Fanfic su artisti musicali > Big Bang
Segui la storia  |       
Autore: past_zonk    18/08/2013    2 recensioni
E, anche se in questo momento non riesci a ricostruire il tutto, non riesci a ricordare come ti sei ritrovato lì, in quel bunker, con un corpo freddo e pesante sulle ginocchia e le tue nocche bianche dallo sforzo di stringere la collottola della sua camicia, anche se non ti sembra possibile, e ti sembra tutto surreale, c’è un perché.
E c’è una storia dietro. E sarebbe oltraggioso non ricordarla, non ripercorrerla passo dopo passo. Sarebbe dimenticare, e se c’è qualcosa che hai imparato, è che dimenticare vuol dire scostarsi da quella persona, eliminarne il ricordo. E tu non vuoi eliminare il ricordo di Jiyong, non vuoi dimenticare quanto sia stato coraggioso, non vuoi che questa guerra finisca, le ferite del paese si rimarginino, e nessuno sappia del coraggioso Jiyong, di come ora sia freddo e pesante sulle tue ginocchia.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: G-Dragon, T.O.P., Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic


Ciao a tutti, eccomi tornata con il secondo capitolo di questa fanfiction. Non so. Non sono molto convinta di questo capitolo, è molto frammentario, e anche se negli anni mi sforzo sempre più di trovare uno stile romanzato un po' più classico, finisco sempre per dividere la storia in prospetti, ognuno per ogni personaggio.
Mi sembra un po' stentato, ma ok, non voglio stare qui a lamentarmi del mio stile.
E' anche un po' striminzito, ma è perché è uno di quelli che chiamo capitoli di passaggio.
Sono invece molto soddisfatta della parte finale del capitolo, mi sembra un'isola di salvezza prima di iniziare la vera storia. Dal prossimo infatti credo che la cosa si farà un po' più forte.
Ringrazio da morire, come poche volte ho ringraziato, avetrana. Non sai quanto sia onorata di emozionarti, scuotere qualcosa in te. Mi piacerebbe parlarti.
E poi Mini GD, che dice di non credere di meritare la dedica.
Illusa!
Ne meriti altre mille, te l'assicuro. Ti ringrazio da qui all'Africa e ritorno!
Detto ciò vi lascio al capitolo, spero di aver fatto un buon lavoro.
Spero di ricevere belle parole che mi facciano sentire meglio in questo periodo non proprio bello della mia vita.
 
Silvia.












 

Capitolo secondo.



Ad ogni respiro una nuvoletta di condensa gli appannava la vista; nella foresta scura, Youngbae osservava  nascosto sotto un albero  il buio che lo circondava. Aveva smesso di piovere da qualche minuto, e il cielo - anche se non visibile - era pregno di quell’umidità invadente che pareva penetrare nelle ossa.
Ansimava, accovacciato nel fango scuro.
In lontananza poteva ancora sentire i passi concitati dei soldati nemici che correvano a ritmo col suo cuore. Ogni passo che s’allontanava era un centimetro un più verso un’isola temporanea di salvezza, ma Youngbae non riusciva davvero a gustarsi quel pensiero, non con mille tremori che gli correvano lungo il corpo, non bagnato fino all’osso, non spaventato come mai.

Affondò più a fondo le dita nella fanghiglia, sentì il lerciume entrargli sotto le unghie, e poi più profondamente, dentro fino all’anima.

Una goccia d’acqua gli cadde sul naso e parve fare un rumore sproporzionato; la eco della sua paura.

Si disse di dover dormire, di dover resistere. Poggiò la testa contro la corteccia dell’albero, sentì che tutto era perduto, si morse il labbro con forza fino a sentire sulle labbra il sapore metallico del sangue; gli ricordava d’essere vivo.

Chiuse gli occhi per un istante, un lungo istante corniciato da immagini lontane e ricordi che nella sua mente giorno dopo giorno si facevano più sbiaditi. Il profumo di sua madre. Il sapore del dentifricio. Un letto caldo in cui dormire.

La testa si poggiò sulla spalla sinistra, come se cercasse conforto in se stesso; la stanchezza gli pervase gli arti, gli occhi si fecero sempre più pesanti.

Prima di addormentarsi, Youngbae pregò il cielo di poter sopravvivere a quella notte gelida.




Era una scena davvero strana, pensava il piccolo Seunghyun. Tanti anni ad odiare di essere trattato come un bambino, ed ora non voleva altro che sua madre continuasse ad abbottonare con cura la sua camicia. Era buffo, se non un tantino ironico. Teneva gli occhi bassi, Seungri, e pensava a tante cose senza senso. Come per esempio a quale paio di scarpe portare, oppure  se fosse stato diviso dai suoi hyung. Se li avesse visti, addirittura. Sarebbe stato troppo, vivere tutto quello da solo.
Seungri non era mai stato particolarmente coraggioso o orgoglioso; per questo aveva sorpreso se stesso quando s’era ritrovato a dire ‘
Vengo con voi, mi arruolo’ alla tavola imbandita della YG, guardando il resto dei Bigbang. E aveva persino sorriso nel dirlo, come se fosse l’ennesimo tour da intraprendere.
Era stato allora che Youngbae s’era alzato dalla tavola ed era letteralmente scappato verso camera sua. E dopo qualche minuto s’era alzato anche lui, evitando gli sguardi penetranti di Top, sguardi accusatori, sguardi che dicevano
‘non puoi’, e le dita di Jiyong che, bianchissime, si torcevano nervose.
S’era diretto verso camera di Youngbae e l’aveva trovato sul letto, l’avambraccio a coprire gli occhi, una lampada rotta sul pavimento, il fiato pesante.

“Youngbae-hyung” aveva lentamente pronunciato.

“Va via” era stata la risposta roca del suo hyung. Sembrava avere un macigno sulle corde vocali.

Seungri pensò che la sua vita non era né uno stupido libro, né un drama, e fu per questo che fece come gli era stato detto. Tornò sui suoi passi, ed uscì dalla camera.

Dal corridoio, poi, aveva sentito un urlo di frustrazione, e qualcosa infrangersi contro il muro. Quella notte ci aveva pensato a lungo.

“Seunghyun!”

Sbatté un paio di volta le palpebre, per focalizzare il suo sguardo sul volto di sua madre.

“Sì, mamma”  - le dita gentili di sua madre gli sfiorarono i capelli nerissimi.

“Sono così fiera di te” gli disse, un torpore affettuoso negli occhi. Seungri la abbracciò forte, fortissimo, si lasciò accarezzare la nuca da lei, proprio come quando era un bambino: e  dopotutto non si sentiva diversamente.  Un bambino che sta provando a saltare un burrone troppo, troppo aldilà delle sue possibilità.

Non era la prima volta che rischiava il tutto per tutto, ma questa volta, il ricordo delle vittorie passate non gli dava alcuna sicurezza. Il suo nome era Seungri, Vittoria, eppure si sentiva, tra le braccia di sua madre, un completo, totale perdente.




Il treno sbuffava irrequieto, così come pure i suoi ben cinque controllori. Camminavano scalpicciando i loro stivali di pelle alti al ginocchio, un elemento al quale Youngbae aveva subito fatto attenzione. Uno pensa che non ci sia mai spazio nella propria mente per pensieri inutili, in situazioni come queste, e invece sbaglia. E’ proprio in questi momenti che ti lasci pervadere dai particolari irrilevanti.

Urlavano ad alta voce i nomi delle persone richieste. Youngbae non aveva ancora sentito il nome di nessuno dei suoi amici o conoscenti, il che non faceva che renderlo ancora più nervoso. L’aria era freschetta, e la sua camicia blu scuro non bastava a coprirlo. Sua madre l’aveva rimbeccato fino all’ultimo momento, e lui era rimasto in silenzio, facendo finta di non sentirla.

In realtà non aveva avuto  il coraggio di aprire la bocca e dirle che, qualsiasi cosa avesse indossato, non sarebbe cambiato granché. Di sicuro i suoi vestiti non avrebbero fatto alcuna differenza. Li avrebbe cambiati per qualche divisa militare, che si sarebbe sporcata e deteriorata come anche lui stesso. Una divisa uguale a quella di tutti gli altri. Come pure, forse, la sua sorte.

Era stato nervoso, in quei giorni. Le dita gli tremavano quasi sempre, non riusciva più a concepire come ballare o cantare, il che lo spaventava. Passava quasi tutti i suoi pomeriggi davanti la televisione, a denti stretti, ascoltando i notiziari senza però  concentrarsi particolarmente. Non gli importava davvero di quella guerra.

In uno di quei pomeriggi, gli aveva fatto visita il piccolo Seungri, insieme a Daesung. I suoi dongsaeng sembravano stessero affrontando la cosa decisamente meglio di lui, il che lo irritava ancora di più. Com’era possibile?

Avevano visto un film insieme nel suo appartamento, una commedia americana di qualche genere a cui Youngbae non aveva prestato per niente attenzione. Aveva guardato gli altri due per quasi tutto il tempo, perdendo contatto con la realtà.

Era Seungri quello che guardava di più.

Il suo volto sereno non lo rassicurava, anzi, gli faceva sentire sul palato un sapore amaro. E senza che se ne rendesse conto, anche Seungri s’era voltato a guardarlo, Daesung ormai addormentato ai piedi del divano, con un cuscino rosso fra le braccia.

L’espressione serena era scomparsa dal suo volto, ora ricambiava quello sguardo con preoccupazione.

“Hyung...tu non vuoi che io venga, vero?” disse, a bassa voce, osservando la moquette.

Il fiato di Youngbae si spezzò.

“Ovvio che non voglio!” esclamò, d’istinto, in un secondo, sgranando gli occhi nervosi. La naturalezza con la quale aveva risposto lo colpì come uno schiaffo. Abbassò lo sguardo alle mani nervose di Seungri, pensò di essere stato un po’ violento.

“E’ la tua vita...comunque” continuò, raggrumando tutta la sua amarezza in quell'ultima parola.

“Allora perché continua ad importarti così tanto?” chiese.

Le parole volarono via dalla mente del più grande. Perché, chiedeva Seungri? Non lo sapeva.

Mille probabili risposte sarebbero state plausibili - sei come un fratello, mi preoccupo per te, penso alla tua famiglia, sei troppo giovane -, ma nessuna di loro gli sembrava abbastanza.

“Puoi...puoi non domandarlo?”

E si ritrovò all’improvviso un grosso peso sul petto, come se l’aria gli fosse stata rubata da un fantasma invisibile.

Seungri s’avvicinò impercettibilmente “Allora sarai tu a dirmi quando domandartelo?” e nel suo volto c’era qualcosa di incredibilmente ironico, in un’accezione negativa.

Youngbae si ritrovò a balbettare, confuso, e poi ad annuire, serioso.

Il treno sbuffò ancora, e un ragazzino minuto salutò timidamente  Youngbae passandogli accanto. Per un attimo aveva pensato di vedere Jiyong, in quei vestiti decisamente troppo anonimi per lui.  Probabilmente era un fan, qualcuno ancora disposto ad ammirarlo, qualcuno per cui contava ancora qualcosa il fatto che lui fosse un membro dei Bigbang.
“Kang Daesung!”

Youngbae scattò al nome dell’amico; si voltò a guardare il controllore che l’aveva urlato, corse verso di lui e aspettò a pochi metri l’arrivo del suddetto.

Un sospiro di sollievo fiorì nel suo petto quando vide che era davvero il Daesung che conosceva, accompagnato da Jiyong. Youngbae si sentì un pochino meglio.
Non era solo, e non era poco.








Seunghyun osservava Seungri dormire, seduto affianco a lui in quel vagone troppo stretto. Era stato davvero esausto, quando alla fine s’era arreso e aveva poggiato la testa sulla spalla, crollando. Seunghyun ne era felice: per un po’ si sarebbe alienato da quella situazione così strana.
Chissà gli altri dove si trovavano...

Si sentiva fortunato ad aver trovato Seungri, e sperava che anche gli altri avessero avuto la stessa fortuna; sopratutto Jiyong - sperava che lui non stesse affrontando quel viaggio da solo.

Sospirò, Top,  sentendo i principi di un’emicrania spandersi.

Cercò le cuffie nelle tasche del suo cappotto, e sperò facessero il proprio lavoro.



L’accampamento era in una zona di montagna, dove faceva molto più freddo che in città. Lì l’inverno era già arrivato, veloce e spietato, fermando gli uccelli dal volare, la terra primaverile dal fiorire. S’era imposto con una violenza tale che a Jiyong sembrò d’essere passato in un’altra dimensione, o di aver viaggiato per un’intera stagione.

I cancelli erano di ferro vecchio, un po’ arrugginiti; scricchiolarono mentre degli uomini li aprirono per far passare i bus che portavano lì le reclute.

Un uomo ben più vecchio affianco a lui mormorava che fosse un accampamento usato già durante la guerra di Corea del ‘50. Il governo l’avrebbe reso di nuovo agibile per ovvi motivi.

Jiyong non ne sapeva molto di quel nuovo conflitto che si affacciava sul suo futuro.

Sapeva che non s’era mai stipulato un vero e proprio accordo di pace tra la Corea del Nord e quella del Sud, sapeva tutti gli orrori del passato e conosceva per filo e per segno le parole dei vecchi signori veterani che venivano a trovare la sua classe quand’era piccolo. Ricordava perfettamente la paura riflessa nei loro occhi, una paura che gli aveva fatto pensare che mai e poi mai avrebbe combattuto in una guerra. E invece (...)

Gli altri bambini giocavano gagliardi con i mitra di plastica, lui se ne stava in un angolo a disegnare gli alberi con i pastelli sbagliati. La sua maestra aveva pensato che fosse daltonico, ma poi lui le aveva spiegato che erano esperimenti, i suoi, e che poi gli alberi viola esistevano, sicuramente, da qualche parte in quel mondo grande grande.

Jiyong sorrise, scendendo dal bus. Guardandosi attorno, in quel turbinio di baracche e inferriate, aveva notato qualcosa: un albero viola.

In qualche modo, lo faceva sentire a casa.



Erano arrivati da qualche minuto, dopo essere scesi dal treno ed essere saliti su un bus che li aveva portati direttamente ai campi d’addestramento. Seungri sembrava essersi calmato, ed ora era silenzioso. Seunghyun lo lasciò nella sua patina di silenzio.

Ci pensava spesso, se lasciare le persone nel silenzio da loro stesse creato, oppure se scuoterle via. Lui era una di quelle persone che amavano restare nel proprio mondo quanto più possibile, e quindi gli sembrava un’evidente violenza svegliare, per così dire, qualcuno.

Chissà se forse Seungri nel suo silenzio stava mentalmente urlando a qualcuno di salvarlo...

Avevano camminato per una dozzina di metri, e il soldato - il cui grado Seunghyun non poteva immaginare - che li aveva accompagnati nel bus, aveva detto loro che avrebbero avuto quel pomeriggio libero per conoscersi, sistemarsi e scegliersi un letto. Aveva anche detto loro che la cena era, come da programma, alle otto di sera, e che chiunque non si sarebbe presentato in tempo l’avrebbe - come da programma - saltata. Il mattino dopo le attività sarebbero iniziate alle sei e un quarto con la divisione per plotoni d’allenamento. Sul letto avrebbero trovato dei cambi puliti.

Seunghyun storse il naso all’idea.

“Hyung…” Seungri lo chiamò, dopo qualche minuto di silenzio.

Si voltò ad osservarlo – “Sì?”

“Non…non ho dato ascolto. Che succede?”

”In pratica possiamo cercare gli altri, adesso”

“Oh” gli occhi scuri del ragazzo si aprirono leggermente, come se un’idea ben gradita fosse penetrata nella sua mente. E in effetti lo era anche per Seunghyun.

I due camminarono per un po’, riscaldandosi con le braccia i fianchi dal gelo e osservando il cielo chiarissimo, quasi bianco.

“Non ti sembra la base in cui abbiamo girato Monster?” chiese il più piccolo.

Top ridacchiò “Già. Se fossi un gigante la cosa sarebbe un tantino più divertente”

“Oh, avevi il ruolo più figo, hyung!”

”Secondo me il più figo era Taeyang” rispose lui, per poi mimare con le mani la strana acconciatura che aveva adottato per quel videoclip.

Seungri rise, strizzando gli occhi e grattandosi la nuca.

Poteva sembrare quasi una normale giornata invernale. Due amici, quattro chiacchiere, nessun problema. Top strofinò una mano contro la spalla di Seungri, affettuoso. Ridacchiò ancora un po’ e poi tornò serio a guardarlo negli occhi.

“Andrà tutto bene”

Bastarono pochi secondi, una folata di vento crudele, nessun rumore in lontananza, e Seungri gli si lanciò fra le braccia, stringendo con le dita la stoffa del suo cappotto beige, e respirando roco.

Le nuvolette di condensa che produceva Seungri salivano fino agli occhi di Seunghyun, facendolo lacrimare.

 

 

Daesung e Taeyang avevano annunciato di voler esplorare, così Jiyong aveva detto loro che sarebbe rimasto ancora per un po’ seduto lì, che loro sarebbero tornati in quel posto e l’avrebbero ritrovato lì ad aspettarli. Doveva riflettere, doveva dormire, doveva bearsi per un po’ di quel silenzio. Perché sapeva che da quel giorno in poi il silenzio avrebbe avuto tutta un’altra accezione, tutto un altro significato,  sarebbe stato distruttivo, non più sanatorio.

Per questo ora era lì, seduto con la schiena contro quell’albero di Jacaranda, a osservare i suoi anfibi neri stonare col marrone scuro della terra secca e fredda. Contava i petali, perdendosi nella chiarezza dei numeri e dei colori.

Pensava ad una certa poesia che sua madre aveva insistito che imparasse a memoria. Tre strofe.

Aveva undici anni e nessuna vergogna ad alzarsi in piedi su una sedia per recitare quelle parole. Non aveva vergogna di nulla, se rendeva felice sua madre. Era per questo, oltre che per passione, che non aveva mai rifiutato un provino o un’opportunità di dimostrare quanto fosse un bambino dotato. Godeva già da allora dei complimenti, ma la cosa che amava più di tutte era vedere quell’espressione di orgoglio sul volto di sua madre.


“Non possiede parole, l’albero,

ma se sente parole d’amore

porge più foglie al soffio del vento.”
 

 

 

E proprio mentre nella sua mente risuonavano le ultime sillabe tuonanti, voltò lo sguardo a ponente.

Camminavano con una naturalezza tale da farlo commuoverlo.

Il più piccolo si asciugava le lacrime con la manica del cappotto nero, ma era sorridente; il più grande guardava il terreno ma ridacchiava. Parlavano con una tranquillità così silenziosa e strisciante; accennata, ma forte come mille tempeste. Jiyong la vedeva riflessa nei loro occhi, la quiete dopo la tempesta, il silenzio dopo il rombo dei tuoni, la pace dopo il dolore tagliente. I fiori cadevano dall’albero di Jacaranda, scossi dal vento, e coprivano la vista di Jiyong, che mai prima d’ora s’era sentito dragone del cielo. Vederli camminare verso di lui – anche se non l’avevano visto – era come un ultima stilla di libertà. La consapevolezza di essere tutti insieme, di non aver perso ancora nulla, di poter partire sul serio da zero, adesso.

L’albero respirava insieme a lui, inglobava la visione dei due che camminavano, strizzando gli occhi al vento e al freddo. Le loro voci erano quasi udibili. Jiyong poggiò la testa contro l’albero di Jacaranda, ne carezzò una radice sporgente. Si stupì.

Su internet aveva letto che quegli alberi vivevano solo in climi caldi, dove il sole era forte e li irradiava completamente. Cosa ci faceva qui, quell’albero viola, che pareva quasi un ombrello sulla sua testa? Era strano e fuoriluogo, eppure si stagliava lì, in quel campo di speranze senza meta e sacchi di patate che sarebbero dovuti bastare a tutti per tutto l’autunno, prima della guerra che si sarebbe combattuta in inverno.

Seungri e Seunghyun gli sorrisero, fermandosi a guardarlo, lui seduto sotto l’albero viola, la testa inclinata a far scorrere qualche pensiero via dalle orecchie, gli occhi persi nella loro visione, la mente immersa in un bianco latteo.

Un petalo cadde sul naso di Jiyong, pingendo la sua vista di quello stesso colore pastello che era proprio di tutto l’albero. Fra quel colore e quel bianco del cielo c’erano i suoi amici. Il cuore gli batté forte nel petto.

Un ruggito potente delle arterie.

Un tremolio fin nei capillari più azzurrini.

Seppe che non avrebbe mai più vissuto una tale felicità.

 

 

“Non possiede parole, l’albero,

ma se sente parole d’amore

porge più foglie al soffio del vento.”









 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Big Bang / Vai alla pagina dell'autore: past_zonk