla in cui sono caduto. O meglio, siamo caduti.”, cercò di spiegarsi meglio Georg.
“Non ti seguo.”, disse Mondenkind, ma dall’angolino destro della sua bocca, voltato lievemente all’insù, Georg comprese che lo stava seguendo perfettamente.
“Mi dicesti che avrei potuto trovare una soluzione ai miei problemi tra queste pagine… Questo libro non è esattamente il manuale della felicità, ma sicuramente mi sta insegnando che, anche se la vita fa schifo, c’è sempre qualcosa che deve farci andare avanti.”
“E quale sarebbe questa cosa?”, chiese Mondenkind, sul cui viso non si celava più alcun segno di soddisfazione.
“I miei sogni.”, disse Georg, “Le mie fantasie. Finchè ho creduto nel mio sogno, cioè diventare un musicista per tutta la vita, niente è andato storto… ma quando ho smesso di crederci, o meglio, abbiamo smesso di crederci… tutto è finito in mille pezzi. Sembra una stupida frase fatta, una sciocchezza per qualunquisti, una dichiarazione moralistica. Ma è la verità.”
Mondenkind non proseguì con una domanda, o una semplice affermazione. Voleva che lui continuasse a parlare.
“Ma se ci metteremo insieme con l’idea di poter tornare a credere in quel sogno… E’ questa la soluzione che dicevi tu? Non è vero?”
Fu allora che Mondenkind reagì. Discostò la sua schiena dalla poltrona, si avvicinò sorridendo a Georg e gli posò delicatamente una mano sopra le sua, unite tra loro. Il contatto, inizialmente freddo e senza consistenza, si rivelò caldo e corposo. Georg sentì il calore dilatarsi a macchia d’olio dalle sue mani, diffondersi per tutto il suo braccio e disperdersi ovunque sul suo corpo, come se fosse stata una marea di acqua, che saliva vorticosamente seguendo l’influsso lunare.
“Forse lo è.”, disse Mondenkind, con voce pacata e serena, “Devi fare ciò che vuoi. E’ anche questo quello che il libro ti insegna.”
Georg rimase interdetto.
Pensava di aver dato la risposta giusta.
“Non lo hai letto fino alla fine, vero?”, disse Mondenkind.
“No…”, disse Georg, imbarazzato.
“Tranquillo, non ti metterò sul patibolo per questo… Adesso ti spiego: quando l’Imperatrice Bambina porta Bastian a Fantàsia per far rinascere tutto a nuovo splendore, grazie ai suoi desideri, gli consegna Auryn. E dietro di esso Bastian trova scritto: Fa’ ciò che vuoi.”
“Non sono ancora arrivato a quel punto…”, ammise Georg, “E comunque pensavo che il grande insegnamento di quel libro fosse stato credere nei propri sogni e nelle proprie speranze.”
“Si, lo è.”, ripetè Mondenkind, “Ma non bastano solo i desideri. Serve anche questo.”
Con la punta del suo dito indice, Mondenkind toccò la fronte di Georg.
Fa’ ciò che vuoi non significa fare letteralmente sempre quello che si vuole.”, riprese a spiegarsi Mondenkind, “Vuol dire che devi compiere la tua volontà. Seguire ciò che ti viene da dentro. Se vuoi che il tuo gruppo torni ad esistere, allora esisterà. Ma se non lo vuoi veramente…", disse lei, lasciando che la sospensione della sua voce fungesse da risposta, "E la risposta sta dentro di te.”
Georg riflettè su ciò che aveva appena sentito.
“Non lo so quale sia la mia volontà.”, rispose Georg, con amarezza, “E’ che… da una parte non voglio che tutto il lavoro che abbiamo fatto in questi anni venga sprecato così… ma dall’altra non posso dimenticare determinate cose. Determinate parole.”
“Ed infatti io non ti ho mai chiesto di darmi una risposta.”, disse Mondenkind, tornando ad appoggiare la schiena contro la poltrona.
“Già… anche questo è vero.”
“Dovresti pensarci molto bene, Georg.”
“Sicuramente lo farò.”
“Non c’è solamente la tua volontà in gioco.”
Era vero.
I Tokio Hotel non erano composti solo da Georg Listing.
C’erano bensì altre tre persone.
E non sarebbe stato facile.


Ecco, adesso cominciano le vere seghe mentali della Silvia sottoscritta. La storia inizia ad arrivare alla sua conclusione (che frase complicata....) e molte cose si stanno facendo intricate e assurde, molto difficili da spiegare per me, sapendo che molte di voi si fermano solo alla conoscenza del film. Sto provando a spaccare il capello in quattro per rendervi tutto più facile e per me, che devo ammettere devo ancora comprendere il significato di molte parti del libro, non è così semplice. 
Ma visto che ormai siamo in ballo, e che ballo, devo fare una buona esibizione, non vi pare?
Ieri sera, nella rilettura, ho cercato di spiegare al meglio ogni cosa, soprattutto la parte in cui viene citato, in corsivo, parte del discorso tra Mork ed Atreiu...0 Spero che tutte voi abbiate capito il nesso che c'è stato nella mente di Georg tra il libro e il personaggio di Helen, altrimenti sono ben felice si spiegarlo in un modo nuovo e migliore.

Attenzione ai particolari, ragazze mie belle
Questa frase avrei dovuto dirvela moooolto tempo fa, diciamo già dal primo capitolo... Attenzione alle parole, alle frasi, ai discorsi...
In questo capitolo sembra che non sia successo molto... ma invece...

Per questo capitolo salto i ringraziamenti ad hoc, stamattina ho un sonno che non me lo levo di dosso. Ma sappiate comunque che ogni vostra recensione mi fa molto piacere. Un grazie anche a tutte quelle che non hanno recensito ma che hanno semplicemente letto!

Alla prossima!

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: RubyChubb