Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: radioactive    18/08/2013    4 recensioni
CAP. 6 Il cigolio del legno si mischiava al battito del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo, che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva derubati.
«Ciao, otto»
[...] Stavano per morire, stavano per morire!
CAP. 10 Caesar Flickerman trattava tutti i tributi come validi concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del presentatore, era già morto.
| 72esimi Hunger Games ● Lyosha e Ariel Isaacs ● DISTRETTO 8 |
EDIT - testo in via di revisione e betaggio (01 capitoli su 14) + cambio grafica [in data 11/11/2013]
→ I capitoli 15, 16 e 17 sono degli SPINOFF di Die on the front page, just like the stars.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A







CAPITOLO 03

                 madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro.

 

 

 

Il respiro gli riusciva pesante, pesantissimo. Si aggrappava con le unghie sul terreno e le sentiva rompersi e sporcarsi ma non gli importava granché, “che m’importa delle unghie, considerando che sto morendo?” avrebbe voluto pensare; eppure la sua mente non vagava attorno a quelle domande, bensì ai ricordi distanti di un distretto otto che non poteva affatto considerarsi fiero dei suoi tributi, perché il maschio stava morendo per dell’acqua sulle gambe di una sorella che afferrava prontamente le tre cose che le sembravano più utili – e che effettivamente potevano risultarlo – in quel momento: la soluzione ambrata e le due confezioni di pastiglie.

Lyosha ansimava, girandosi di lato per vomitare ancora, insieme ai succhi gastrici si iniziavano ad intravedere piccole lacrime di sangue che fecero squittire Ariel dallo spavento, la poverina era talmente sconvolta che non riusciva nemmeno a produrre un suono che esprimesse tutto il suo terrore, assomigliando più ad un gatto a cui è stata pestata la coda che ad una ragazza in procinto di perdere il fratello. Lui tossì ancora, come per espellere nuovamente ciò che conteneva il suo stomaco e le mani di Ariel tremarono dallo spavento, facendo cadere la boccetta che rotolò qualche centimentr più in là sulle foglie.

Doveva concentrarsi, si disse, perché si trattava di Lyosha. Corrugò un po’ la fronte e posò anche le pasticche per terra: scartò subito il liquido spray, perchè se l’acqua era stata ingerita per guarirlo bisognava ingerire a sua volta qualcosa… passò poi in rassegna i due tipi di pasticche: le prime che esaminò – quelle piatte e chiare – ricordavano i dischi di farina e acqua che compravano dal panettiere e che di solito mangiavano con un po’ di cioccolato (quando ce n’era!), non sembravano assolutamente simili ad una medicina e qualcosa in lei diceva che non erano quelle giuste; prese allora le altre che le ricordarono subito le pastiglie che sua madre comprò quella volta che lei si ritrovò con un’intossicazione alimentare o qualcosa del genere. Ne estrasse una dal suo contenitore e se la rigirò tra le dita tremanti per l’adrenalina: aveva tutta l’aria di essere una medicina, sebbene non sapesse per cosa, e di certo sembrava essere più affidabile delle ostie – o qualunque cosa fossero.

All’improvviso, gli occhi della ragazza si sgranarono – la sorpresa fu tale che quasi non si accorse della mano di Lyosha che si aggrappava in una morsa quasi dolorosa al suo polso. «L’accendino con il coltello, lo spray, le pastiglie…» mormorò a voce bassa, il viso ora era tirato in un sorriso che il fratello non riuscì a capire, si sarebbe quasi infuriato se non stesse troppo male e sul punto di vomitare. Un kit di pronto soccorso, per le ferite, per il veleno dell’acqua non riuscì a completare la frase, non sapendo a cosa servisse il liquido.

Con estrema cautela e con la pastiglia tra le dita, Ariel fece in modo di far sedere il fratello con le spalle appoggiate al tronco di un albero, gli prese la mano e gliela pulì come meglio poteva con la manica della propria giacca, mise la piccola perla di giada sul palmo, «ingoiala… credo sia una medicina».

Inutile dire che lo scetticismo di Lyosha nei confronti di quel “credo” era immenso, ma che poteva fare se non ubbidire? Guardò con la vista appannata quel piccolo medaglione verde e senza pensarci se lo buttò in bocca cercando di ingoiarlo senza che si attaccasse alla lingua. E poi aspettò, con il capo appoggiato sulla propria spalla e gli occhi chiusi, stanchi.

Tutto intorno a lui era sparito: giochi, sangue, morte e vegetazione di una foresta mai vista prima, diversa da quella fuori il loro distretto, diversa da tutto quello che avesse mai visto. Le uniche cose che riusciva ad avvertire erano la terra sotto le unghie, le gocce di sudore colargli lungo il collo che producevano la pallida ombra del solletico e i piccoli cerchi che sua sorella disegnava con l’indice sul palmo della mano di lui, in attesa della morte o della vita di Thahn, del suo cielo azzurro.

Perché – e questo lo sapevano entrambi – la morte di Lyosha avrebbe mandato un eterno temporale nella vita di Ariel.

 

Lexi si sedette su uno spuntone della cornucopia, sfilandosi il laccio dai capelli e tenendolo con i denti, pettinandosi i fili d’oro per poi raccoglierli in una coda più alta di quella che i suoi preparatori le avevano fatto prima di entrare nei Giochi. Poco più in là, i tributi del distretto due (Kabe e Liv) parlavano con Fraser.

Si sedette a gambe incrociate, lasciando cadere a terra la spada di cui si era armata, passandosi una mano sul viso, si accorse di avere la guancia sporca di sangue, biascicò un’imprecazione e poi tornò a guardare il gruppetto di cui faceva parte: doveva dire di non essere scontenta dei tributi dei giochi di cui lei faceva parte, perché tutti, a modo loro, potevano darle del filo da torcere.

Fraser, prima di tutti, era uno che ci andava pesante: all’inizio degli Hunger Games era volato sulla spada più grossa che vi era e senza rimorsi aveva già attraversato da parte a parte da ragazzina del distretto dodici, spaventando quasi a morte quelli dei distretti più bassi e facendoli scappare senza aver afferrato nulla dalla Cornucopia. Ora agitava le braccia mentre parlava con Kabe e Liv e poi si mise a ridere, come se avesse appena raccontato una barzelletta divertente.

Liv se ne stava lì impalata a braccia conserte con una faretra piena di frecce attaccata alla cintura e alcune sporche di sangue in mano, sorrideva con gli occhi dolci al tributo del distretto uno come se fosse stata travolta da una cotta adolescenziale: era bella, certamente, ma si vedeva lontano un miglio che Fraser aveva già deciso di ammazzarla, così come aveva deciso di ammazzare tutti nell’Arena all’occasione giusta. Non era uno che amava perdere, e anche questo si vedeva lontano un miglio.

Kabe invece, dopo aver lanciato un’occhiata scettica a Fraser dopo averlo visto ridere, aveva iniziato a fare il giro attorno ai cadaveri del bagno di sangue, sfilando dalle loro spalle gli zaini e raccogliendo i pugnali conficcati sui loro corpi o abbandonati nell’acqua facendo una smorfia nel vedere come era stata pugnalata male il tributo donna del distretto sette – nel suo volto non c’era altro che distacco. Lexi non riusciva ad inquadrarlo bene e la cosa la innervosiva: voleva intuire il piano di tutti i favoriti per capire quando sarebbe stato meglio fuggire da quella coalizione prima di essere ammazzata da uno di quei tributi.

Guardò nell’altra direzione: di vivo c’era solo la ragazza del distretto quattro, la più piccola del gruppo dei favoriti e quella che si era accaparrata tutti gli sponsor, una storia tragica come la sua non passava inosservata e Capitol City amava i drammi. Altrimenti perché continuerebbe a guardare gli Hunger Games?

Assottigliò lo sguardo per metterla meglio al fuoco, nonostante la sua vista fosse perfetta: invidiava i suoi capelli di un bellissimo color rame, al sole sembravano quasi rossi e Lexi si chiese se fossero naturali, perché lo sembravano davvero. Non poteva biasimare affatto lo (o la) stilista che l’aveva vestita da sirena, ricoperta di glitter per imitare la lucentezza delle squame che mettevano in evidenza la sua bellezza da distretto quattro. Ines – così si chiamava – era china sull’acqua e con la giacca di un qualche tributo morto usata come straccio lavava via il sangue dal tridente che avevano molto probabilmente messo lì per lei, borbottava qualcosa tra sé e sé che a Lexi non importò granché.

«Allora? Dobbiamo aspettare ancora per molto, Principessa?» era Fraser, in piedi davanti a lei senza giacca – l’aveva legata alla bretella dello zaino che aveva sulle spalle, teneva una spala attaccata alla cinta, un pugnale nello stivale e un altro sempre nella cinghia dei pantaloni. Sorrideva, come se trovasse divertente chiamarla con quel soprannome con cui l’intervistatore di cui ignorava il nome l’aveva chiamata la sera prima.

«Veramente quello che si perde a raccontare barzellette sei tu, Fraser» disse lei quasi inviperita, saltando via dalla Cornucopia e prendendo la spada – di forma diversa da quella di Fraser, la propria era più lunga e sottile mentre quella dell’altro più robusta e adatta a delle braccia virili – e infilandosela nella cinghia dei pantaloni come il tributo maschio che le stava di fronte, camminò alzando i piedi dall’acqua e si avvicinò al tesoro della Cornucopia, frugando tra gli zaini, aprendoli e ispezionando il loro contenuto, spostando talvolta delle cose da una borsa all’altra. Alla fine, dopo un lungo riordinare gli oggetti, si mise una delle sacche sulle spalle. «Kabe e Liv?» chiese lei, indicando con il mento i due intenti a lavare le armi dal sangue e a vedere cosa Kabe aveva recuperato dalle spalle dei tributi deceduti. Riempirono anche una brocca d’acqua trovata in una delle sacche.

«Hanno chiesto un paio di minuti per mettersi in ordine e frugare nella Cornucopia» rispose atono lui, guardando con la coda dell’occhio le borse sventrate che aveva lasciato Lexi, sorrise appena «o quello che ne è rimasta, considerando che l’hai svuotata».

«Ines?» ovviamente lei ignorava la leggerezza con cui Fraser parlava, “lo ammazzo”, si promise.

«Sta arrivando» annunciò lui e qualche secondo dopo la figura mingherlina della ragazza in questione passò alle spalle di Fraser per dirigersi ai rifornimenti, prese lo zaino più capiente che trovò infilandoci tre corde trovate nella Cornucopia, un sacchetto di mele e altre cose a cui nessuno del distretto uno prestò attenzione.

«E tu?» domandò infine, alzando un sopraciglio e incrociando le braccia al petto.

Di tutta risposta Fraser si limitò a sorridere, prima di andare dai tributi del distretto due a dire di sbrigarsi, perché la Principessa aveva fretta.

 

Lyosha ricordava ancora quando, quella sera dopo qualche tempo dalla morte del padre, Neish, nelle industrie tessili (la manutenzione gli operai l’avevano vista solo in foto e, logicamente, i rischi che si correvano erano molti), sua madre gli aveva detto che lo avrebbe mandato a lavorare. La donna era riuscita a trovargli un posto tra i ricamatori (di cui gran parte donne), non ci teneva che il figlio diventasse pure sordo, considerando che già portava con sé il fardello del mutismo.

Un lavoro che gli piaceva anche, fortunatamente. Nonostante le varie punture fattosi con gli aghi, Lyosha godeva della fama di essere uno dei pochi ragazzini a saper ricamare trame anche abbastanza ricercate con modesta precisione. Ma la sua bravura derivava da un senso innato del dovere, certamente: lo faceva per sua madre e per Ariel, che in quel periodo era molto malata e necessitava di medicine. Non solo stava a lavoro tutte le ore che coprivano il suo turno, ma spesso si offriva per fare degli extra e coprire quelli altri con le dovute mance in più, talmente era preso dal cucito (l’unica cosa che sapeva fare, oltre al silenzio) che decise di fare qualche commissione a basso prezzo, il più basso del distretto – in modo che venissero tutti da lui.

Nonostante tutto questo lavoro, però, il suo nome continuava a moltiplicarsi anno dopo anno nella boccia della Mietitura, così come quello della sorella che, tuttavia, aveva ben poche possibilità di uscire sorteggiata: erano i suoi primi anni agli Hunger Games.

Ma la fortuna non è mai stata con il distretto otto, o con qualcuno in generale appartenente ai distretti più bassi: madama fortuna era cieca e guarda caso si girava sempre nella direzione dei favoriti. Quindi non c’era da star tranquilli nemmeno se il tuo nome è nella runa una sola volta: potresti sempre essere tu.

Sognò le notti passate a ricamare oro nei fazzoletti di lino, sognò il pomeriggio passato ad allargare il vestito di Ariel che aveva usato per la Mietitura dell’anno prima e che avrebbe indossato ancora, perché non potevano permettersene uno nuovo, sognò la Mietitura stessa e il vago senso di pietà che percepì nello sguardo della presentatrice quando chiese se loro fossero davvero fratelli e il sorriso elettrizzato spuntarle subito dopo sul viso subito prima del «che i sessantaduesimi Hunger Games abbiano inizio!», sognò la sfilata e i magnifici costumi che avevano preparato per loro, sebbene non fossero nulla di particolare, sognò addirittura l’intervista fatta con sua sorella… perché lui non poteva parlare e lei doveva farlo al posto suo.

Alzò la testa di colpo, sobbalzando sul posto e piantando i palmi per terra, guardò in alto: il sole era più alto di quanto ricordasse. Improvvisamente si accorse di essere vivo.

Sorrise, sbalordito, passandosi una mano sullo stomaco che non doleva più e poi sulla gola nella quale avvertiva un vago bruciore, molto lontano dalla pungente sensazione che aveva apostrofato come “corrosione”. Si stropicciò gli occhi dopo aver pulito le mani sulla maglietta e poi si girò a guardare Ariel, lo fissava con gli occhi lucidi e un sorriso che sembrava paralizzarle tutti i muscoli del viso.

«Sei tornato» gli disse semplicemente, pulendosi poi una guancia dalla lacrima che le era scivolata via, sporcandola di terra, «allora avevo ragione, vedi?: era una medicina».

Attraverso i soliti gesti un po’ tremolanti, Lyosha le comunicò che stava bene, e che dovevano muoversi e trovare un rifugio più sicuro. In tutta fretta raccolsero le proprie cose e, mano nella mano, iniziarono a camminare verso una di quelle cascate che vedevano sullo sfondo.

Forse, madama fortuna si era accorta di loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

« La fortuna si stanca di portar sempre in spalla il medesimo uomo.»  

[PROVERBIO]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Devo dire che sono molto motivata a continuare questa long perché, nonostante gli OC continuino ad essere poco considerati in questo fandom ed è una cosa per cui mi batterò ardentemente, ammetto di essere molto fiera di quello che sta uscendo e intendo portarlo fino alla fine.

Essendo di fretta, vi link i volti di Kabe (pronunciato Keib) e Liv.

Ovviamente, se chi legge nel buio volesse darmi un suo parere attraverso una recensione, sarebbe cosa gradita

 

EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy ~

 

Alla prossima!

radioactive,

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: radioactive