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Autore: lalla    06/10/2004    1 recensioni
Si tratta di un vero e proprio romanzo, da me scritto qualche anno fa. Dopo averlo riveduto e ritoccato, ho deciso di pubblicarlo. A puntate, naturalmente. Le tematiche? L'immortalità e la storia, tribolata, affascinante e misconosciuta, degli afro americani.
introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Baltimora, East Lombard Street, 30 Settembre Milleottocentoquarantotto

Baltimora, East Lombard Street, 30 Settembre Milleottocentoquarantotto

 

    Il sangue. Rosso, vischioso come colla, un mare che gli avrebbe riempito la bocca, poi il naso, e lo avrebbe fatto morire annegato, come quei disgraziati che s’ammazzavano e che, alle volte, venivano pescati nelle acque marce del porto.

    Il sangue. Un mare, come quando sua madre era morta, tanti anni prima, davanti ai suoi occhi di bambino, stroncata da un’ emottisi più violenta delle altre. O come quando  di quello stesso male era morta Virginia, la sua moglie bambina.

    Un bicchiere, e un altro ancora. Forse la marea sarebbe scesa,  la morte lo avrebbe risparmiato, non sarebbe annegato e non lo avrebbero rinchiuso dentro la cassa. Non lo avrebbero messo sottoterra, dove fa freddo, e lunghi vermi ti strisciano sopra, strappandoti brandelli di carne marcia con le bocche voraci e sdentate...C’è chi ci finisce ancora vivo, là sotto. I medici la chiamano catalessi, una parola greca che significa morte apparente. Il cuore si ferma, il respiro si congela nei polmoni, la pelle diventa pallida e fredda, le membra si fanno rigide e chi ti è più o meno caro piange qualche lacrima di circostanza, accende un paio di candele, quindi ti prepara un bel funerale con la cassa di rovere, i cavalli neri, la cappella di famiglia con gli angeli di marmo...E ti risvegli,  senti la puzza della terra e l’aria che ti manca, e i vermi che ti strisciano addosso. Sei vivo, urli. Nessuno ti ascolta. E tu urli, urli ancora tutta l’angoscia che ti porti dentro, e preghi  col poco fiato che ti resta perché arrivi presto a liberarti, la morte, quella vera.

    -Del bourbon.

    Ancora. Era ubriaco fradicio. Alcolizzato.  Arrivato al punto che  ormai bastava un bicchiere  di birra per farlo crollare. Ad Elmyra Shelton aveva giurato che avrebbe smesso, e l’avrebbe sposata. Ma, senza l’alcol, chi o che cosa avrebbe asciugato il mare di sangue che lo sommergeva fino agli occhi, scacciato via i vermi e le altre bestiacce che gli strisciavano sotto la pelle,  fatto dileguare l’odore marcio della terra smossa?

    L’oste aveva lunghi peli rossicci sopra le mani nodose, come gli oranghi assassini della Rue Morgue, e la fronte alta e bozzuta del Re Peste. La sguattera era pallida e magra, gli occhi febbrili di Madeline Usher, anche se era vestita di stracci e non di velluti. Perfino il Gatto Nero partorito dalla sua fantasia malata si era materializzato e gli si strusciava contro le gambe, o si fermava a fissarlo con l’unico occhio, immenso nel muso magro e feroce, giallo e scintillante come una lanterna da carrozze.

    Stava male. Avrebbe voluto dirlo ma, se avesse parlato, non gli avrebbero dato ancora da bere, forse l’avrebbero buttato fuori. Avrebbe cercato di tener duro, finché avesse potuto, malgrado il sangue che gli velava gli occhi e gli riempiva le narici e quelle immonde bestiacce che continuavano implacabili a scavare lunghe gallerie sotto la sua pelle. Del bourbon, della birra, dell’alcol, non importa cosa. Qualunque cosa che asciughi il sangue e cacci via i vermi che mi divorano vivo. Qualunque cosa che possa annientare il terrore che mi mangia l’anima...Non aspettatemi più Elmyra. Adesso so che non sono in grado di mantenere tutte le promesse che vi ho fatto. Non aspettatemi più.

    Un marinaio di colore lo guardava, appoggiato al bancone. Aveva una  vecchia giacca  di panno e basette a punta, e i denti gli scintillavano, bianchi e perfetti come quelli della sua Berenice nella faccia scura. Non doveva avere più di ventiquattro, venticinque anni, ed era bello, i lineamenti delicati e forti, gli occhi  neri che brillavano come  malachite, tutti spruzzati di pagliuzze d’oro.

   Il sangue. Gli scarafaggi, i topi. Li vedeva e li sentiva anche lui, il marinaio nero, così tranquillo, così sicuro di sé, la forza della salute e delle giovinezza dalla sua? Il mare è cattivo, lui pure, tanto quanto la terra che ti pesa sopra e te ne accorgi perché non sei ancora morto, e se non sono lunghi vermi sdentati a mangiarti vivo saranno granchi e pesci...

    Il gatto nero gli si era avvicinato, e gli si strusciava contro le lunghe gambe, miagolando lamentosamente e muovendo piano la coda. Lui gli aveva passato la grande mano bruna sulla testa, sopra il pelo irto della schiena, facendolo inarcare. C’era una curiosa affinità, tra il gatto e il marinaio, quasi una fratellanza di sangue o dell’anima, pensava l’ubriaco, tracannando l’ennesimo bicchiere, e l’alcol andava giù come fosse stato acqua, senza bruciargli dentro, senza ammazzare il tormento che gli rodeva il cuore e il cervello. Aveva visto morire i suoi genitori, due poveri guitti che si erano sempre tirati addosso poca salute e tanta miseria. Ma era stato adottato da persone benestanti, che gli avevano garantito affetto e sicurezza economica. Aveva frequentato l’Università, viaggiato, era un uomo di cultura e di talento. C’erano state, nella sua vita, delle donne che lo avevano amato. Ma c’erano inquietudini e paure che si ostinavano a rimanergli compagne fedeli, sempre e comunque, nonostante tutto. E c’era la bottiglia. E adesso il sangue, i topi, gli scarafaggi e i vermi...E’ la tua immaginazione malata, il cervello che ti si disfa nel cranio. Non anneghi nel sangue, non ci sono vermi che ti scavano gallerie nella pelle. La tua è una malattia indotta dall’alcol, si chiama delirium tremens. Una malattia che prima fa impazzire, poi uccide. Ti seppelliranno sottoterra, allora, e magari non sarai neppure ancora morto.

    Il gatto nero continuava a strusciarsi come una vecchia puttana contro i calzoni del marinaio. Uomo e animale, fratello e fratello...La morte rifiuta coloro che appartengono al Popolo dei Gatti. Non sono destinati a  invecchiare come me, che a quarant’anni sembro un vecchio decrepito, né tantomeno a diventare polvere e vermi, loro: i Gatti vivono per sempre.

    -Chi è? Sembra che stia molto male.

    -Un morto di fame, uno scrittore. E’ sempre ubriaco. Si chiama Edgar Allan... Poe, credo.

 

   Edgar Allan Poe morì pochi giorni dopo, abbandonato da tutti, presso l’ospedale dello Washington College.

 

 

   
 
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