▪ CAPITOLO 03 ▪
madama fortuna era cieca, ma
quella volta si era accorta di loro.
Il respiro gli riusciva pesante,
pesantissimo. Si aggrappava con le unghie sul terreno e le sentiva rompersi e sporcarsi
ma non gli importava granché, “che m’importa delle unghie, considerando che sto
morendo?” avrebbe voluto pensare; eppure la sua mente non vagava attorno a
quelle domande, bensì ai ricordi distanti di un distretto otto che non poteva
affatto considerarsi fiero dei suoi tributi, perché il maschio stava morendo per dell’acqua sulle gambe di una
sorella che afferrava prontamente le tre cose che le sembravano più utili – e
che effettivamente potevano risultarlo – in quel momento: la soluzione ambrata
e le due confezioni di pastiglie.
Lyosha ansimava, girandosi di lato per
vomitare ancora, insieme ai succhi gastrici si iniziavano ad intravedere
piccole lacrime di sangue che fecero squittire Ariel dallo spavento, la
poverina era talmente sconvolta che non riusciva nemmeno a produrre un suono
che esprimesse tutto il suo terrore, assomigliando più ad un gatto a cui è
stata pestata la coda che ad una ragazza in procinto di perdere il fratello.
Lui tossì ancora, come per espellere nuovamente ciò che conteneva il suo
stomaco e le mani di Ariel tremarono dallo spavento, facendo cadere la boccetta
che rotolò qualche centimentr più in là sulle foglie.
Doveva concentrarsi, si disse, perché
si trattava di Lyosha. Corrugò un po’ la fronte e
posò anche le pasticche per terra: scartò subito il liquido spray, perchè se l’acqua era stata ingerita per guarirlo bisognava
ingerire a sua volta qualcosa… passò poi in rassegna
i due tipi di pasticche: le prime che esaminò – quelle piatte e chiare –
ricordavano i dischi di farina e acqua che compravano dal panettiere e che di
solito mangiavano con un po’ di cioccolato (quando ce n’era!), non sembravano
assolutamente simili ad una medicina e qualcosa in lei diceva che non erano
quelle giuste; prese allora le altre che le ricordarono subito le pastiglie che
sua madre comprò quella volta che lei si ritrovò con un’intossicazione
alimentare o qualcosa del genere. Ne estrasse una dal suo contenitore e se la
rigirò tra le dita tremanti per l’adrenalina: aveva tutta l’aria di essere una medicina,
sebbene non sapesse per cosa, e di certo sembrava essere più affidabile delle
ostie – o qualunque cosa fossero.
All’improvviso, gli occhi della
ragazza si sgranarono – la sorpresa fu tale che quasi non si accorse della mano
di Lyosha che si aggrappava in una morsa quasi
dolorosa al suo polso. «L’accendino con il coltello, lo spray, le pastiglie…» mormorò a voce bassa, il viso ora era tirato in
un sorriso che il fratello non riuscì a capire, si sarebbe quasi infuriato se
non stesse troppo male e sul punto di vomitare. Un kit di pronto soccorso, per le ferite, per il veleno dell’acqua… non
riuscì a completare la frase, non sapendo a cosa servisse il liquido.
Con estrema cautela e con la pastiglia
tra le dita, Ariel fece in modo di far sedere il fratello con le spalle
appoggiate al tronco di un albero, gli prese la mano e gliela pulì come meglio
poteva con la manica della propria giacca, mise la piccola perla di giada sul
palmo, «ingoiala… credo sia una medicina».
Inutile dire che lo scetticismo di Lyosha nei confronti di quel “credo” era immenso, ma che
poteva fare se non ubbidire? Guardò con la vista appannata quel piccolo
medaglione verde e senza pensarci se lo buttò in bocca cercando di ingoiarlo
senza che si attaccasse alla lingua. E poi aspettò, con il capo appoggiato
sulla propria spalla e gli occhi chiusi, stanchi.
Tutto
intorno a lui era sparito: giochi, sangue, morte e vegetazione di una foresta
mai vista prima, diversa da quella fuori il loro distretto, diversa da tutto
quello che avesse mai visto. Le uniche cose che riusciva ad avvertire erano la
terra sotto le unghie, le gocce di sudore colargli lungo il collo che
producevano la pallida ombra del solletico e i piccoli cerchi che sua sorella
disegnava con l’indice sul palmo della mano di lui, in attesa della morte o
della vita di Thahn, del suo cielo azzurro.
Perché
– e questo lo sapevano entrambi – la morte di Lyosha
avrebbe mandato un eterno temporale nella vita di Ariel.
Lexi
si sedette su uno spuntone della cornucopia, sfilandosi il laccio dai capelli e
tenendolo con i denti, pettinandosi i fili d’oro per poi raccoglierli in una
coda più alta di quella che i suoi preparatori le avevano fatto prima di
entrare nei Giochi. Poco più in là, i tributi del distretto due (Kabe e Liv) parlavano con Fraser.
Si
sedette a gambe incrociate, lasciando cadere a terra la spada di cui si era
armata, passandosi una mano sul viso, si accorse di avere la guancia sporca di
sangue, biascicò un’imprecazione e poi tornò a guardare il gruppetto di cui
faceva parte: doveva dire di non essere scontenta dei tributi dei giochi di cui
lei faceva parte, perché tutti, a modo loro, potevano darle del filo da
torcere.
Fraser,
prima di tutti, era uno che ci andava pesante: all’inizio degli Hunger Games era volato sulla
spada più grossa che vi era e senza rimorsi aveva già attraversato da parte a
parte da ragazzina del distretto dodici, spaventando quasi a morte quelli dei
distretti più bassi e facendoli scappare senza aver afferrato nulla dalla
Cornucopia. Ora agitava le braccia mentre parlava con Kabe
e Liv e poi si mise a ridere, come se avesse appena raccontato una barzelletta
divertente.
Liv
se ne stava lì impalata a braccia conserte con una faretra piena di frecce
attaccata alla cintura e alcune sporche di sangue in mano, sorrideva con gli
occhi dolci al tributo del distretto uno come se fosse stata travolta da una
cotta adolescenziale: era bella, certamente, ma si vedeva lontano un miglio che
Fraser aveva già deciso di ammazzarla, così come aveva deciso di ammazzare
tutti nell’Arena all’occasione giusta. Non era uno che amava perdere, e anche
questo si vedeva lontano un miglio.
Kabe
invece, dopo aver lanciato un’occhiata scettica a Fraser dopo averlo visto
ridere, aveva iniziato a fare il giro attorno ai cadaveri del bagno di sangue,
sfilando dalle loro spalle gli zaini e raccogliendo i pugnali conficcati sui
loro corpi o abbandonati nell’acqua facendo una smorfia nel vedere come era
stata pugnalata male il tributo donna del distretto sette – nel suo volto non
c’era altro che distacco. Lexi non riusciva ad
inquadrarlo bene e la cosa la innervosiva: voleva intuire il piano di tutti i
favoriti per capire quando sarebbe stato meglio fuggire da quella coalizione
prima di essere ammazzata da uno di quei tributi.
Guardò
nell’altra direzione: di vivo c’era solo la ragazza del distretto quattro, la
più piccola del gruppo dei favoriti e quella che si era accaparrata tutti gli
sponsor, una storia tragica come la sua non passava inosservata e Capitol City amava i drammi. Altrimenti perché
continuerebbe a guardare gli Hunger Games?
Assottigliò
lo sguardo per metterla meglio al fuoco, nonostante la sua vista fosse
perfetta: invidiava i suoi capelli di un bellissimo color rame, al sole
sembravano quasi rossi e Lexi si chiese se fossero
naturali, perché lo sembravano davvero. Non poteva biasimare affatto lo (o la)
stilista che l’aveva vestita da sirena, ricoperta di glitter per imitare la
lucentezza delle squame che mettevano in evidenza la sua bellezza da distretto quattro. Ines – così si
chiamava – era china sull’acqua e con la giacca di un qualche tributo morto
usata come straccio lavava via il sangue dal tridente che avevano molto
probabilmente messo lì per lei, borbottava qualcosa tra sé e sé che a Lexi non importò granché.
«Allora?
Dobbiamo aspettare ancora per molto, Principessa?» era Fraser, in piedi davanti
a lei senza giacca – l’aveva legata alla bretella dello zaino che aveva sulle
spalle, teneva una spala attaccata alla cinta, un pugnale nello stivale e un
altro sempre nella cinghia dei pantaloni. Sorrideva, come se trovasse
divertente chiamarla con quel soprannome con cui l’intervistatore di cui
ignorava il nome l’aveva chiamata la sera prima.
«Veramente
quello che si perde a raccontare barzellette sei tu, Fraser» disse lei quasi inviperita, saltando via dalla Cornucopia e
prendendo la spada – di forma diversa da quella di Fraser, la propria era più
lunga e sottile mentre quella dell’altro più robusta e adatta a delle braccia
virili – e infilandosela nella cinghia dei pantaloni come il tributo maschio
che le stava di fronte, camminò alzando i piedi dall’acqua e si avvicinò al
tesoro della Cornucopia, frugando tra gli zaini, aprendoli e ispezionando il
loro contenuto, spostando talvolta delle cose da una borsa all’altra. Alla
fine, dopo un lungo riordinare gli oggetti, si mise una delle sacche sulle
spalle. «Kabe e Liv?» chiese lei, indicando con il
mento i due intenti a lavare le armi dal sangue e a vedere cosa Kabe aveva recuperato dalle spalle dei tributi deceduti.
Riempirono anche una brocca d’acqua trovata in una delle sacche.
«Hanno
chiesto un paio di minuti per mettersi in ordine e frugare nella Cornucopia»
rispose atono lui, guardando con la coda dell’occhio le borse sventrate che
aveva lasciato Lexi, sorrise appena «o quello che ne
è rimasta, considerando che l’hai svuotata».
«Ines?»
ovviamente lei ignorava la leggerezza con cui Fraser parlava, “lo ammazzo”, si promise.
«Sta
arrivando» annunciò lui e qualche secondo dopo la figura mingherlina della ragazza
in questione passò alle spalle di Fraser per dirigersi ai rifornimenti, prese
lo zaino più capiente che trovò infilandoci tre corde trovate nella Cornucopia,
un sacchetto di mele e altre cose a cui nessuno del distretto uno prestò
attenzione.
«E
tu?» domandò infine, alzando un sopraciglio e incrociando le braccia al petto.
Di
tutta risposta Fraser si limitò a sorridere, prima di andare dai tributi del
distretto due a dire di sbrigarsi, perché la
Principessa aveva fretta.
Lyosha
ricordava ancora quando, quella sera dopo qualche tempo dalla morte del padre, Neish, nelle industrie tessili (la manutenzione gli operai
l’avevano vista solo in foto e, logicamente, i rischi che si correvano erano
molti), sua madre gli aveva detto che lo avrebbe mandato a lavorare. La donna
era riuscita a trovargli un posto tra i ricamatori (di cui gran parte donne),
non ci teneva che il figlio diventasse pure sordo, considerando che già portava
con sé il fardello del mutismo.
Un
lavoro che gli piaceva anche, fortunatamente. Nonostante le varie punture
fattosi con gli aghi, Lyosha godeva della fama di
essere uno dei pochi ragazzini a saper ricamare trame anche abbastanza
ricercate con modesta precisione. Ma la sua bravura derivava da un senso innato
del dovere, certamente: lo faceva per sua madre e per Ariel, che in quel
periodo era molto malata e necessitava di medicine. Non solo stava a lavoro
tutte le ore che coprivano il suo turno, ma spesso si offriva per fare degli
extra e coprire quelli altri con le dovute mance in più, talmente era preso dal
cucito (l’unica cosa che sapeva fare, oltre al silenzio) che decise di fare
qualche commissione a basso prezzo, il più basso del distretto – in modo che
venissero tutti da lui.
Nonostante
tutto questo lavoro, però, il suo nome continuava a moltiplicarsi anno dopo
anno nella boccia della Mietitura, così come quello della sorella che,
tuttavia, aveva ben poche possibilità di uscire sorteggiata: erano i suoi primi
anni agli Hunger Games.
Ma
la fortuna non è mai stata con il distretto otto, o con qualcuno in generale
appartenente ai distretti più bassi: madama
fortuna era cieca e guarda caso si girava sempre nella direzione dei
favoriti. Quindi non c’era da star tranquilli nemmeno se il tuo nome è nella
runa una sola volta: potresti sempre essere tu.
Sognò
le notti passate a ricamare oro nei fazzoletti di lino, sognò il pomeriggio
passato ad allargare il vestito di Ariel che aveva usato per la Mietitura
dell’anno prima e che avrebbe indossato ancora, perché non potevano
permettersene uno nuovo, sognò la Mietitura stessa e il vago senso di pietà che
percepì nello sguardo della presentatrice quando chiese se loro fossero davvero
fratelli e il sorriso elettrizzato spuntarle subito dopo sul viso subito prima
del «che i sessantaduesimi Hunger Games
abbiano inizio!», sognò la sfilata e i magnifici costumi che avevano preparato
per loro, sebbene non fossero nulla di particolare, sognò addirittura
l’intervista fatta con sua sorella… perché lui non
poteva parlare e lei doveva farlo al posto suo.
Alzò
la testa di colpo, sobbalzando sul posto e piantando i palmi per terra, guardò
in alto: il sole era più alto di quanto ricordasse. Improvvisamente si accorse
di essere vivo.
Sorrise,
sbalordito, passandosi una mano sullo stomaco che non doleva più e poi sulla
gola nella quale avvertiva un vago bruciore, molto lontano dalla pungente
sensazione che aveva apostrofato come “corrosione”. Si stropicciò gli occhi
dopo aver pulito le mani sulla maglietta e poi si girò a guardare Ariel, lo
fissava con gli occhi lucidi e un sorriso che sembrava paralizzarle tutti i
muscoli del viso.
«Sei
tornato» gli disse semplicemente, pulendosi poi una guancia dalla lacrima che
le era scivolata via, sporcandola di terra, «allora avevo ragione, vedi?: era
una medicina».
Attraverso
i soliti gesti un po’ tremolanti, Lyosha le comunicò
che stava bene, e che dovevano muoversi e trovare un rifugio più sicuro. In
tutta fretta raccolsero le proprie cose e, mano nella mano, iniziarono a
camminare verso una di quelle cascate che vedevano sullo sfondo.
Forse,
madama fortuna si era accorta di loro.
« La fortuna si stanca di portar sempre in spalla il
medesimo uomo.»
[PROVERBIO]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Devo dire che sono molto motivata a continuare
questa long perché, nonostante gli OC continuino ad essere poco considerati in
questo fandom ed è una cosa per cui mi batterò
ardentemente, ammetto di essere molto fiera di quello che sta uscendo e
intendo portarlo fino alla fine.
Essendo di fretta, vi link i volti di Kabe (pronunciato Keib) e Liv.
Ovviamente, se chi legge nel buio
volesse darmi un suo parere attraverso una recensione, sarebbe cosa gradita ♡
EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo
ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy
~
Alla prossima!
radioactive,