Baltimora, East Lombard Street, 30 Settembre
Milleottocentoquarantotto
Il
sangue. Rosso, vischioso come colla, un mare che gli avrebbe riempito la bocca,
poi il naso, e lo avrebbe fatto morire annegato, come quei disgraziati che
s’ammazzavano e che, alle volte, venivano pescati nelle acque marce del porto.
Il
sangue. Un mare, come quando sua madre era morta, tanti anni prima, davanti ai
suoi occhi di bambino, stroncata da un’ emottisi più violenta delle altre. O
come quando di quello stesso male era
morta Virginia, la sua moglie bambina.
Un
bicchiere, e un altro ancora. Forse la marea sarebbe scesa, la morte lo avrebbe risparmiato, non sarebbe
annegato e non lo avrebbero rinchiuso dentro la cassa. Non lo avrebbero messo
sottoterra, dove fa freddo, e lunghi vermi ti strisciano sopra, strappandoti
brandelli di carne marcia con le bocche voraci e sdentate...C’è chi ci finisce
ancora vivo, là sotto. I medici la chiamano catalessi, una parola greca che
significa morte apparente. Il cuore si ferma, il respiro si congela nei
polmoni, la pelle diventa pallida e fredda, le membra si fanno rigide e chi ti
è più o meno caro piange qualche lacrima di circostanza, accende un paio di
candele, quindi ti prepara un bel funerale con la cassa di rovere, i cavalli
neri, la cappella di famiglia con gli angeli di marmo...E ti risvegli, senti la puzza della terra e l’aria che ti
manca, e i vermi che ti strisciano addosso. Sei vivo, urli. Nessuno ti ascolta.
E tu urli, urli ancora tutta l’angoscia che ti porti dentro, e preghi col poco fiato che ti resta perché arrivi
presto a liberarti, la morte, quella vera.
-Del
bourbon.
Ancora.
Era ubriaco fradicio. Alcolizzato.
Arrivato al punto che ormai
bastava un bicchiere di birra per farlo
crollare. Ad Elmyra Shelton aveva giurato che avrebbe smesso, e l’avrebbe
sposata. Ma, senza l’alcol, chi o che cosa avrebbe asciugato il mare di sangue
che lo sommergeva fino agli occhi, scacciato via i vermi e le altre bestiacce
che gli strisciavano sotto la pelle,
fatto dileguare l’odore marcio della terra smossa?
L’oste
aveva lunghi peli rossicci sopra le mani nodose, come gli oranghi assassini
della Rue Morgue, e la fronte alta e bozzuta del Re Peste. La sguattera era
pallida e magra, gli occhi febbrili di Madeline Usher, anche se era vestita di
stracci e non di velluti. Perfino il Gatto Nero partorito dalla sua fantasia
malata si era materializzato e gli si strusciava contro le gambe, o si fermava
a fissarlo con l’unico occhio, immenso nel muso magro e feroce, giallo e scintillante
come una lanterna da carrozze.
Stava
male. Avrebbe voluto dirlo ma, se avesse parlato, non gli avrebbero dato ancora
da bere, forse l’avrebbero buttato fuori. Avrebbe cercato di tener duro, finché
avesse potuto, malgrado il sangue che gli velava gli occhi e gli riempiva le
narici e quelle immonde bestiacce che continuavano implacabili a scavare lunghe
gallerie sotto la sua pelle. Del bourbon, della birra, dell’alcol, non importa
cosa. Qualunque cosa che asciughi il sangue e cacci via i vermi che mi divorano
vivo. Qualunque cosa che possa annientare il terrore che mi mangia
l’anima...Non aspettatemi più Elmyra. Adesso so che non sono in grado di
mantenere tutte le promesse che vi ho fatto. Non aspettatemi più.
Un
marinaio di colore lo guardava, appoggiato al bancone. Aveva una vecchia giacca di panno e basette a punta, e i denti gli scintillavano, bianchi
e perfetti come quelli della sua Berenice nella faccia scura. Non doveva avere
più di ventiquattro, venticinque anni, ed era bello, i lineamenti delicati e
forti, gli occhi neri che brillavano
come malachite, tutti spruzzati di
pagliuzze d’oro.
Il sangue.
Gli scarafaggi, i topi. Li vedeva e li sentiva anche lui, il marinaio nero,
così tranquillo, così sicuro di sé, la forza della salute e delle giovinezza
dalla sua? Il mare è cattivo, lui pure, tanto quanto la terra che ti pesa sopra
e te ne accorgi perché non sei ancora morto, e se non sono lunghi vermi
sdentati a mangiarti vivo saranno granchi e pesci...
Il gatto
nero gli si era avvicinato, e gli si strusciava contro le lunghe gambe,
miagolando lamentosamente e muovendo piano la coda. Lui gli aveva passato la
grande mano bruna sulla testa, sopra il pelo irto della schiena, facendolo
inarcare. C’era una curiosa affinità, tra il gatto e il marinaio, quasi una
fratellanza di sangue o dell’anima, pensava l’ubriaco, tracannando l’ennesimo
bicchiere, e l’alcol andava giù come fosse stato acqua, senza bruciargli
dentro, senza ammazzare il tormento che gli rodeva il cuore e il cervello. Aveva
visto morire i suoi genitori, due poveri guitti che si erano sempre tirati
addosso poca salute e tanta miseria. Ma era stato adottato da persone
benestanti, che gli avevano garantito affetto e sicurezza economica. Aveva
frequentato l’Università, viaggiato, era un uomo di cultura e di talento.
C’erano state, nella sua vita, delle donne che lo avevano amato. Ma c’erano
inquietudini e paure che si ostinavano a rimanergli compagne fedeli, sempre e
comunque, nonostante tutto. E c’era la bottiglia. E adesso il sangue, i topi,
gli scarafaggi e i vermi...E’ la tua immaginazione malata, il cervello che ti
si disfa nel cranio. Non anneghi nel sangue, non ci sono vermi che ti scavano
gallerie nella pelle. La tua è una malattia indotta dall’alcol, si chiama delirium
tremens. Una malattia che prima fa impazzire, poi uccide. Ti seppelliranno
sottoterra, allora, e magari non sarai neppure ancora morto.
Il gatto
nero continuava a strusciarsi come una vecchia puttana contro i calzoni del
marinaio. Uomo e animale, fratello e fratello...La morte rifiuta coloro che
appartengono al Popolo dei Gatti. Non sono destinati a invecchiare come me, che a quarant’anni
sembro un vecchio decrepito, né tantomeno a diventare polvere e vermi, loro: i
Gatti vivono per sempre.
-Chi è?
Sembra che stia molto male.
-Un morto
di fame, uno scrittore. E’ sempre ubriaco. Si chiama Edgar Allan... Poe, credo.
Edgar Allan Poe morì pochi giorni dopo, abbandonato da tutti, presso l’ospedale dello Washington College.