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Autore: SerenaDeA    21/08/2013    0 recensioni
Elyna Doria è genovese e non lo negherà mai. Da anni vaga per la Valle d'Aosta, un paese che odia profondamente perché la tiene lontana dalla sua amata Genova. Eppure, non può tornare.
La ferita non dava segni di guarigione. Ero presa frequentemente dalla febbre; regolarmente, verso sera iniziavo a delirare.
- Loenso… appreuvo a mi… l’ho ammassou, ucciso… io… mi l’avei ammassou! Segnô, sarvame! Ascì mi... anche io... morta... non volevo... scià, perdon! Segnô, perdon! Lollo, perdoname... no... Mi no voevo, zuo... Giuro! Ma... Lollo, portame con ti... Segnô, ammassame, te prego... belin, Segnô, te prego!
Dopo quasi una settimana mi ripresi. La gamba mi faceva ancora male e faticavo a camminare. Ma durante la convalescenza avevo capito una cosa.
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Sveglia - sbottai in direzione della fanciulla, scrollandola rudemente e preparandomi per ripartire. Borbottò qualcosa, assonnata, ma poco dopo - prima che avessi il tempo di iniziare a mugugnare - si alzò e partì.
Quasi sei ore di cammino dopo, ci fermammo sul bordo di un torrente. Esme raccolse un po’ d’acqua delle mani e bevve un lungo sorso, sgocciolandosi in grembo. Dubitai che gliene importasse: dopotutto aveva cento vestiti a casa sua. Le scoccai un’occhiata di avvertimento e mi allontanai fino a perderla di vista. Tenni le orecchie tese per prevedere qualsiasi pericolo e raccolsi i primi mirtilli della stagione, raccogliendoli in un fazzoletto quasi pulito. Lanciai uno sguardo dietro di me per assicurarmi di essere totalmente sola, poi afferrai la catena che portavo al collo e trassi dalla veste una pietra blu incastonata in due volute di metallo scintillante. La guardai, meravigliandomi ancora una volta della sua infinita bellezza. Ero contenta di essermi portata dietro qualcosa che assomigliava al mio mare. Poi sentii un rumore in direzione della ragazza e corsi da quella parte, preoccupata che Lossan o chi per lui fosse tornato.
Invece la trovai a succhiarsi una piccola ferita al dito.
- Ho rotto l’orologio - mi spiegò, mostrando la carcassa ammaccata di un groviglio di metallo e ingranaggi. Non dissi niente e probabilmente mi persi anche qualche passaggio, perché poco dopo aveva attirato l’attenzione di un mercante che passava di lì. L’avevo già visto da qualche parte e mi voltai in fretta dall’altra parte, cercando disperatamente di nascondere la faccia. A giudicare dalla parlata, era Svizzero.
- Dann gebe ich dir zwei Münzen - concluse Esme dopo una lunga trattativa, soddisfatta. Quello non doveva assolutamente vedermi, lui sapeva che ero ricercata. Mi avrebbe denunciata ed io avrei concluso la mia vita con una corda intorno al collo per colpa di una stupida ragazzina. Perché, poi, si era messa a comprare un orologio nel bel mezzo del bosco?
Il mercante se ne andò sorridendo e lanciandomi un’occhiata risoluta. Rimasi girata di schiena e finsi di non accorgermi della sua presenza. Quando fu abbastanza lontano, afferrai Esme per un braccio e strinsi più che potevo.
- Ahia! - protestò lei - Sei impazzita?
- No, ma mi vien da pensare che sia impazzita tu! - ringhiai. Dovevo essere spaventosa, atteggiata in quel modo. La scrollai, cercando di trasmetterle a gesti quello che pensavo di lei ed ignorando le sue proteste appassionate - Che diavolo volevi fare? Se quel tizio mi avesse riconosciuta... Abelinoua d‘na bagascia! Come pensi che avrei potuto aiutarti, penzolando dal patibolo con un pugno di mosche in bocca?
- E piantala! - mormorò, trattenendo a stento le lacrime - Eri lontana, non saresti dovuta tornare così in fret...
- Ma se l’hai fermato tu! - esclamai fuori di me. La spinsi indietro e lei cadde dalla pietra su cui era seduta, così non mi vide sputare per terra e calpestare un ragno il più crudelmente possibile. Dovevo stare lontana da lei, altrimenti... e se avessi avuto Lossan tra le mani in quel momento, gli avrei spezzato tutte e duecentosei le ossa che componevano il suo sudicio corpicino. Esme si rialzò goffamente e tentò di raggiungermi. Lontana, lontana!, gridava nella mia testa una voce che non avevo mai sentito. Mi tappai le orecchie, cercando di escludere quel grido silenzioso.
- Sta’ ferma - le intimai, ma lei accennò ancora un passo - Esme, lontana, rischi la vita!
- Le tue minacce non mi fanno più paura - affermò spavalda.
- Ed io stavolta di taglio la gola per davvero! Sono furiosa, quindi rimani ferma e zitta finché non mi passa.
Mi allontanai di un passo, intrecciando le mani dietro la schiena e borbottando sommessamente.
Il resto della giornata trascorse senza ulteriori inconvenienti, finché non arrivammo nei pressi del fondovalle al calare delle prime ombre. Non ero mai stata là.
- Senti...
- Che c’è, Esme?
- Ecco, non he che posso continuare a chiamarti “tu”, no? Dopotutto ci siamo un minimo conosciute, e...
- Basta - la interruppi con un gesto imperioso - Se devi chiamarmi, chiamami Doria.
- Doria - ripeté lei, come ad assaggiare il sapore di quel nome - È un cognome ligure.
Assentii e di nuovo mi nascosi dietro un silenzio astioso. Dopo qualche tempo, le confidai che non avevo idea di dove fossimo: avremmo dovuto chiudere indicazione. Entro una manciata di minuti, ecco che passava sul sentiero un giovane abbronzato quasi quanto me: vendeva ogni genere di oggetti scaramantici, dai peperoncini alle zampe di gatto.
- Scusate, noi cerchiamo... - disse Esme con l’aria più sicura che riuscisse ad ostentare. Ma quello la interruppe con un farfugliare confuso ed il mio cuore fece una doppia capriola.
- Scià me scuse... niatri çercamo o sentè pe Nus - un lampo di luminosa comprensione gli passò nello sguardo. Rispose: - Scie. A gh’è d’anâ de longo drito - indicò il sentiero alle sue spalle e sorrise.
- Grazie.
- Ma de ninte. Bon viægio - proseguì anche lui, ma solo quando fu lontano mi venne in mente di gridargli qualcosa ti molto importante.
- Ohua, ti resegone a Zena?
- Segùo - gridò in risposta - Perché?
- Saluamela!
- Ma che...? - fece per chiedere Esme, incuriosita, ma arrivammo in vista del paese e questo la distrasse - Ehi, c’è una fiera, ecco perché abbiamo incontrato tutti quei mercanti!
Infatti le nostre ultime tre ore erano state affollatissime. La ragazza sembrava entusiasta, lo testimoniava il rossore diffuso sulle guance; io invece mi nascondevo dietro di lei, evitando di mostrare il viso, innervosita dalla folla.
- La farmacia dev’essere di qua - mormorai per scrollarmi di dosso un po’ di quel disagio, che nonostante tutto non accennava a sparire. La spinsi in direzione della strada principale, sempre rimanendo alle sue spalle.
- Erboristeria Paone - disse Esme dopo qualche minuto - Ecco, ci siamo.
Fece per entrare con passo deciso, ma io la tenni per una manica e lei si voltò. Alzai lo sguardo verso il suo: si era fatta di nuovo altera come doveva. Il suo prezioso vestito era rovinato dai due giorni che aveva passato con me e, probabilmente, anche da tutte le botte che aveva preso.
- Io non entro - annunciai categorica, poi la interruppi sul nascere quando fece per replicare - Non pensare che abbia finito con te. Se ti rivedo, stavolta ti ammazzo per davvero.
Scrollò le spalle e sorrise: - Te l’ho detto, ormai non prendo più sul serio le tue minacce. Cadono sempre a vuoto.
Esme si voltò e sentii che l’avrei davvero rincontrata. Eppure, quando ormai era sulla porta della farmacia, mormorai un addio poco convinto, come a scongiurare quella sensazione.
- Arrivederci, Doria - replicò lei a voce alta, così alta che qualcuno si voltò incuriosito. Il mio istinto, allarmato, mi suggerì di sparire e in fretta, ma sapevo di avere ancora qualcosa da fare.
- Esme! - chiamai e lei si girò, pronta ad accogliere al volo un involucro di stoffa che le avevo lanciato.
- Nel caso mi rivedessi - gridai in sua direzione, e finalmente me ne andai. Lei srotolò il pacco di cenci, curiosa, ma lo richiuse in fretta quando vide brillare l’elsa di un pugnale.
Non era il mio, naturalmente: il mio era prezioso. Aveva un’aquila incoronata intagliata tra l’elsa e la guardia, la stessa che era tatuata sotto il mio orecchio sinistro: lo stemma di famiglia. Quell’altro che le avevo lasciato, invece, era stato trafugato anni prima dal suo stesso castello. Infatti, era identificato da una fenice ad ali spalancate.
  
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