I primi giorni del matrimonio non lo vidi quasi mai.
Ci eravamo stabiliti nella villa di campagna che i genitori di lui gli avevano regalato, e il mio novello sposo aveva subito chiarito che sapeva la vera natura della nostra unione. Disse che era d'accordo coi miei pensieri e che avrei potuto svagarmi nella proprietà senza timore che lui volesse comandarmi.
In quel momento gli fui immensamente grata; insomma, quale giovane sposa aveva la possibilità di cavalcare, leggere, passeggiare ed esplorare i boschi a suo piacimento?
I giorni volarono velocemente senza che io lo incontrassi mai al di fuori dell'edificio. Sapevo che lui passava molto tempo rinchiuso nel suo studio a lavorare, e ci trovavamo nella stessa stanza solo quando facevamo colazione, momento in cui lui mi chiedeva cortesemente cosa avevo pianificato di fare per la giornata e io gli chiedevo se voleva unirsi a me, qualche volta, inutilmente.
Non pranzai nè cenai mai con lui, restava sempre rinchiuso nel suo studio. Quando ne chiesi il motivo a un servitore, lui mi rispose che lo stesso padrone aveva ordinato che nessuno varcasse la porta di quella stanza, pena il licenziamento, e alcuna persona aveva mai osato trasgredire.
Non so quando iniziai a capire che c'era qualcosa di sbagliato, tremendamente sbagliato. Forse nel momento in cui notai le fortemente marcate occhiaie di mio marito, a colazione. Forse nel momento in cui iniziò a divenire pallido e la pelle del suo volto si fece tirata, mentre il suo fisico cambiava a vista d'occhio, diventando sempre più magro.
L'unica cosa certa è che nulla mi fu chiaro sino a quella tremenda malattia.