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Autore: RitaWhitlock99    14/08/2013    1 recensioni
«E la tua canzone zio quando è nata?» Stavolta fu Alice a rispondere:«Be', Nessie, mi sa che questa è una storia lunga: addirittura bisognerebbe svelare l'origine del nome "Jazz".» Jasper si infastidì, punto sul vivo: «Alice, non ti sembra di esagerare? Quella storia è...» FF incentrata sulla coppia Alice e Jasper: il loro primo incontro, tra rimorsi, segreti, pazzie e una montagna di blues, jazz e passione. passando per un'iniziativa insolita a casa Cullen!
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio, Clan Cullen, Jasper Hale | Coppie: Alice/Jasper
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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          Jazzies’
 





Pov Jasper- Capitolo 3

 


 


LA STRAGE DI PROSTITUTE E SENZA TETTO:
lo squartatore è tornato

 

Philadelphia- Non siamo a Londra tra i vicoli pullulanti di bar degli anni 20’, quando il brutale assassino Jacklo squartatore faceva strage delle donne di malaffare che incontrava, ma proprio a Philadelphia, la nostra città che ha dato i natali a grandi dello sport e del pugilato che adesso si ritrova ad affrontare un’emergenza senza precedenti. Infatti, da due settimane, lontano dall’ordine della City Hall, sta andando avanti un massacro di prostitute e senzatetto che ha molte analogie con il caso di Londra ma presenta anche alcune diversità: le vittime vengono ritrovate nei bidoni della spazzatura, nascoste tra i cespugli o semplicemente abbandonate in strada. Sono disoccupati, barboni alcolizzati, ladri, prostitute, tutti morti per una grave perdita di sangue: i corpi sono irriconoscibili a causa della gola squarciata e dei numerosi tagli presenti in varie parti del corpo. Ieri il numero di casi accertati è salito a venti: Jason Blade, Nettie Blouson, Ronald Geoffrey, Francis R. Broken, Gerald Cutter, Andrew Youngest, Charlotte Ashby e altri ancora non identificati.
La polizia brancola nel buio ma, secondo alcune indiscrezioni, l’ipotesi più accreditata sarebbe quella di un regolamento di conti tra bande per mano di uno spietato ed imprevedibile sicario che agisce sempre nell’ombra, di notte. Comunque, la paura di un nuovo e più temibile Squartatore che ricompone alla meglio i corpi delle sue vittime, è alle stelle: Philadelphia non è al sicuro, questo è l’unico dato certo.

 

                                                                                               R.M. Hawkins

 

 
“Che schifo” pensai. Non c’erano altre parole per descrivere tutto quanto stava accadendo:con “tutto” intendo un sacco di cose, personali ovviamente, e non di certo la qualità dell’articolo che era veramente pessima. The Philadelphia Inquirer non li valeva proprio quei 50 cent, soprattutto perché il suo tono era quello di un pettegolezzo di paese, un tono di falso panico e stupida retorica: in Texas li facevano meglio i giornali. Buttai il quotidiano in uno stracolmo cestino del parco e mi lasciai cadere sulla panchina: ero esausto di quella vita, delle righe che qualcuno iniziava a scrivere appena mi azzardavo a restare in una città per più di una settimana. Ma alla fine ero stanco soltanto di me stesso, solo che non volevo ammetterlo: lo stomaco che si contorce, il veleno in bocca, un urlo, il riso dei miei demoni che mi riempiva la mente mentre soffrivano, si contorcevano e poi… «Ehi, maggiore Jay! Per che cazzo hai buttata quel giornale? C’avrei rifatto il cuscino, sprecone: si vede che il grado te l’hanno regalato!» Risi, finalmente riscosso dalle mie macabre fantasie: «Fred, non fa niente: scommetto che questa bottiglia di scotch ti tirerà un po’ su!» Fred era un barbone. Punto. Il classico senzatetto sporco, lacero, perennemente ubriaco e sulla sessantina, in ogni caso l’unico amico che avevo qui a Philadelphia. Avevo lasciato Peter e Charlotte nell’Illinois, pensando di poter fare a meno del sangue umano, di uccidere e di farmi schifo: ma quel maledetto titolo di giornale mi metteva di fronte al fatto di essere un mostro in preda ad istinti troppo violenti per essere repressi. Certe volte mi meravigliavo (o meglio, il vampiro che era in me si meravigliava) di non aver ancora ammazzato Fred: comunque, in maniera debole e sottile, la mia parte umana (ne avevo mai avuta una?) piangendo pregava un po’ di affetto, un briciolo di speranza. Be’, io e quel barbone eravamo sulla stessa barca e ci facevamo compagnia come i compagni di cella: lui aveva perso il lavoro, per colpa di quella della suocera (non aveva mai digerito il suo matrimonio e poi era lei che orchestrava l’azienda), così l’aveva uccisa a coltellate, beccandosi trent’anni. Quando era uscito, poi, si era ritrovato al verde perché “quella zoccola” della moglie si era risposata e non aveva alcuna intenzione di riprenderselo in casa. A Fred, di rimando, raccontavo “in codice”, per così dire, la mia trasformazione, il mio stato di fuggiasco dalle battaglie: non conosceva il mio nome, particolare importante se hai la polizia in giro come le mosche, e per lui ero soltanto “il maggiore Jay”.
«Oh, Jay, ma dove diavolo hai preso questo scotch? Costa un occhio della testa, avrai dovuto ammazzare qualcuno per averlo.» Mi sentii una fitta allo stomaco: indigestione o rimorso? «Più o meno, Fred.» Mi limitai a rispondere. Rise e, sorso dopo sorso, dopo un po’ divenne completamente brillo: com’era fragile la natura umana e ogni suo singolo istante di vita. Stetti lì ad osservarlo mentre scivolava dolcemente nell’incoscienza, quasi un bambino cullato dalla madre, i solchi sul suo viso distesi, la bocca semiaperta: la pesante bottiglia gli cadde di mano, il petto cominciò ad alzarsi ed ad abbassarsi con regolarità e il suo cuore pompava, lento e regolare, il sangue nella giugulare scoperta. Era una visione malinconica, strana, in un certo senso, che mi ricordava la mia infanzia ad Houston. Ogni sera mio padre si faceva un bicchierino, si sedeva sulla seggiola traballante della cucina e mi parlava a quattrocchi, le sue appoggiate sulle mie esili spalle: «Jasper Whitlock, tu avrai un grande futuro: sei un animo nobile e coraggioso e hai carisma. Abbi sempre il senso della giustizia, figliolo, ma quando incontrerai un maledetto nordista non esitare a sparargli in fronte sulla zucca: uccidere il nemico, chi fa il male, è emanazione diretta della giustizia.»  Sorrisi al ricordo: un sorriso amaro come fiele. Quante volte avevo ucciso un nordista? Mai, nonostante la guerra. E degli innocenti? Sempre. Sospirai perché non sapevo il senso del giusto, non sapevo cos’ero diventato, non sapevo niente. Una campana in lontananza suonò le dieci di sera: si era risvegliato l’istinto, la bestia e le viscere si contrassero. No: per quella sera non avrei ucciso: era ormai troppo sordida la mia coscienza, non poteva sopportare altro, o almeno, altri “peccata mortali”. Così la notte e i tre giorni seguenti passarono a non far niente: far finta di dormire, comprare il giornale, darlo a Fred, parlare con lui del nonsenso della vita, andare in giro per la City Hall e riflettere, soprattutto, guardando il riflesso rosso del mio sguardo nei vetri rotti del quartiere. Cominciai a preoccuparmi quando il cremisi divenne pece: in questo modo nessuno mi avrebbe guardato storto e consigliato colliri per la congiuntivite ma significava anche che il bisogno si era fatto emergenza e non ero tranquillo. Non ci tornai proprio da Fred, al parco abbandonato: la paura di perdere il controllo attanagliava la mia parte umana ed eccitava a morte il mio lato oscuro. Continuai, quindi, a girovagare per i bassifondi di Philadelphia fino a quando non cominciò a piovere: non sarebbe stato per niente normale vedere un uomo camminare sotto la pioggia senza che facesse una piega. Mi sfuggì un’imprecazione e mi infilai in una bettola semideserta, dall’insegna chiamata “Jazzies’”. Appena entrato mi colpì un odore dolce, piacevole e soprattutto inumano che avevo imparato a riconoscere in decenni di combattimenti: in quella stanza c’era un vampiro, magari pronto a saltarmi addosso senza alcun preavviso. M’irrigidii, cercando di capire chi fosse per anticipare l’attacco: il mio sguardo si fermò su una ragazzina minuta, magrissima, la cui pelle diafana contrastava apertamente con lo scarlatto delle sue labbra sottili e con i capelli nerissimi, corti e sparati. Faceva finta di sorseggiare un cocktail e poi, senza farsi vedere dal barista di colore sulla sinistra, lo versava a poco a poco nel vaso di una pianta rattrappita. Furba ma anche divertente. Non sapevo come interpretare tutto questo, così feci qualche passo verso di lei. La sconosciuta si voltò verso di me, la sua voce un concerto di argenti: «Mi hai fatto aspettare parecchio.» Tutti i miei pensieri, i ricordi, la violenza, la notte, Maria, Charlotte, Peter, la morte, il destino, ogni cosa si frantumò sotto un unico eterno suono di una voce. Cenere. Fuoco e cenere, nient’altro senza consistenza specifica di essenze. Solo quelle poche parole: finalmente qualcuno, nell’inferno, aveva parlato e c’era qualcosa che mi bastava, non volevo altro che le ottave squillanti della sua voce. Ormai ero umano. No, no: di più. Non sentivo più la carne, la materia ma, all’improvviso, il mio odio per la condizione di assassino divenne più forte che mai e in un attimo ero solamente spirito. Guardavo la scena dall’altro, con cinica indifferenza: cosa mi aveva fatto quella ragazza, qual era il suo potere?! A giudicare dai risultati era una forza della natura, forse, positiva: non poteva essere così, impossibile! Un vampiro è condannato a marcire nelle cerchie più sperdute della profondità, non conta il suo aspetto o… Jasper, riprenditi: sei un animo nobile e hai carisma, allora controllati! Non avevo mai provato a manipolare le mie emozioni ed infatti non funzionò: basta! Qualunque mostro tu sia vai a quel paese! Non ti permetterò di distruggere questa pace fittizia che mi sono creato! Pensai. Ma poi il fuoco si spense e mi sentii addirittura in colpa per aver desiderato che quella creatura se ne andasse: non poteva farmi del male, lo sentivo. Avevo questa certezza dal profondo del cuore, perché, ad un tratto, mi ero reso conto che quel peso che avevo nel petto poteva essere qualcosa di molto simile ad un cuore: comunque, in quell’istante, una pena e un dolore fortissimi squarciavano la mia coscienza. Non sopportavo quello sguardo limpido, grande e quegli occhi… Un momento: erano dorati, liquidi ed enormi. Ma che diavolo… E la curiosità mi liberò dalla sofferenza: «Mi dispiace signorina.» Dissi, inchinandomi per riflesso.Sentii una mano piccola e liscia sfiorarmi la guancia sinistra, passando proprio su una spaventosa cicatrice: alzai lo sguardo, sorpreso ed interrogativo, verso la ragazza misteriosa. La creatura sorrise mai suoi occhi gialli erano belli e forti come il fuoco: «Non preoccuparti: sei perdonato, Jasper.» E mi offrì la mano. Io non respiravo più: tutto questo era accaduto in meno di dieci secondi, senza nessuna turbolenza d’animo apparente, troppo velocemente per me che avevo vissuto quasi un secolo. “Jasper”… Allora, questo era il suono delle lettere di una parola così torbida, così sudicia, così… Quell’accento lieve ma di una certa timbrica del Mississippi, poteva mai pronunciare le asprezze del Texas? Non lo sapevo ma afferrai quella mano e ricominciai a respirare: mi sentivo il volto rovente tuttavia, ricominciai a vedere seriamente. Tutto era libero dalla sofferenza, o almeno, ebbi la consapevolezza che poteva esserlo in futuro: sentii nascere la speranza. Cos’era la speranza? Il fuoco. Cos’era il fuoco? Il suo sguardo. Cos’era il suo sguardo? La mia unica ancora in un mare di sangue. Cos’era ogni cosa? Era lei. «Mai del tutto.» Risposi con una cadenza malinconica, abbassando gli occhi.
All’improvviso, lei scoppiò a ridere, una risata argentina, fine, di una dolcezza insostenibile, simile a quella di un’armonica a bicchieri. Per la prima volta la guardai, incatenai i miei occhi nei suoi, alla pari per la prima volta, due forze inestinguibili l’una dentro l’altra. Ritornò seria, il profilo sbarazzino ad un tratto fiero, quasi duro ma allo stesso tempo quel nasino all’insù troppo piccolo, come quello di un folletto: era un’armonia di eccessi quella ragazza, un equilibrio ilare che mi fece sorridere con spontaneità, stavo addirittura trattenendo una risata, la prima dal 1863. «Quando ridi sei bellissimo.» Buttò lei in mezzo senza alcun preavviso. Mi alzai dal mio inchino, presi la sua manina piccola e liscia e la sfiorai con le labbra: «Non quanto lei.» Lei la strinse nella mia e si alzò quasi danzando dallo sgabello, con grazia, il corpicino esile e magro (sicuramente letale) che emanava un’aura di vita, di forza di volontà straordinaria. «Se permette, signorina, lei è davvero incantevole quando mi guarda.» Dissi d’istinto. “Jasper! Ah scemo! Le buone maniere! Mai approfittare della confidenza di una donna, soprattutto se è una perfetta sconosciuta! Cosa… Cioè… Come potrà giudicarti?!” Pensai, angosciato. Scacciai subito quest’ultima affermazione: la ragazza non era una sconosciuta. Era una parte di me, me lo sentivo dal profondo del mio cuore ritrovato: lei… Lei mi apparteneva e io appartenevo a lei, era stato già scritto.
D’un tratto le mie fantasie furono interrotte da una porta che sbatteva: io e la creatura ci voltammo all’unisono, ancora mano nella mano. Nella stanza, da un ingresso sul retro, stava entrando una giovano donna di colore, sulla trentina: era alta, slanciata e anche piuttosto avvenente, come se fosse una ballerina. E a giudicare dalla nuvola d’aria calda ed eccitante, la signorina era furiosa: ormai mi stavo riempiendo di rabbia non mia. Conseguenza negativa del mio potere: immagazzinare emozioni e poi scoppiare al posto degli altri come un camion di benzina. «ALICE! Stramaledetta! Dove diavolo hai buttato i testi delle canzoni e la mia chitarra?! Non sai che stasera abbiamo (anzi, avevamo, visto che adesso è andato a puttane…)lo show qui al Jazzies’? È la prima volta che abbiamo un contratto decente dopo quelli da fame di New Orleans e Memphis e tu…» L’altra, ancora tenendomi la mano, le rispose vivace e persuasiva: «Si, si, Shug: okay, devo smetterla di giocare con la chitarra tanto sono una frana. Be’, mi sembra di averla lasciata con i testi nel camerino di Al: vai a vedere. Io adesso esco. » Shug si calmò da sola, senza bisogno del mio aiuto: «Senti, sorella: lo sai che ti voglio un bene dell’anima ma sai anche che i miei nervi non reggono più tanto bene.» La ragazza al mio fianco si fece piccola piccola, dolce: «Ehm… Shug! Ascolta: a proposito di nervi, oggi pomeriggio ho ordinato un po’ di… Ecco… Sherry, bourbon e non è che potresti…?» Intervenne il barista dal fondo della stanza: «Si, piccola: non è che potresti scucire circa 76 dollari e 37 cent?» La giovane di colore impallidì ma prese di malavoglia una mazzetta di banconote dalla tasca interna del vestito e si diresse verso il bancone.
«Anche i 37 cent?»
«Certo: non faccio sconti. “Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”»
«Stronzo…»
Ritornata indietro, sussurrò all’orecchio della signorina Alice: «Come se non lo sapessi che innaffi la pianta tutti i giorni… Almeno ordina una tanica d’acqua, altrimenti quella poverina sarà completamente ubriaca..» Poi alzò lo sguardo e si accorse della mia presenza: «Ehi, pupo! Tu chi sei? Alice quante volte ti ho detto di stare alla larga dai pugili di Philadelphia? È brutta gente e devi stare attenta: già questo che è un peso medio abbondante con uno schiaffo ti distrugge… E poi per difenderti alla fine ammazzi qualcuno, no? Allora, ragazzo: sei un pugile, non è vero? E di quelli che vincono…» Abbozzai un sorriso: «No, signorina: non sono me ne intendo di sport. Ho sempre fatto il soldato: di quelli che vincono e perdono coscienza.» Shug mi guardò con sospetto: «Sei un dritto, fratello. Mi puzzi ma sembri un gentiluomo… Del Sud?» Annuii: «Texas.» «Ah, l’avevo capito dall’accento, sai? Scommetto che laggiù in Texas con la tua pelle imbiancavano le pareti: comunque tu Alice avete lo stesso colorito. “Dio li fa e il diavolo li accoppia”: be’, trattala bene ragazzo.» E se ne andò sbattendo la porta per la seconda volta. La ragazza scosse la testa: «Oggi non sta molto a posto con il sistema nervoso, Shug:  giornataccia…» «Perché?» Domandai incuriosito. «Oh, un sacco di cose… Dai, usciamo: qui è pieno di spioni.» Si voltò di scatto e disse soave al barista: «Mike! Almeno passa ad asciugare un altro bicchiere: ormai lo hanno capito anche i muri che stai appollaiato lì dietro per farti i cazzi degli altri.» Mike cambiò bicchiere, imbarazzato: «Grazie, sorella.» «Di niente fratello: piccoli trucchi d’esperienza. Ci vediamo.» Ed uscimmo. Aveva smesso di piovere ma la coltre di nubi era ancora nera e spessa: unico lato positivo, ci proteggeva dal sole del tardo pomeriggio. Mi schiarii la voce: «Sa, non credo che una signorina come lei debba esprimersi con certe parole.»
«Quali parole?» Domandò, accigliata.
«”Cazzi”»
«Sei proprio un perfetto gentiluomo! Be’, in fondo hai ragione. Qui la vita è dura, vero, ma mai come quella che hai vissuto tu negli ultimi dieci anni: ogni parola obbrobriosa sarebbe da perdonare a te ma non a me. Hai ragione, ripeto: scusami.» Disse sincera.     
 




Mi scuso anticipatamente per il ritardo nel postare il capitolo ma il fatto è che i miei tempi di scrittura al computer sono ere geologiche '-.- Un ringraziamento speciale va a chi segue la mia storia, cioè a
chacot, jbone_mery, vampilly, nothanks e Scannawine : mi ha fatto molto piacere vedere che a qualcuno interessi la mio prosa noiosa e scontata, il mio gioco preferito per perdere un po' di tempo! Recensite in tanti: criticoni, "positivisti" e neutrali sono tutti ben accetti! Se leggete recensite! A presto,

RitaWhitlock <3


 P.S. Vi lascio con questo manga! *.*



 

  
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