Eccoci al secondo appuntamento de "La ragazza sulla spiaggia"! Ringrazio di cuore i 18 lettori che hanno aperto questa Fic, spero di non deluderli con il secondo capitolo... pronti al risveglio dell'Uomo-bestia? Sono curiosa di sentire le vostre opinioni sulla storia, per favore lasciate pure le vostre impressioni nei commenti! Buona lettura! Yellow Canadair
Notturno con il naufrago
Era scesa la notte sul
mare, sulla spiaggia e sulla foresta. Lo straniero dormiva nel piccolo letto
della ragazza, sdraiato in diagonale perché entrasse in tutta la sua altezza.
La sua uniforme era stata appesa a un filo che correva da un pino all’altro,
davanti alla casa di legno e mattoni nel mezzo della foresta, e asciugava dopo
essere stata lavata con l’acqua del torrente che scorreva lì vicino. La porta
della casa era stata sbarrata per la notte, e sulla destra dell’unica stanza un
camino, acceso eccezionalmente nonostante non facesse freddo, illuminava
l’ambiente e lo rendeva più accogliente. Davanti al camino riposava un collie
dal pelo lungo bianco e nero, che teneva gli occhi fissi sullo straniero, nel
letto della sua padroncina dall’altra parte della stanza quadrata. La ragazza
aveva con fatica portato il naufrago in casa, aiutata dal cavallo, l’aveva
svestito e l’aveva adagiato nel suo stesso letto, visto che non ce n’era un
altro, e non c’erano nemmeno divani. Gli aveva ricucito con pazienza le ferite
e asciugato i capelli, e la probabilità che nella migliore delle ipotesi quello
fosse un assassino le attanagliava lo stomaco e le faceva tirare lunghi sospiri
pensierosi. Che poteva fare del resto? Lasciare che morisse lì sulla sua
spiaggia? Almeno rimettendolo in piedi poteva far sì che se ne andasse via
sulle sue gambe, sempre che non l’avesse ammazzata ovviamente. Le sue
precauzioni le aveva prese: aveva una pistola con sé, senza contare che Lancillotto,
il fido cagnolone, l’avrebbe difesa se lo straniero avesse alzato un dito
contro di lei.
Le faceva un po’ pena, era
così misero in quel povero letto; non era molto muscoloso, era piuttosto alto e
molto magro. Rea non aveva un animo vendicativo, e nonostante fosse a
conoscenza della potenziale pericolosità dell’ospite, lo aveva trattato con
dolcezza. Però aveva sonno, però non poteva lasciare che lo straniero si
svegliasse mentre lei dormiva: e se le avesse tagliato la gola con uno dei
coltelli della cucina? E se l’avesse violentata?
A mezzanotte passata lo
straniero cominciò a muoversi un po’. La giovane lo osservava, stanca e
preoccupata. A mezzanotte e mezza Lancillotto si alzò sulle quattro zampe,
attento e vigile e lo straniero spalancò gli occhi, piantandoli sulla giovane.
Cercò di levarsi con uno
scatto, puntando le mani sul materasso, ma Rea fu più rapida e gli mise una
mano sulla spalla fasciata; la sua forza era certamente inferiore a quella
dello straniero, ma riuscì comunque a non farlo alzare. -Calmo.- gli disse con
tono fermo. Il cane ringhiava contro il nuovo nemico.
Poi lo strano personaggio arricciò
le labbra, scoprendo i denti aguzzi. Sembrava minaccioso. Serrò i pugni
stringendo le lenzuola, e Rea si alzò a sedere sul letto, con le mani aperte
davanti a sé come ad arginare l’ira dell’ospite e difendersi allo stesso tempo.
-Calmo.- lo implorò la
padrona di casa, cercando lei stessa di non dare cenni di nervosismo. -Calmo.
Sei al sicuro, non ti farò niente di male.-
-Chi sei?- ringhiò lo
sconosciuto.
-Mi chiamo Rea. Hai avuto
un incidente, ricordi?- poi dette uno schiaffo a Lancillotto, che non la
smetteva di minacciare il naufrago, e allora lui rimase guardingo e immobile. Non
doveva essere molto rassicurante svegliarsi con un cane che ti ringhia contro,
le venne in mente. Lui annuì con il capo. Parla la mia lingua, pensò Rea. Un
problema in meno. L’uomo-bestia si toccò le fasciature; forse cercava di rendersi
conto delle sue condizioni. Rea lo lasciò fare. Poi squadrò lei da capo a
piedi, soffermandosi sulle mani, sul tatuaggio, sulle braccia. -I miei
vestiti…- sibilò. Aveva la voce roca, graffiante. I vestiti gli erano stati
tolti. Tutti. Rea non voleva bagnare il suo letto, né poteva far raffreddare
l’uomo con degli abiti bagnati. Però non aveva potuto rivestirlo con altro,
quindi gli aveva messo delle lenzuola addosso e aveva scaldato un po’ la casa
accendendo il camino. -Erano bagnati, li ho messi ad asciugare.- spiegò Rea,
cercando di mantenere un tono tranquillo, anche se sentiva la paura crescerle
in petto. Infatti il naufrago la gelò all’istante:-Sei una schifosa umana.-
disse digrignando i denti.
-Tu, bastardo...- Si alzò di
scatto e con freddezza gli puntò la pistola contro. -Così come ti ho ricucito
di posso anche fare a pezzi.-
-Dove mi hai portato?-
continuò il naufrago ancora iracondo, fissandola glaciale.
-Fai una mossa falsa e
sparo. Questa è casa mia. Dovevo lasciarti a decomporre lì sulla spiaggia?-
rispose aggressiva Rea. Il naufrago, come rendendosi conto della situazione
creata, distolse lo sguardo e si rilassò, e Rea abbassò la pistola. Ma che
razza di maleducato, cafone, ingrato, mangiapane, arrogante aveva salvato?
-No, certo…- sibilò
l’uomo-bestia.
I due notarono che una
delle fasce sulla spalla del naufrago si andavano arrossando. Rea cercò di
richiamare a sé tutta la pazienza di cui era capace. Salvarlo, si ripeteva, non
sbatterlo con la testa nel muro fino a creare un’uscita secondaria. -Non devi-
disse, forzatamente calma -Fare movimenti così bruschi. Non ho voglia di
ricucirti ogni giorno.-
-Nessuno te l’ha chiesto,
scimmia. Che ci fai in superficie?
-E tu che ci fai sulla mia
spiaggia? Sai quanto mi ci vorrà a togliere i tuoi stupidi rottami? Pensi che
soccorra stronzi per sport?- gridò ad un pelo dal naso del tipo. Poi sospirò,
che ancora bruciava di rabbia. Perché gli aveva fatto tanta pena? Non era certo
persona da meritare compassione. Prese una scatola di latta che comparve come
per magia da sotto il letto, e disse: -Adesso vedi di stare fermo e non
metterti a frignare.-
Svolse le fasce, mettendo a
nudo un taglio profondo che correva dall’estremità della clavicola fin quasi
all’omero. Era stato suturato con perizia, però all’altezza del deltoide i
punti avevano ceduto ovviamente, visto che lei non li aveva suturati col fil di
ferro, e che da un ferito ci si aspetterebbe che se ne stesse buono e fermo.
Prese un ago, e con un
fiammifero lo disinfettò.
Prese il filo.
Cominciò a lavorare, sotto
gli occhi freddi dell’uomo-bestia.
Quando finì, disse:- Cerca
di non muoverti. Non faccio miracoli.-
Si alzò in piedi e si
diresse verso un bacile con l’acqua che c’era lì vicino; era sporca di sangue
fino ai gomiti.
Il rabbioso ospite si
infilò sotto le coperte, meditabondo. Poi si voltò dall’altra parte e mormorò
tra i denti qualcosa di simile a un “grazie”.
-Cosa, scusa?- chiese Rea
voltandosi, dal lato opposto della stanza, pur avendo capito perfettamente.
-Grazie.- latrò lo
straniero ad alta voce, guardandola male. Comunque, Rea era soddisfatta, ma intanto
si chiedeva: come avrebbe fatto a dormire con quel tipo in casa? L’unica cosa
che non la preoccupava era un furto, perché a parte qualche coperta e qualche
pentola, non c’era proprio niente da rubare.
-Avrai fame.- azzardò la
ragazza senza lasciare la pistola. -Ho del latte con il pane.- propose al suo
ospite mettendogli vicino una scodella mezza piena e una pagnotta intera.
Sapeva che non era molto, ma non poteva permettersi di più, doveva mangiare
anche lei e non aveva intenzione di togliersi altro cibo di bocca per quel
tipaccio. L’uomo-bestia cercò di alzare un po’ il torso appoggiandosi al muro
che faceva da spalliera, prese quel cibo senza una parola e cominciò a mordere
avidamente il pane.
-E tu non mangi?- la
domanda fece sobbalzare Rea, che aveva approfittato di quel momento di relativa
calma per tirare un respiro di sollievo: il suo ospite non voleva (ancora)
ucciderla. Se mangio adesso, non avrò niente domani mattina, pensò lei. Mentì:-
No, ho mangiato prima.- lo straniero la guardò per alcuni istanti. Poi riprese
a mangiare. Però cominciò a strappare il pane con le mani, e non dalla pagnotta,
e ne lasciò un pezzetto.
Rea intanto spegneva il
caminetto, e accendeva due candele. Tornò vicino al letto, prese con
delicatezza il vassoio che il suo ospite aveva deposto per terra e ripose la
pagnotta avanzata nella piccola credenza, e lavò con l’acqua la scodella. Il
naufrago intanto aveva tentato di mettersi a sedere, ma decise che per quella
sera poteva accontentarsi di essere vivo e al sicuro. Poteva andargli peggio:
per come era stato ridotto dal combattimento prima, e dal naufragio poi, se non
avesse incontrato l’umana avrebbe rischiato di morire sulla spiaggia, tra i
suoi rottami, e se fosse finito nelle mani di un superstite di qualche sua
missione probabilmente sarebbe stato linciato. Invece, difficilmente sarebbe
stato ucciso o consegnato a qualcun altro dalla sua ospite, dopo essere stato
curato e sfamato, non avrebbe avuto senso. Forse non sapeva chi fosse. E chissà
dov’era; era ancora in estremo oriente?
Il suo compito, del resto,
era uccidere gli umani che uscivano dal sottosuolo. Però se quella ragazza non
fosse stata sotto al sole al momento giusto, lui sarebbe morto. Era un’umana.
Perché si comportava così? Perché lo aiutava? Possibile che non avesse mai
sentito parlare degli uomini-bestia, che terrorizzavano villaggi e paesi? Se i
suoi vestiti erano stati zuppi, sicuramente aveva avuto anche i capelli
bagnati… ma adesso erano asciutti, anche se rigidi di sale. Perché l’umana
l’aveva salvato? Tra l’altro, gli era bastato uno sguardo per capire che lei
non era ricca, e stentava a tirare avanti anche solo per sé stessa. La casa
sembrava costruita bene, aveva una zoccolatura in pietra che arrivava a circa
un metro da terra e poi era fatta di legno, con il tetto piano e le grosse
travi bene in vista che lo solcavano da un lato all’altro. Le finestre avevano
i vetri ed erano schermate dall’esterno con le gelosie, e dall’interno con
delle tendine a fiori. C’era un tavolo in mezzo alla stanza, ma non era di
legno, o di vetro: era costituito da un unico blocco di pietra, praticamente
uno scoglio, livellato in modo che avesse un piano perfettamente liscio e
parallelo al pavimento; le due sedie attorno erano tronchi d’albero cilindrici.
Non c’erano altri letti, non c’erano tappeti, né tende preziose e nemmeno
pesanti coppe come le aveva il suo generale supremo, pace all’anima sua. Invece
c’era un oggetto ricurvo e panciuto con un manico, che non aveva mai visto, e
una tavola lunga che arrivava fino al tetto, ovale ma con la punta, anch’essa
sconosciuta. Nonostante tutto però, la casa era accogliente: appesi alle pareti
c’erano alcuni quadri che raffiguravano barche di pescatori, case di contadini
con tanti bambini, danzatrici. Sulle mensole c’erano quelli che dovevano essere
piccoli tesori portati dal mare, come conchiglie piuttosto grosse, boccali
scheggiati che ospitavano fiori variopinti, scrigni dai quali traboccavano
pietre bianche.
Si adagiò di nuovo sotto le
lenzuola, aggrottando le sopracciglia mentre assaporava suo malgrado il calore
di quella casa.
-Come ti chiami?- gli
chiese all’improvviso l’umana, che si era seduta lontana da lui, dall’altra
parte della stanza, su uno stuoino sul pavimento, assieme al cane.
Per un attimo allo
straniero venne naturale dare un nome falso, poi pensò che era inutile. -
Viral.- disse. -Mi chiamo Viral.- poi chiuse gli occhi e si addormentò. Rea ne
approfittò, e decise di recuperare un po’ di sonno mentre lo straniero, di cui
non si fidava affatto, dormiva.
Lo straniero doveva avere
una tempra morale incredibilmente solida: al contrario di molti uomini, che da
atei convinti chiedono i sacramenti ogni volta che prendono un raffreddore,
quello lì non diceva una parola: non si lamentava, non chiedeva da bere e
nemmeno da mangiare. La ragazza doveva pregarlo per accettare un po’ di pane e
un po’ di pesce, e gli mise un secchio d’acqua vicino perché si servisse da
bere da solo, senza l’incombenza di chiedere a lei ogni volta. Stava nel letto
e quando non dormiva osservava i suoi movimenti in giro per la stanza. Quando
Rea, sospettosa, si chinò vicino a lui per toccargli la fronte, a controllare
se avesse febbre, cercò di spostarsi, di non farsi toccare; ma l’avveduta Rea
aveva già capito dagli occhi lucidi che l’ospite si sentiva meno bene di quanto
volesse dare a vedere...
Dietro le quinte della storia:
Il titolo del capitolo, "Notturno con il naufrago", strizza l'occhio al libro "Don Camillo" di Giovannino Guareschi, che ha un capitolo intitolato "Notturno con campane". Non c'entra granché con la trama della mia storia, anche se sia Don Camillo che Rea si trovano a tu per tu dentro casa propria con un pendaglio da forca; quello guareschiano però è ben più pernicioso da trattare, infatti finisce con lo sbattere la faccia contro i pugni del gracile pretino.