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Autore: LokiSoldier    19/08/2013    0 recensioni
In questa fiction ho voluto raccontare quello che secondo me è accaduto fra Sana e Akito dopo il finale dell'anime. Esso finisce con i due che si ripromettono che, dopo il superamento della prova per la cintura nera di karate di Ayama che si sarebbe tenuta l'indomani, si sarebbero dovuti parlare di una cosa.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Sana/Akito
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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Ciao a tutti#2! ^^
Ebbene sì, non ho potuto aspettare e ho voluto postare il secondo capitolo quasi subito dopo il primo. Sto scrivendo come un razzo, ma penso che per oggi mi fermerò qui e che continuerò nei prossimi giorni a scrivere il resto della storia. Probabilmente non vi interessa, magari non la leggerà nessuno, ma io lo dico comunque, non si sa mai… xD
Detto questo, vi auguro una buona lettura!
 
 
 
 
 

Sotto il getto dell’acqua gelida non ero capace a pensare a nulla che non fosse lei, che non fossimo noi. In piedi, sotto la doccia, col viso rivolto verso l’alto e l’acqua che fredda e scrosciante mi colpiva il volto, i miei occhi chiusi, le labbra schiuse mentre lasciavo andare un sospiro, i capelli biondi che mi ravviavo all’indietro per non averli appiccicati al viso. Sentivo il sudore togliersi di dosso mentre il cuore batteva forte, pompava il sangue con prepotenza agitandomi. Neppure l’acqua fredda era capace di calmarmi. Sospirai, ancora. Cosa avrei potuto dirle? Da dove avrei potuto iniziare? Perché lo sapevo, sapevo perfettamente che non appena l’avessi vista l’istinto di baciarla sarebbe stato troppo forte. Sapevo che la voglia di stringerla a me e di affondare il viso fra i suoi capelli mi avrebbe travolto e investito ed io ero troppo debole per resistere. Nonostante ormai fossi cresciuto, nonostante ormai fossi un quasi studente del liceo i sentimenti e le sensazioni che lei mi scatenava dentro erano ancora incontrollabili per me e, ogni volta, mi battevano con disarmante semplicità. Decisi di non pensarci, di improvvisare come al solito, come quando andando a casa sua per la nostra festa di metà compleanno le regalai su due piedi un bruttissimo pupazzo di neve fatto su due piedi, nel giardino di casa sua, con le mani ghiacciate e insensibili a causa del freddo. Sì, avrei improvvisato e in qualche modo sarei riuscito a dirglielo, a costo di non guardarla fino a quando non avessi finito di parlare.
Con questa nuova convinzione e consapevolezza lasciai che l’acqua agisse sui miei muscoli rilassandoli, facendo placare i miei nervi, facendo sì che le mie spalle non fossero più così tese. Mi lavai con cura e mi assicurai di non perdere tempo, ansioso com’ero di vederla, e uscito dalla doccia mi coprii con un asciugamano dalla vita alle ginocchia. Ne presi un altro e mi asciugai alla bell’e meglio i capelli che rimasero naturalmente ribelli e scompigliati sulla mia testa ma per lo meno non gocciolavano più acqua e si sarebbero asciugati nel giro di una manciata di minuti se non fossi stato in un posto eccessivamente umido come gli spogliatoi. Lanciai una occhiata veloce all’orologio: era tardissimo, ormai era ora di cena, dovevo sbrigarmi! Ma poi… mi stavo dando tanta pena di far in fretta ma lei era a casa? Sapevo che oggi non era potuta venire per degli impegni lavorativi, avrà già finito? Aveva una agenda fitta, chissà se stava ancora lavorando… in ogni caso non mi sarei fermato, sarei corso con la bici sotto casa sua e avrei aspettato fuori in caso non fosse ancora tornata, questo era poco ma sicuro. Mi strofinai l’asciugamano addosso asciugandomi e mi rivestii di fretta prendendo un cambio dal borsone che avevo portato con me, la cintura nera la poggiai con cura sopra ogni cosa per timore di rovinarla. Uscii, indossando una felpa grigia sopra una maglietta nera a maniche corte ed un paio di pantaloni di tuta grigi varcando la soglia della palestra, per l’ultima volta, e salendo in sella alla mia bici. La bici che mi ha accompagnato per anni e che ora mi accorgo essere diventata un po’ piccola per me: sono cresciuto e neppure me ne sono reso conto…
E se penso che sono cresciuto con lei, grazie a lei, mi sento quasi mancare il respiro. Se penso a come fossi sempre stato convinto che sarei cresciuto come un demonio, come il figlio di un Diavolo che voleva e pretendeva la vita di mia madre… Se penso a come sarei cresciuto odiato e temuto dai miei compagni, senza veri amici a parte Tsuyoshi, senza un padre od una sorella… Se penso a quella che era stata la mia vita fino a pochi anni fa non posso far altro che sentirmi un groppo in gola e ringraziare Dio, se esiste, per aver mandato quell’uragano nella mia vita. Per aver fatto sì che quel piccolo impiastro urlante si interessasse della mia insulsa e solitaria esistenza. Era assurdo per me capacitarmi di come in qualche strano modo Sana mi avesse salvato la vita, mi avesse salvato da me stesso… e per questo non potrò mai essere abbastanza grato o riconoscente. Pedalai con tutta la mia forza, senza nemmeno riuscire a sedermi sul sellino, curvato sul manubrio e col vento che muoveva i miei capelli umidi nel buio della sera. Ormai il cielo era scuro e la luna faceva capolino in un banco di nuvole ovattate: era tardi, ma non potevo fare a meno di fregarmene.  Mi fermai di colpo, sterzando, lasciando sul suolo il segno della gomma della bici mentre dinnanzi a me si ergeva casa sua, bella e imponente come solo la casa di una giovane idol come lei poteva essere. Ero fermo dinnanzi al cancello chiuso, il citofono a circa un metro da me, il cuore che palpitava impazzivo e io che mi sentivo perso, impanicato. Il respiro accelerò, sentivo la gola chiudersi. Il momento era giunto e io ero terrorizzato.

 

E ora che faccio? Suono? Non suono? Me ne vado?

 

Pensai titubante prima di chinare il capo sospirando e stringere con forza la presa sul manubrio. Basta, dovevo smetterla di lasciarmi prendere dal panico! Dovevo comportarmi da uomo. E così scesi dalla bici che lasciai cadere a terra e mi avvicinai al citofono. Non ci pensai nemmeno, lasciai semplicemente che il dito agisse per me e premetti su quel pulsante posto esattamente dinnanzi a me. Dalla cosa potei sentire un suono trillante e basso.

 
Driiiiiin!
 

*

 
La macchina si fermò davanti al cancello: Rei usò il telecomando per aprire il cancello e quindi guidò fin dentro il cortile di casa parcheggiando l’auto nel garage. Uscii dallo sportello e mi diressi stancamente verso l’ingresso, avevo bisogno di un bagno, mi sentivo a pezzi. Desideravo profondamente sapere cosa stesse facendo Ayama in quel momento, ma temevo di disturbarlo, di essere di troppo, senza sapere che nello stesso momento lui soffriva per lo stesso desiderio opprimente ed incessante. Appena entrai in casa vidi mia madre apparire in fondo al corridoio a bordo della sua macchinina rossa con Marochan appollaiato sulla sua testa, in una delle bizzarre acconciature di mia madre. Questa rappresentava una mini isola tropicale e Maro era steso sulla spiaggia ad abbronzarsi con tanto di occhiali da sole.
 
« Era ora che tornassi, è tardissimo! Come mai sei tornata solo ora a casa Sana? » domandò giustamente mia madre preoccupata per me. Sebbene fossi con Rei e quindi non avessi nulla di cui temere una madre è sempre in ansia per la propria figlia quando non la vede rincasare. Sorrisi a mia madre con la mia solita energia piroettando per il corridoio come un mini uragano diretta verso il bagno al piano di sopra.
 
« Oggi non avevo voglia di lavorare e quindi le riprese non andavano mai bene » dissi semplicemente con quella mia risata allegra e contagiosa che usavo sempre per sdrammatizzare i problemi che mi colpivano. Non che lo ritenessi un problema grave onestamente, nessuno si era arrabbiato per quel mio calo d’attenzione, l’avevano semplicemente preso come un po’ di stanchezza accumulata negli ultimi tempi e mi avevano compresa facendomi sentire a mio agio. Questo mi aveva spinta a concentrarmi maggiormente almeno negli ultimi spot: la loro comprensione non doveva servire a farmi adagiare sugli allori, dovevo ricambiare la loro gentilezza impegnandomi nel mio, nel nostro lavoro. Sentii mia madre dare in un verso di sorpresa e perplessità mentre inchiodava con la macchinina e fissava Rei sbalordita. « E lo dici così? Guarda che non è un gioco, è il tuo lavoro, non puoi prenderla così con leggerezza Sana » mi riprese mia madre dal piano di sotto mentre io già mi chiudevo nel bagno fermando la porta con la chiave. Sospirai chiudendo gli occhi e sciogliendo i codini che tenevano imprigionati i miei capelli.

 

Sì mamma, hai ragione… ma oggi proprio non potevo. Ti chiedo scusa.

 
Pensai fra me e me mentre andavo spogliandomi dei miei abiti e mi infilavo sotto la doccia aprendo il rubinetto dell’acqua calda. Lasciai che l’acqua mi scivolasse addosso, che impregnasse i miei capelli mentre i miei pensieri vorticavano tutti attorno a lui. Ripensavo senza sosta al giorno prima a quando, sul tetto della scuola, con la scusa di avere qualcosa nell’occhio mi aveva baciata per l’ennesima volta. Era stato un bacio dolce a suo modo, improvviso, ma tenero. E in quel momento sentivo la mancanza delle sue labbra sulle mie… arrossii violentemente non sapendo spiegarmi da quanto desiderassi questo da lui. Eppure se pensavo ad Ayama non potevo far altro che ripensare a tutti i nostri momenti, tutte le volte che bastava stringergli la mano per trarre una certa forza da lui, a tutte le volte in cui mentre ero in lacrime lui mi abbracciava e mi sentivo rinascere. A tutte le volte in cui mi è bastato vederlo combattere per andare avanti e subito veniva voglia di lottare anche a me. Com’era nato tutto questo non sapevo spiegarmelo, ma sapevo che non avrei rinunciato a questa storia, che avrei combattuto ancora, se necessario, per averlo… Ho capito di amarlo e non avrei permesso a niente e nessuno di impedirmi di dirglielo. Così finii la mia doccia e uscita dalla cabina mi coprii con un asciugamano. Me lo avvolsi attorno al busto in modo da coprire questo seno nascente e lo lasciai ricadere fino alle caviglie mentre un altro lo usai per strofinarlo sui miei capelli bagnati e gocciolanti. Lasciai che l’acqua in eccesso fosse filtrata dall’asciugamano e così mi diressi davanti allo specchio. Sospirai ancora, il cuore che batteva a mille mentre lo sguardo andava al cercapersone che avevo poggiato precedentemente sulla cesta degli abiti sporchi.

 

Suono o non suono…?

 

Stavo già per premere il pulsante di chiamata, decisa ormai a chiamarlo, quando sentii venire da sotto il trillo basso del citofono. Subito sobbalzai e, avvicinandomi alla finestra lanciai una occhiata verso l’esterno. Il mio cuore ebbe un sussulto, il viso avvampò mentre una ondata di adrenalina mi percorse da capo a piedi.
 
« Ayama! » esclamai a bassa voce correndo fuori dal bagno come una furia e urlando a tutti che avevo fretta. Corsi come un lampo nella mia stanza dove mi spogliai dell’asciugamano e indossai i primi vestiti che trovai: intimo, una gonna a pieghe bianca e una canotta verde. Un paio di calzini bianchi e via, così come ero entrata nella stanza scappai come un razzo per il corridoio correndo fino al pian terreno.

 

Aspettami, sto arrivando!


 
 
 


Angolo dell’autrice:
E un altro capitolo è finito.
Personalmente sono soddisfatta del risultato, di come sta venendo fuori questa storia
e spero che anche voi possiate apprezzare questa fiction come me.
Nella speranza di leggere qualche vostro parere, ci si becca nel prossimo capitolo. ^^

  
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