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Autore: RitaWhitlock99    22/08/2013    4 recensioni
«E la tua canzone zio quando è nata?» Stavolta fu Alice a rispondere:«Be', Nessie, mi sa che questa è una storia lunga: addirittura bisognerebbe svelare l'origine del nome "Jazz".» Jasper si infastidì, punto sul vivo: «Alice, non ti sembra di esagerare? Quella storia è...» FF incentrata sulla coppia Alice e Jasper: il loro primo incontro, tra rimorsi, segreti, pazzie e una montagna di blues, jazz e passione. passando per un'iniziativa insolita a casa Cullen!
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio, Clan Cullen, Jasper Hale | Coppie: Alice/Jasper
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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Jazzies’

 




Pov Jasper- Capitolo 4
 
“Qui la vita è dura, vero, ma mai come quella che hai vissuto tu negli ultimi dieci anni: ogni parola obbrobriosa sarebbe da perdonare a te ma non a me.” Quell’allusione al passato, al mio passato, mi colpì e mi scosse anche se non del tutto: infatti, non sapendo per l’ennesima volta, quel giorno, il perché di ogni singolo evento, la consapevolezza che quella creatura, l’essere che mi stava di fronte scrutandomi con i suoi occhi enormi e liquidi, fosse in possesso di un mucchio di informazioni si era impadronita di me. Be’, in una semplice espressione, avevo capito che la sapeva molto lunga, la ragazza. Così, le risposi con cautela, sfoderando una delle mie migliori facce da poker: sentivo dal profondo che potevo fidarmi di lei ma il mistero aveva suscitato in me, fin dall’infanzia, prima di tutto diffidenza. «Mi perdoni la mancanza di tatto ma… Che altro sa del mio passato?» Chiesi, forse eccessivamente sospettoso. Si voltò di scatto, puntando il mare del suo sguardo (fino ad un momento prima assorto nella contemplazione di un punto indefinito tra i palazzi) nel mio: «Mi stai per caso accusando di qualche crimine con quel tono?» Disse, indispettita: era la prima volta che vedevo l’ombra dell’ira sfiorarle i bei lineamenti da quando… Ehm… Per così dire… Eravamo insieme. La rabbia dispettosa di un folletto… Difficile non sottovalutarla. «No, no: le chiedo umilmente perdono, signorina, se l’offesa. Il punto è che non capisco, o meglio, la mia razionalità si rifiuta di capire: il cuore (e mi scusi ancora per questo affronto) mi dice che noi siamo l’incarnazione del destino, insomma, c’è qualcosa di immenso dietro di noi e non puramente legato alla casualità, non crede? E poi lei è così… Sicura di ciò che dice: sa il mio nome, quello che ho passato in dieci anni e probabilmente ogni fatto della mia esistenza mentre io sono all’oscuro di tutto. Non le pare un po’ ingiusto? Cioè il sapere di se stessi e della vita degli altri?» Dissi tutto d’un fiato: avevo esagerato e ne ero conscio. Avevo tirato fuori tutta l’indecisione e quel tormento inespresso che mi attanagliava e allo stesso tempo avevo riversato all’esterno tutte le poche certezze in mio possesso sul suo conto. Ma me ne pentii subito: la ragazza s’incupì, il volto d’un tratto scavato, violaceo, quasi nero, sembrava morta per la seconda volta. «Non so niente della mia vita.» Rispose in un sussurro. Il clima emotivo era cambiato radicalmente: c’era una tristezza incombente, un muro di nebbia che uccideva ogni ottimismo, ogni raggio di sole. Mi sentivo male, mi vergognavo di essere stato così stupido ma decisi di intervenire e l’atmosfera migliorò quanto bastava per permettermi di chiedere: «Perché?» Lei rise, una risata amara che faceva accapponare la pelle per la totale assenza di ironia, la risata della morte: «Mi chiamo Alice Mary Brandon. E basta. “Dove vivevo? Chi erano i miei genitori? Quando sono nata? Chi sono? Per quale motivo sono ciò che sono? Che senso ha la vita? E qualcuno mi ha, forse, mai amata?!” Pensi che io la sappia, Jasper? Pensi che io abbia delle risposte? No, no: io non ricordo niente. Il vuoto totale. Una mattina (era inverno, credo) mi svegliai: la notte era passata stranamente senza incubi (chissà come avevo la consapevolezza di averne sognati tanti per anni…), un sonno profondo e tranquillo, quasi come la morte. Ero sdraiata su un letto, o meglio, un materasso senza coperte, senza  cuscino, senza la coscienza d’essere un maledetto materasso, lacero e sporco si un liquido rosso- marrone. Le sbarre erano, in realtà, quelle che mi circondavano: c’erano alcune arrugginite, coperte di sudiciume e polvere che odoravano di chimica, e altre più spesse, intrecciate alle ragnatele davanti ad un buco di finestra, da cui filtrava la pallida luce malata    del mattino. Mi alzai e toccai con il palmo della mano le pareti grezze e grigie, poi la cassettiera di legno, squallida e sola in quel buco di stanza, ed infine le sbarre della porta. Un silenzio mortale. Niente. Pensandoci bene, la mia vita è come quelle quattro mura: un buco senza tempo. Sul piano del mobile, un biglietto candido ma orrendamente profanato dallo stesso liquido di prima: vergato in eleganti caratteri “Perdonami, Alice Mary Brandon. G.L.” (sapevo leggere?! Si…) Seppi inconsciamente che era il mio nome ma non ricordavo perché mi chiamassi così, perché mi trovassi lì e che cosa fosse quel posto. C’era puzza di bruciato ed infatti l’inferriata alla porta era annerita come il muro di fronte. Forse un incendio. La gola mi bruciava, le vene secche e aride come corde che mi tagliavano i polsi: rivoltai la stanza da cima a fondo per trovare dell’acqua ma l’istinto mi diceva che dovevo bere il liquido rossastro. Sangue. Ma ci arrivai dopo due giorni. Urlavo ma nessuno accorreva. Battevo i pugni sul muro, ma nessuno sentiva. Cercai di piangere ma le lacrime non arrivavano.» Ero inorridito. Punto. Completamente svuotato. Alice si interruppe, gli occhi lucidi e lo sguardo in trance come se non fosse accanto a me. «È terribile…» aggiunse poi «… Non provare dolore, essere all’oscuro di tutto e rimanere indifferenti. Come vorrei scavare all’indietro, buttare la libertà che mi ritrovo per stringere tra le mani un affetto, la maniglia della porta di casa, un lenzuolo candido stirato con amore da mia madre e dormire, sognare una volta per tutte un mondo diverso da questo schifo.» Dio… Alice Mary Brandon tu, così piccola, così fragile, così di bell’aspetto come avevi potuto nascondere fino ad allora un simile orrore? Mi sentii stordito, raccapricciato: delle ingiustizie che io avevo incontrato lei non ne era mai stata sfiorata, di quelle a me ignote, invece, ne era rimasta ferita e vinta. Ero completamente inadeguato (come sempre, del resto…), stupido, cretino, un arrogante che aveva saputo prima guardare in fondo al cuore di chi aveva di fronte e poi si era lasciato cullare dall’apparenza, dall’evidente semplicità di restare in superficie. Egoista o egotista? La scelta era più che difficile ma ormai non aveva senso: l’uno o l’altro si erano comportati in maniera riprovevole, se non bestiale. «Mi dispiace, signorina Brandon: sono stato cinico, disgustosamente curioso di ciò che pensava, pur conoscendo le sue emozioni. Ma mi permetta di dire una cosa: chiunque abbia permesso che un’innocente come lei si trasformasse in un’estranea senza la percezione di se stessa, dovrà scontare le pene dell’inferno o per volere del Fato (perché di Dio non ho il diritto di parlare nella mia condizione) o per mano mia. Le do la mia parola che lei sarà vendicata, che la sua vita sarà riscattata: lo giuro sul mio onore.» Dissi con voce rotta, tremante di rabbia e repulsione. Nel mezzo dello sconforto che solcava i suoi lineamenti, le sue labbra si illuminarono di un sorriso mesto, dolce e caldo come l’aria d’estate: «Maggiore Whitlock, non ho bisogno di vendetta e lei non ne ha di altro sangue da versare inutilmente. Jasper, io…» La interruppi con un dito ammonitore a pochi millimetri dal suo profilo: «Shhh… Non mi ricordi i miei peccati nel momento in cui vorrei compierne degli altri: magari, per rimediare alla malvagità altrui con nobiltà e giustizia.» «La giustizia non è morte.» Mi rimbeccò lei. Aveva ragione: gli ideali sopravvivono anche se le civiltà crollano sotto il peso dei secoli. Nel bene e nel male. La ignorai e ripresi: «E non mi ricordi il sangue, soprattutto, perché potrei diventare cattivo: anzi, per punizione le chiedo il permesso di darle del “tu”. Posso?» Stavolta, il timido sorriso divenne un pozzo di felicità e forza d’animo, l’ombra nera che aveva attraversato il suo viso si dileguò come se non fosse mai esistita: «Mi stupisce Maggiore: non sapevo che i gentiluomini fossero in grado di scherzare e lei ne è capace in maniera così sottile e delicata da sembrare un inglese nonostante i suoi modi molto americani. No! Darmi del tu potrebbe ledere questo rarissimo miscuglio. E poi… Potresti scoppiare a piangere o staccarti le braccia a morsi per avermi “mancato di rispetto”, vero?» Be’, almeno ero riuscito a girare il clima emotivo come una frittata: chissenefregava del resto (comprese le mie maniere)? Meglio stare al gioco… «Oh, ma lei mi calpesta signorina Brandon, lei mi distrugge! E io ti saluto Alice!» E allungai il passo verso la direzione opposta. Sentii all’istante la sua manina ficcarsi nella carne e tirare il braccio con foga: «Jasper! Maledetto scemo! Potevi chiamarmi per nome da quando hai chinato la testa: non farne un caso capitale!» Capii dal suo sguardo spaventato che ci era cascata e aveva paura. Paura che rimanesse sola: i miei sensi, cioè, il mio dono mi diceva che quel timore folle l’avrebbe trafitta, dilaniata e uccisa del tutto dopo che l’avevo fatta aspettare parecchio. Tranquillizzai l’ambiente e decisi di rimanere sullo scherzo: «Che dici, sono bravo come attore?» Rimase di sasso e con gli occhi ridotti a fessure disse: «Diciamo che non sei niente male ma io ho l’esclusiva della sorpresa. È incontrovertibile.» Si mosse con grazia, quasi danzando e me la ritrovai alla mia destra: velocissima, non c’era che dire, ma in queste cose il maestro (purtroppo) ero io. Ci trovavamo in uno dei tanti vicoli della periferia, stretto, raccolto e abbastanza lacero e sporco da non insospettire nessuno. «Ti piace ballare, Alice?» Domandai, retorico, senza impedire a me stesso di indugiare sul quel nome abbastanza nuovo alle mie labbra, dolce, sottile, delicato che mi esasperava e mi piaceva alla follia. Alice… «Secondo te?»
«Molto.»
«Allora prendimi, Whitlock.»
E cominciò a danzarmi intorno: in realtà correva, velocissima, ma quando cercavo di cingerla per la vita, afferrarla in qualche modo, mi lasciava stringere il nulla. Lei rideva e io mi irritavo sempre di più: avevo ucciso centinaia di vampiri, chi in ore chi in un secondo, utilizzando l’elemento sorpresa e ora non riuscivo nemmeno a sfiorare una così esile ragazzina (pur sempre un essere soprannaturale, intendiamoci)! Non so per quanto tempo continuammo con la nostra coreografia: poi Alice saltò su una scala d’emergenza mezza arrugginita e, in punta di piedi, fece l’equilibrista sul corrimano. Nonostante sapessi che era impossibile che si facesse male e, ancor prima, che cadesse per la prima volta lo sbalordimento, la confusione, l’estasi e la felicità ce avevo provato fino ad allora svanirono in un buco senza fondo. Mi sentivo perso, come quando una doccia gelida penetra così all’interno della pelle da sentirla scorrere nelle vene e nelle ossa: il mio cervello era estraneo a questa situazione. Che mi succedeva? Poi mi ritornò alla memoria l’immagine del canyon di notte e di tre donne sfiorate dalla luce della luna… Avevo paura, per la seconda volta in centocinque anni, avevo paura. Ma era diverso stavolta: non volevo perdere Alice, allora, perché… Ormai tenevo a lei  come il marinaio all’ancora durante la tempesta, come il poeta alla notte, come il vagabondo alla luce, come la vita alla nascita. Con uno scatto feci un salto di una decina di metri, la cinsi al volo e con lei tra le mie braccia, piccola e leggera, atterrai sull’asfalto. «Non farlo mai più.» Dissi in un sussurro. Lei mi fissava serissima e io di rimando: c’era corrente elettrica tra i nostri sguardi, un’aria di torva sfida. Poi Alice scosse la testa e mi rise in faccia: «Sciocco, come puoi pensare che io possa morire? Sei proprio tonto… Ahahahahahah…» «Non fare la bambina: io… Ho… Paura, credo. Si, cioè… Non voglio che per motivi  così stupidi, senza che ce ne sia una vera ragione, io possa perderti. Preferirei che adesso qualcuno mi fulmini o mi inondi d’acqua, invece di pensare al dolore che proverei se tu non ci fossi.» Dissi, ferito. A volte le parole influenzano la volontà altrui e la materia circostante, allora… PLAFSH! E ci buscammo tutti e due una cascata di acqua sudicia e schiumante di detersivo in testa: alzammo entrambi gli occhi al cielo, lei ancora tra le mie braccia, ma non vedemmo nessuno. Solo le urla sguaiate di una ragazza: «BRUTTO BASTARDO! MI HAI ROTTO LE SCATOLE CON LE TUE BUGIE! QUA DENTRO NON CI RITORNI, HAI CAPITO? VAI A FARE IN CULO TU E LE TUE PUTTANE!!!» E di rimando una voce flebile e implorante la supplicava. Complessivamente dal quinto piano volarono tre secchi d’acqua, due scolpaste, un telefono e quattro valigie. Noi, sotto, schivavamo i colpi e ridevamo come due deficienti, inzuppati dalla testa ai piedi. Ad un certo punto decidemmo di andarcene, anche perché stava per piovere e la nostra situazione sembrava quella di due pesci appena pescati. Rimisi giù Alice: «Senti, che ne dici di venire con me al Jazzies’? Tanto ormai è sera e lo spettacolo inizia tra due ore…» Propose lei. Ci pensai su per qualche istante: non mi sarebbe dispiaciuto restare in compagnia di Alice per un po’ di tempo (anzi…) in quanto poteva essere una buona occasione per dirci tutto ciò che era nascosto dietro i reciproci muri e poi avevo troppa sete per tornare da Fred. Ma questa era anche una valida necessità per non seguire assolutamente il suo invito. «Quanta gente ci sarà?» Chiesi. Lei si fece pensosa: «Sinceramente non lo so di preciso: quando io e Shug andiamo da qualche parte di solito è tutto esaurito ma conoscendo le dimensioni del locale non credo che possano entrarci decine e decine di persone, quindi non preoccuparti.» Feci un sorriso malinconico: «Alice non scherzare: non so per quanto tempo riuscirò a trattenermi su una sedia, schiacciato da un sacco di gente ai lati.» «E chi l’ha detto che devi essere uno spettatore?» Buttò lei in mezzo. Panico da esibizione, ansia e tachicardia figurata. “Cazzo, Jasper, sei nei guai.” «Sul palco?» Azzardai. «Forse.» Mi rispose con un’espressione angelica stampata sul volto. La guardai sconsolato, supplicandola mentalmente di lasciar perdere quell’idea pericolosa. Mi porse la sua candida mano: «Fidati.» E nei suoi occhi, nel fuoco e nella bellezza che emanava, capii che potevo fidarmi davvero. Quando la strinsi eravamo già nel vento.   
  









Ok, ok: lo so. Questo capitolo è abbastanza inutile  ma era troppo lungo per essere attaccato al quinto e poi... Be',un momentino di solitudine tra Alice e Jasper ci voleva, no? ;) Si, va bene, chiudo questa boccaccia una volta per tutte e mi dileguo. Prima, però, un ringraziamento a chi ha messo la storia tra le seguite cioè chacot, jbone_mery, vampilly, nothanks e Scannawine: mi farebbe molto piacere avere una vostra recensione, tanto per capire le impressioni che questo sclero vi ha lasciato. Un bacio e un abbraccio va a Cara_mason Cullen che ha incoraggiato la stesura del capitolo, oltre ai miei più calorosi complimenti per le sue divertentissime storie.  SE LEGGETE RECENSITE!!! Criticoni, "positivisti" e neutrali sono tutti ben accetti! L'opinione è il profumo della vita!!! Oops, dimenticavo... I miei più sinceri ringraziamenti vanno anche a twilight1999, alicetta hale e emanuelapezzella che hanno inserito la storia tra le preferite e a Endless Twilight che l'ha annoverata tra le ricordate! Ragazze, la mia porta è sempre aperta: un commentino piccino mi farebbe molto felice! ^^

RitaWhitlock <3

 

  
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