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Autore: Shallation    24/08/2013    1 recensioni
Dall’Inno a Iside:
“Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Buongiorno a tutti cari lettori!

Sono tornata per presentarvi un'altre "Seconda Madre", un'altra donna che ha deciso di prendere in mano le sorti della propria vita, consapevole che nulla è più importante dell'essere responsabili delle proprie scelte.

Come sempre, 

Buona lettura a tutti!

Glo





Gerosa, 1944 d.C.


 
Lo schiocco delle lenzuola immacolate stese ad asciugare e smosse dal vento, era da sempre uno dei suoi suoni preferiti, la rilassava, le sgombrava la mente per qualche meraviglioso istante, sollevandola, anche se per poco, dai pensieri cupi che la assillavano.
Fin da quando la sua piccola Angela era stata capace di reggere in mano un cestello, Teresa l’aveva condotta con se durante il rito del bucato, insegnandole con amore materno e infinita pazienza il modo migliore per sciacquare i panni nel lavatoio appena fuori dalla stalla.
Nel tempo le aveva mostrato come miscelare la cenere tolta dal focolare della ca’ egia* conla lisciva, una sostanza biancastra e polverosa ottima per sbiancare i capi ingialliti dall’uso.
La piccola Angela, Angelina come amavano chiamarla in contrada, partecipava con entusiasmo a quell’attività da adulti, trasformando in gioco l’occupazione quotidiana.
Anche quel giorno d’inizio estate madre e figlia erano intente a stendere i panni sul filo teso nei pressi della mezza**, tra il muro posteriore della casa e la rete che delimitava il pollaio. Purtroppo l’influsso calmante dei gesti ripetitivi, del profumo del bucato appena sciacquato e della vocetta allegra della figlia che cantava, non riuscivano a impegnare completamente la mente della donna, oppressa da preoccupazioni impellenti.
All’apprensione per le sorti del figlio Batistì e di suo marito Gelmo, in quel giorno di sole si era aggiunta la pena per la salute cagionevole del piccolo Costante, figlio della sua vicina di casa.
Da quando era iniziata la guerra, il medico condotto che serviva tutta la Vallata, fin lassù alle pendici delle Orobie, era sempre più impegnato a ricucire i soldati squarciati dai colpi nemici, abbandonando progressivamente quelle pecorelle smarrite.
In paese lei era l’unica persona in possesso di una qualche sorta di cognizione medica, dai più era considerata una “mezza dutura”, infatti le chiedevano consiglio anche in merito a problematiche estremamente lontane dal suo ambito professionale.
In gioventù Teresa aveva potuto lasciare per un anno i monti del suo amato paesello, per immergersi nell’aria fumosa del capoluogo lombardo, dove aveva frequentato il corso per diventare levatrice, grazie al lascito di una zia svizzera estremamente lungimirante.
Tornata in Valle aveva accantonato presto i suoi sogni di una vita come levatrice condotta, le dura realtà di una famiglia numerosa e povera l’aveva sopraffatta, costringendola ad occuparsi dell’anziana nonna e dei fratellini più piccoli, perennemente malati, cenciosi e pieni di pidocchi.
Qualche anno dopo, prima che compisse i ventidue anni, Teresa aveva sposato Guglielmo, un bergamì suo coetaneo che fin dalla più tenera età l’aveva guardata con occhi innamorati, aspettando solo il momento opportuno per chiedere a suo padre il permesso di sposarla, promettendole una vita migliore, povera e appesantita dal lavoro, ma dignitosa e piena d’amore.
Gli anni successivi erano trascorsi serenamente, scanditi dalla nascita dei loro piccoli: l’arrivo di Gianbattista, il primogenito, aveva precocemente benedetto il focolare dei due sposi, seguito cinque anni dopo dalla nascita di Angela, una creatura così piena di dolcezza e intelligenza, da rivaleggiare con gli essere alati da cui prendeva il nome.
Quando poi, tre anni prima la loro casa si era nuovamente riempita dei vagiti del piccolo Antonio, Tunì come il nonno paterno, la gioia della famiglia sembrava giunta ad un culmine meraviglioso. Nonostante gli affanni del lavoro nei campi e le difficoltà a sfamare quelle piccole bocche urlanti, la vita di Teresa e Gelmo proseguiva serena.
In quei momenti benedetti dal Signore, quando la donna si addormentava sfinita dopo una lunga giornata di lavoro, stringendo al petto Tunì, cullata dal respiro regolare del marito steso al suo fianco, voci malevole invadevano il suo animo, sussurrandole che quel periodo in apparenza perfetto avrebbe sicuramente avuto una fine repentina.
 
E così era stato, era giunta la fatidica primavera del ’40, e con essa la guerra, quel mostro famelico che avrebbe sconvolto le loro vite, in un vortice inarrestabile di violenza e sangue. Durante i primi anni, quando gli scoppi delle bombe e le raffiche di mitraglia erano solamente un eco lontano, proveniente da paesi dai nomi esotici per quelle popolazioni che mai avevano oltrepassato il limite del fiume Brembilla, che segnava il fondovalle; Gelmo e Teresa avevano resistito alla miseria e alla fame, cercando di garantire ai loro figli almeno un pasto al giorno.
La polenta, compagna fedele delle tavole bergamasca, veniva accompagnata con quanto offriva il bosco: noci, nocciole, talvolta erbe amare o funghi nella stagione autunnale. Nel piccolo orto di famiglia, Teresa coltivava verze, coste bianche, carote e sedano per lo più, essenziali per preparare la minestra che riempiva i piccoli stomaci dei figli ogni sera, evitando che i crampi li tenessero svegli durante le lunghe ore notturne.
Quando la donna, dopo quasi tre anni dall’entrata in guerra dell’Italia fascista, si stava ormai abituando a quella routine di lavoro massacrante e fame trascurata, un nuovo evento funesto era calato sulla Nazione, mandando il suo mondo definitivamente in pezzi.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, il suo amato Guglielmo, uomo solido e paziente, lavoratore instancabile e padre severo ma giusto, aveva deciso di schierarsi con le brigate dei partigiani, che passavano per i paesi reclutando mani che imbracciassero i fucili contro i crucchi invasori e i fascisti traditori. Nonostante le suppliche della moglie che gli chiedeva di pensare alla propria famiglia, e di restare a Gerosa per difendere le loro case, l’uomo aveva risposto con una singola frase lapidaria: “E’ quello che sto facendo, sto pensando al bene della mia famiglia.”
Come se non bastasse, Gelmo aveva portato con se anche Batistì, che a sedici anni compiuti si considerava ormai un uomo fatto e finito, perciò aveva implorato il padre di portarlo con se: “Sono grande ormai, voglio stringere un fucile e spaccare la testa a tutti i tedeschi che oseranno mettere piede nei nostri boschi, ti prego padre, permettimi di dimostrare il mio valore.”
E così erano partiti una mattina, con l’alba brumosa che rischiarava appena il cielo sopra la Rostegana, tra le lacrime di Teresa, della piccola Angelina e di Caterina, la giovane fidanzata di Battista, inconsolabile tra le braccia della madre.
Da allora era passato quasi un anno interminabile, fatto di fatiche e privazioni per Teresa, rimasta sola a crescere due figli piccoli e a occuparsi della casa e delle bestie.
Però, in quel tempo di guerra, la donna aveva potuto ricominciare ad esercitare l’arte per cui aveva studiato da giovane, assistendo le donne del paese durante il parto, prendendosi cura di loro nel puerperio e assicurandosi che i loro figli crescessero in buona salute, aiutati dai rimedi naturali che offriva la montagna.
Servendosi della saggezza popolare tramandatale dalla nonna, che a suo tempo era stata una “medegota”, una donna esperta di erbe e di medicina dei poveri, insieme alle pratiche curative apprese a scuola, Teresa cercava di offrire assistenza a chiunque giungesse a bussare alla sua porta. Da qualche tempo arrivavano donne perfino dai paesi limitrofi, dopo aver percorso kilometri di mulattiere in mezzo ai boschi, si presentavano sull’aia della sua fattoria, implorandola di aiutarla, lei ultima speranza quando la medicina ufficiale falliva o latitava.
 
La scena che quella mattina l’aveva accolta all’ingresso nella casa di Lucia, la donna che insieme alla sua famiglia ravvivava la contrada abitata da Teresa, era una scena che le pareva di aver visto milioni e milioni di volte.
La donna l’aveva mandata a chiamare dal figlio più piccolo, un mucchietto di ossa in perenne movimento, che aveva percorso il poco spazio che separava le loro case veloce come un filmine, urlando per tutto il tempo: “Teresìììì! Teresììì!”
La donna, allarmata dalle urla era uscita sulla soglia, asciugandosi le mani in uno strofinaccio, dal momento che stava pulendo le verze dell’orto, che stufate avrebbero accompagnato la polenta quotidiana.
Puntando il suo sguardo scuro sul bambino macilento che saltellava di fronte alla sua porta, la levatrice parlò con voce sommessa, così diversa dal tono agitato e venato di terrore del bimbo: “Ginetto, cos’el sucedit?*** Perché urli come se avessi visto il diavolo?”
Riprendendo fiato il piccolo Gino rispose con voce flebile alle domande della donna: “Mamma dice che Costante sta male, brucia che sembra fuoco e continua a tossire come il nonno.”  gli occhi del bambino erano lucidi di lacrime trattenute.
Teresa non stette un momento a pensare, lanciò lo strofinaccio che teneva in mano in direzione del tavolo della cucina, poi seguì il bimbo verso casa sua.
Entrando nella fresca oscurità della cucina fumosa, Teresa trovò la madre di Costante e Gino seduta al tavolo, che si tormentava le mani, lo sguardo fisso nel vuoto.
Appena sentì il respiro della donna unirsi ai suoni della stanza, Lucia alzò la testa, negli occhi un’espressione sconsolata: “L’è là fo’ Teresì, so pio’ se fa, gl’ho proade tote!”****
Rivolgendole uno sguardo fermo, la nuova venuta si diresse verso la stanza che sapeva essere dei figli della donna. Appena varcata la soglia, le narici di Teresa vennero investite dall’odore sgradevole e dolciastro della malattia, unito a quello pungente delle erbe utilizzate dalla madre nel vano tentativo di curare il figlio.
Con passi lenti la donna si avvicinò al letto posto al centro della stanza, dove giaceva il corpicino di Costante, sepolto sotto strati e strati di pesanti coltri.
Solo il piccolo volto sbucava oltre il bordo delle coperte, sulla pelle pallida spiccavano due gote rosse come mele, già da lontano poteva intuire il calore bruciante che emanava la cute del bambino.
Sedendosi con cautela, Teresa posò la mano fresca sulla fronte ardente del piccolo, valutando con il tatto quello che già aveva intuito con la vista e l’olfatto: Costante aveva contratto una qualche febbre che, in quegli anni difficili, aveva più volte falcidiato la popolazione locale, colpendo in particolar modo anziani e bambini.
La donna non sapeva dare un nome alla patologia che affliggeva quel giovane corpo, però conosceva alcuni rimedi che avrebbero potuto tenere sotto controllo la febbre, permettendo all’organismo di combattere attivamente contro il male che lo affliggeva.
 
Innanzi tutto la levatrice si organizzò per alleggerire il carico di coperte, consentendo al bambino di respirare meglio e favorendo la sudorazione, necessaria perché la febbre calasse, donandogli sollievo.
In seguito la donna spalancò la piccola finestra che si apriva nella parete di fianco al letto, per areare il locale, facendo scomparire quell’aria malsana e opprimente.
Già solo con questi piccoli accorgimenti il bambino parve star meglio, il respiro era meno affannoso e il bollore del volto parve attenuarsi.
“Perché lo scopri Teresì? Non vedi che trema?” la voce di Lucia alle sue spalle la fece sobbalzare appena, ma la levatrice riacquistò velocemente il controllo.
“Il brivido è un buon segno, significa che il corpo si sta raffreddando, queste contrazioni muscolari servono per contrastare il dissipamento di calore, fidati di me, il tuo piccolo Costante starà meglio.” la voce di Teresa era modulata su un tono calmo e rasserenante, che la donna aveva imparato a mantenere anche nelle situazioni più frenetiche, quando la paura le attanagliava le viscere, ma allo stesso tempo non poteva permettere che le offuscasse la capacità di giudizio.
Gli occhi di entrambe le donne corsero immediatamente al piccolo disteso nel letto, in quel momento il torace scheletrico era squassato da un violento attacco di tosse, quelle crisi stavano logorando lentamente il corpo di Costante, rubandogli l’energia necessaria per guarire. Senza indugio Teresa chiamò a se Ginetto, e guardandolo fisso negli occhi parlò scandendo bene le parole: “Corri a casa mia, nella credenza in cucina, appena dietro il barattolo del sale troverai un vasetto con il coperchio rosso, vai e portamelo subito. Et capit?” lo sguardo della donna non lasciò mai le pupille dilatate del bambino, che annui freneticamente “Alà, cor!”***** e lo spronò con una piccola spinta della mano.
Lucia e Teresa non dovettero aspettare molto prima che il bimbo fosse di ritorno portando quanto richiesto. La comare afferrò il barattolo dalle mani luride di Gino e dopo avergli rivolto un’occhiata colma di gratitudine, svitò il coperchio e immerse medio ed indice nella sostanza balsamica contenuta all’interno: “Questa speciale pomata è composta dell’estratto di piccole pigne che si trovano nei nostri boschi, ci vuole quasi un anno di pazienza e di lavoro perché il prodotto sia finito e utilizzabile, ma poi è un toccasana per ogni affezione della gola e dei bronchi.” il discorso della donna era chiaramente rivolto alla madre del piccolo malato, che d’altronde ascoltava attentissima le parole della levatrice, che aveva scoperto il petto di Costante e ora vi stava spalmando la pasta profumata con gesti lenti e circolare: “Lucia, due volte al giorno dovrai fare esattamente come sto facendo io, friziona il più possibile il composto, finchè non sentirai che la pelle l’ha assorbito. In qualche giorno dovresti poter notare i primi segni di miglioramento.”
La donna annuì brevemente, poi parlò: “Per calmare gli eccessi di tosse cerco di fargli bere latte caldo e miele, posso continuare a farlo?”
Teresa pensò fugacemente al modo in cui la sua amica si stava rivolgendo a lei, come se fosse un dottore, pendendo dalle sue labbra, e quasi dovette reprimere un sorriso: “Certo Lucia, continua a fargli bere il latte, lo nutre e lo tiene in forze, non può fargli di certo alcun male.”
La levatrice sentiva che il suo compito lì era concluso, almeno per il momento, perciò si alzò dal letto e fece per imboccare l’uscio. Prima di varcare la soglia, però, il suo sguardo si posò sull’immagine della Madonna appesa al di sopra della testiera del letto, e mentalmente rivolse una preghiera alla Madre: “Maria, proteggi questo piccolo, sorreggi il suo passo nel cammino impervio della malattia. Noi uomini non possiamo far nulla contro la volontà di Dio, ti prego perciò, intercedi per lui.” poi dopo aver rivolto un breve cenno di saluto alla padrona di casa se ne era andata.
Ora, accecata dal sole che le scaldava la pelle, mentre la brezza leggera le scompigliava le ciocche sfuggite alla stretta crocchia in cui li legava ogni mattina, la donna rivolgeva i propri pensieri alle sorti di quel piccolo innocente e continuava a sussurrare preghiere e suppliche alla Vergine, consapevole che solo lei, in quel momento, reggeva tra le mani il fragile filo di quella vita.
 
 
 
 
 
 
Teresa osservava la polvere che danzava nell’aria del fienile, rischiarato da sottili raggi di sole che penetravano attraverso le feritoie poste appena sotto il tetto, necessarie a far respirare il fieno durante il suo naturale processo di fermentazione.
Ogni volta che doveva riflettere, per trovare un poco di solitudine e di pace, la donna si recava in quel posto pieno di ricordi gioiosi, ora dal sapore dolceamaro.
Quel luogo le portava alla mente la prima volta che il suo corpo e quello del marito si erano uniti nell’atto d’amore, poteva ancora percepire le sue mani callose che l’accarezzavano, poteva vedere le iridi screziate sospese sopra il suo volto e udire i loro sospiri intrecciati che riempivano il silenzio del fienile.
Una lacrima solitaria le sfuggì dall’angolo dell’occhio, disegnando un sentiero umido e salato lungo la sua guancia, andando a morire sulle sue labbra.
Pensare a quel tempo lontano in cui lei e Guglielmo erano stati una cosa sola, uniti e inseparabili, pronti a combattere contro il mondo, purché insieme, ora era uno strazio insopportabile.
 
“I tedeschi hanno raggiunto l’avamposto della brigata vicino alla Corna Quadra. Erano in tanti, armati e inferociti da giorni di marce forzate. Sono calati sui nostri come un branco di lupi affamati, li hanno incalzati fino alla scarpata degli Asini, prendendoli in trappola”
 
Le parole del giovane che era sopraggiunto quella mattina in bottega, sconvolgendo gli astanti con notizie funeste, le tormentavano il cervello.
 
“Uno dei partigiani è morto nell’imboscata. No, non so dirvi chi sia, certamente un uomo adulto, dicono un padre di famiglia, ma non chiedetemi altro.”
 
Nell’udire quelle parole Teresa aveva sentito il cuore frantumarsi dietro lo sterno, dentro di se qualcosa le diceva che l’uomo, che ora giaceva nel bosco come carne per i vermi era Gelmo.
Nella mente della lavatrice si disegnò il viso del marito, la pelle bruciata dal sole di decine di estati passate nei campi, le piccole rughe che comparivano agli angoli degli occhi quando sorrideva, nelle rare occasioni in cui il suo animo si risollevava dalle preoccupazioni quotidiane. Sentiva che non avrebbe più rivisto quel volto, non avrebbe più potuto baciare la linea marmorea della mandibola coperta di barba o passare le mani sulle sottili rughe della fronte, tentando inutilmente di scacciare i pensieri cupi che affollavano quella mente profonda come l’oceano.
Torturarsi con quelle memorie era davvero troppo doloroso per Teresa, ciò che doveva fare in quel momento era trovare un modo per conoscere la verità, per sapere cosa ne era stato del marito… e del figlio.
Il giovane aveva parlato di un unico caduto durante l’attacco, ma poco dopo aveva aggiunto alcuni particolari ancora più agghiaccianti.
 
“A Peghera è giunta voce che il comandate tedesco ha dato ordine di fucilare un prigioniero al giorno, finchè qualcuno non rivelerà il luogo in cui si trova il resto del gruppo. Pare che abbiano già cominciato ad eseguirlo, e che lo porteranno avanti con estrema precisione, da bravi crucchi figli di puttana quali sono!”
 
Se in merito alle sorti del marito, Teresa sentiva di essere giunta ad una certezza, per quanto spaventosa essa fosse, rispetto a quelle del figlio la donna non aveva il coraggio di soffermarsi a pensare. Non riusciva neppure ad immaginare che il suo giovane Batistì, il bambino che fin da piccolo, ogni mattina si era arrampicato sul letto dei genitori per svegliarla con un bacio, fosse stato trucidato spalle al muro come una bestia al macello.
In realtà il pensiero che il figlio fosse ancora vivo, magari rinchiuso in qualche grotta, sorvegliato a vista da uomini armati in attesa della morte, spaventato e tremante la atterriva maggiormente.
“Non il mio Battista, lui è così buono, non farebbe del male ad una mosca, perché quei maledetti dovrebbero accanirsi su di lui?”la donna cercava conforto in pensieri insensati di quel tipo, tutto pur di impedirsi di pensare al corpo flessuoso del figlio riverso al suolo, gli occhi identici a quelli del padre spalancati e un fiotto di sangue che colava da un foro perfettamente al centro della fronte.
 
Quella mattina, dopo essere uscita barcollando dal negozio, accecata dallo shock era andata a sbattere contro la giovane Caterina che giungeva in direzione opposta.
“Teresa buongiorno.” senza indugio la ragazza l’aveva afferrata per le spalle, sostenendo il corpo della donna che rischiava di crollare a terra “Cosa è successo? Si sente male, forse?”
“Nulla, nulla bambina mia, non ho visto il gradino, sono così di fretta che l’ho completamente dimenticato.” Teresa aveva cercato di sviare il discorso, incapace di sostenere quello sguardo vivace ma preoccupato.
La donna era fuggita, adducendo scuse prive di senso per giustificare l’impazienza di andarsene, la verità era che non aveva la forza di guardare il viso della giovane senza che tutto il suo essere esplodesse in milioni di schegge di dolore.
Percorrendo velocemente la strada verso casa, la mente della donna era un turbinio disordinato di ricordi, frammezzati da pensieri nuovi e tormentosi, che Teresa non poteva scacciare completamente.
La donna non riusciva a impedirsi di pensare al figlio, dentro di se tremava all’idea che il suo piccolo Batistì non avrebbe potuto mai più sorriderle mostrandole gli incisivi leggermente storti, oppure che non l’avrebbe più visto portare Angelina a cavalcioni lungo tutto il perimetro della fattoria, fingendosi Nino, il loro mulo da soma.
Ma ciò che rischiava veramente di condurla alla pazzia, non era tanto il pensare a ciò che Battista non avrebbe più potuto fare, ma quanto pensare a ciò che il ragazzo non avrebbe mai fatto. Teresa represse un singhiozzo: mai il suo bambino avrebbe potuto conoscere la gioia di stringere il proprio figlio tra le braccia, mai avrebbe potuto scoprire cosa fosse l’orgoglio paterno, l’immensa paura unita all’enorme felicità di vedere il frutto del proprio amore che muove i primi incerti passi nel mondo.
Nulla di tutto questo avrebbe rallegrato la vita di suo figlio, ora che forse la fredda oscurità della morte l’aveva chiamato a se, troppo giovane perfino per conoscerla quella strega senza cuore che rubava i figli alle madri, i mariti alle mogli, i genitori ai figli.
 
Teresa venne riscossa dal flusso burrascoso dei propri pensieri dal rumore croccante del fieno, che veniva schiacciato da piccoli piedi scalzi. Prima che la donna potesse prepararsi ad accoglierlo, Tunì le si gettò addosso, stringendole le braccia al collo e costringendola a sdraiarsi nel fieno profumato.
“Mamma, Ginetto è andato a casa e io mi sentivo tanto solo.” il piccolo parlava con una vocetta lieve, serrando la stretta delle braccia contro la madre.
La donna gli accarezzò leggermente la schiena in lenti gesti circolari, inspirando profondamente il suo profumo nell’incavo del collo, quel sentore di lavanda, unito alla fragranza del fieno l’aiutarono a riprendere le redini della propria psiche sconvolta.
Per qualche meraviglioso minuto, madre e figlio rimasero distesi in silenzio, godendo della reciproca vicinanza, in un abbraccio che racchiudeva l’intero mondo.
Poi Tunì ruppe il silenzio, portando il gelo nel cuore della madre: “Mamma, quando tornano papà e Batistì?” la voce del piccolo era attutita e strascicata, in procinto di appisolarsi nel calore di Teresa.
La donna non ebbe il coraggio di rispondere a quella domanda, sentiva che se avesse forzato le parole a lasciare le sue labbra, i fragili argini che fino a quel momento  avevano impedito al fiume delle sue lacrime di esondare, avrebbero ceduto, trascinando il suo autocontrollo con loro.
Perciò Teresa non rispose, strinse ancor più la presa sul piccolo corpo del figlio e affondò il viso tra i suoi riccioli spettinati, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, nel disperato tentativo di non crollare a pezzi.
 
 
 
 
“Sta andando tutto bene Marì, per l’epoca gestazionale in cui ti trovi il tuo bambino sembra essere cresciuto bene e anche tu mi sembri in ottima salute.”
La donna di fronte a Teresa si stava ricoprendo il ventre ingrossato dalla gravidanza, alzandosi con fatica dal divano dove si era stesa per poter essere visitata dalla levatrice.
Maria detta Marì aveva mandato a chiamare la comare in tutta fretta, allarmata da alcune macchie rossastre apparse quella mattina sul cotone spesso delle mutande.
“Ma cosa era quel sangue?” la voce della futura madre era apparentemente tranquilla, ma il suo sguardo tradiva un’agitazione non del tutto scomparsa.
Teresa percepì la supplica negli occhi della donna, la levatrice sapeva bene quanto ci si sentisse fragili in situazioni come quella, così impotenti nei confronti della natura dal corso inesorabile. La comare si avvicinò al divano dove ora era seduta la donna e si adagio al suo fianco, passandole una mano dietro le spalle avvicino il viso al suo per guardarla negli occhi: “Probabilmente si trattava di sangue vecchio e coagulato che era rimasto in vagina e stamattina è sceso. Non devi preoccuparti, finchè le perdite sono rosso scuro va tutto bene.” con il tono della voce e la dolcezza dello sguardo, Teresa cercava di tranquillizzare la donna, infondendola un po’ di sicurezza, che in lei al momento latitava.
Anche se la sua mente era sconvolta dal dolore, asfissiata da pensieri funesti in cui albergavano i corpi senza vita di Gelmo e Batistì, Teresa era sempre pronta a dare sostegno ed aiuto alle altre donne, era la sua vocazione, il suo modo personale di rendere grazie al Signore.
“Grazie Teresì, il tuo aiuto è sempre prezioso e tempestivo, se non ci fossi tu non so che farei” le ombre che albergavano nelle iridi di Marì si stavano ritirando lentamente, lasciando il posto ad una luce serena “Ti prego, vai nella legnaia e prendi una braca****** di mele, è un misero pagamento lo so, ma è tutto quello che la guerra mi consente.” la donna abbassò appena lo sguardo con aria sconsolata.
“Figurati Marì, è già molto, sai bene che non lo faccio per diventar ricca, altrimenti avrei scelto un altro lavoro.” il sorriso che la levatrice rivolse alla donna era colmo di gratitudine e comprensione.
Teresa si alzò dal divano: “Riposa Marì e sta tranquilla, tutto andrà per il meglio.” e detto questo uscì dalla casa della donna, per dirigersi verso la legnaia sul retro.
Mentre camminava sul selciato sconnesso, la gonna pesante e lunga fino alle caviglie le sbatteva contro i polpacci, smossa da un vento insistente, che sembrava portare sussurri lontani alle sue orecchie. Con un brivido la levatrice si strinse addosso lo scialle, quel freddo improvviso era davvero inusuale a giugno, anche se il clima lassù in montagna era più capriccioso di una signorina viziata.
Giunta di fronte alla porta di legno tarlato che chiudeva la legnaia, la donna stava per aprirla con una spinta della mano, quando un rumore improvviso la distrasse, facendole balzare il cuore in gola.
Con circospezione Teresa si avvicinò all’angolo della costruzione, per sbirciare oltre.
“Chi ghè lè?”******* urlo con voce stridula, l’adrenalina che faceva galoppare il miocardio, ogni muscolo teso, pronto a fuggire.
“Shh, usa mia!”******** una voce maschile le rispose, e poco dopo un giovane sbucò dal retro della legnaia.
Lo sguardo di Teresa valutò velocemente l’abbigliamento del ragazzo, che doveva avere si e no l’età di Battista, e notando gli abiti laceri e frustri, la magrezza delle membra e il fucile malandato che gli pendeva dalla spalla, intuì immediatamente che il giovane era un partigiano.
Quella consapevolezza la rilassò un poco, ma rimase comunque in allerta: “Cosa ci fai qui? Non lo sai che se ti beccano i fascisti sei morto?”
Il giovane parve rincuorato dalla reazione della donna, perciò le si avvicinò cautamente per fare in modo di essere udito soltanto da lei: “Abbiamo sentito che i tedeschi stanno risalendo la Costa Basa, vogliamo prenderli di sorpresa, perciò siamo scesi su questo costone da dove si può vedere tutta la strada.”
 
“E’ talmente giovane che non si è nemmeno reso conto di aver commesso un passo falso. Se fossi stata una delatrice, a quest’ora i nemici saprebbero tutto e lui e i suoi compagni sarebbero a far compagnia a Gelmo e Batistì.” un pensiero fugace attraversò la mente della donna, che venne colta da un’improvvisa speranza.
 
“Senti un po’, sai qualcosa dell’imboscata tedesca alla Corna Quadra?” Teresa parlò con voce ferma, puntando il suo sguardo in quello del ragazzo.
“Poco signora, so solo che un uomo è morto, e che gli altri sono tenuti prigionieri dai tedeschi.”
“Nient’altro? Sai nulla di un certo Guglielmo?” la voce della levatrice era venata di una nuova e flebile decisione.
“Guglielmo, Guglielmo… certo! Ol Mul lo chiamano, perché chiunque l’abbia conosciuto sa che è solido e irremovibile come un mulo.”
“Cosa ne è stato di lui, ti prego dimmi che è vivo!” la donna aveva afferrò le braccia del giovane e lo strattonava con frenesia.
“So mia sciura,********* l’ultima volta che l’ho visto era insieme al figlio… Battista mi sembra si chiami. Credo che facessero parte del gruppo che è stato catturato alla scarpata degli Asini, però non posso darle alcuna certezza” mentre parlava il giovane scuoteva la testa.
Prima che Teresa potesse riflettere su quelle parole, il resto degli esploratori sopraggiunse alle spalle del partigiano, in un turbinio di armi puntate e voci ringhianti.
“Cosa ci fa questa donna qui? Vattene, sparisci prima di farci ammazzare tutti” chi aveva parlato era il comandante, un uomo dalla lunga barba rossiccia, con un’espressione dura come l’acciaio.
Alcune mani spinsero il corpo di Teresa oltre l’angolo, intimandole così di allontanarsi, cosa che la donna fece senza ulteriore indugio.
 
Mentre raccoglieva velocemente le mele che costituivano il suo pagamento, la levatrice continuava a lambiccarsi il cervello son le parole pronunciate dal partigiano.
Riprendendo la via di casa, decise di tagliare per il bosco, dove era meno probabile incontrare pattuglie fasciste, che solitamente erano restie ad addentrarsi nel territorio che era prettamente dei ribelli, ben sapendo che in mezzo agli alberi erano un bersaglio fin troppo facile per le agili sentinelle partigiane.
Mentre imboccava sovrappensiero quel sentiero conosciuto, che mille volte aveva percorso da bambina, la sua attenzione venne attratta da un albero completamente diverso dagli altri, immenso e imponente, alla cui vista la mente di Teresa si rianimò, sconvolta da un ricordo dolce e doloroso.
 
 
Guglielmo la teneva per mano, guidandola attraverso i rami frondosi degli alberi che fiancheggiavano il sentiero battuto, il bambino si dirigeva a passo sicuro verso il grande noce piangente, le cui radici nodose sbucavano dal terreno a decine di metri di distanza, rischiando di far inciampare gli incauti passeggiatori.
“Forza Teresì, cammina, ci siamo quasi, voglio farti vedere una cosa” la voce del bimbo era carica di eccitazione, mentre i due entravano nella macchia d’ombra formata dai rami piegati del noce.
Appena giunto ai piedi dell’albero Gelmo si inginocchio tra le foglie secche, facendo cenno alla piccola Teresa di avvicinarsi.
La bambina non esitò minimamente, si fidava ciecamente di lui, sapeva che mai avrebbe permesso a qualcosa o qualcuno di ferirla in alcun modo, perciò si inginocchiò al suo fianco, curiosa di vedere ciò che voleva mostrarle.
Il bambino frugò velocemente tra le radici del noce, scoprendo una piccola apertura celata agli occhi dei passanti.
“L’ho scoperto qualche giorno fa per caso” gli occhi del bambino brillarono, mentre guardava il volto dell’amica “Ho pensato che potremmo usarlo per nasconderci quello che non vogliamo far vedere a nessuno. Per esempio, se vuoi dirmi che voi giocare con me e solo con me puoi lasciarmi un bigliettino e io lo troverò.” Gelmo rivolse a Teresa un sorriso splendente come il sole, Lui era il suo sole, l’unica stella che sempre avrebbe brillato nel suo cielo.
La bambina l’aveva abbracciato di slancio, incapace di deglutire il groppo d’emozione che le bloccava l’esofago.
Guglielmo la strinse forte e le sussurrò all’orecchio: “Sarà il nostro segreto, solo mio e tuo.”
 
 
Spinta da un impulso improvviso, Teresa corse nel punto esatto dove sapeva essere l’apertura del ricordo. Con foga raspò con le unghie sul terreno che negli anni si era accumulato all’imboccatura dell’antro.
Appena fu riuscita a spostare abbastanza materiale per formare un piccolo passaggio, infilò una mano tremante nell’incavo tra le radici, convita che le sue dita avrebbero incontrato solo il fondo di terra del nascondiglio.
Con sua somma sorpresa, invece, la donna sentì sotto il palmo della mano qualcosa di morbido e vellutato. Presa alla sprovvista tastò quell’oggetto sconosciuto con circospezione, prima di serrare la presa e ritrarre il braccio, portandolo alla luce.
Davanti ai suo occhi giaceva un brandello di stoffa consunta, un tempo doveva essere stata verde scuro, mentre ora pareva macchiata e sbiadita dall’uso, eppure Teresa la riconobbe immediatamente.
Quel piccolo pezzo di flanella, apparteneva alla camicia che il marito aveva indossato il giorno in cui l’aveva lasciata sola per andare incontro al suo destino.
La donna si portò l’oggetto al viso, sperando che le fibre avessero conservato almeno un’ombra dell’odore di lui, poi si alzò in piedi di scatto guardandosi intorno freneticamente, il cuore che galoppava nel petto.
“Sapevo che avresti capito Teresì, era solo questione di tempo, ma prima o poi saresti giunta da me” una voce profonda si intrecciò al fruscio delle foglie del bosco, procurandole un brivido lungo tutto il corpo.
La donna si voltò in preda all’emozione, il suo Guglielmo la osservava ritto in mezzo al sentiero, lacero e sanguinante, ma vivo, innegabilmente e stupendamente vivo.
Senza pensare Teresa gli corse incontro e gli volò addosso con slancio, stringendosi a lui quasi temesse di vederlo sparire dal suo abbraccio.
L’uomo la strinse a se con un braccio solo, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore, eppure non la lasciò, al contrario serrò maggiormente la presa. Gelmo seppellì il volto nell’incavo del collo della moglie, perdendosi nell’aroma caldo che emanava la sua pelle, quell’odore gli ricordava le domeniche mattina in tempo di pace, le sere d’estate seduti in veranda, le notti fatte di carezze e sospiri.
Fu Teresa a trovare la forza di sciogliere l’abbraccio, allontanandosi appena dal suo corpo per poter sondare la profondità di quegli occhi screziati di verde che amava. Lo sguardo della donna indugiò sugli zigomi scavati, sulle ombre scure che incorniciavano gli occhi di Gelmo, sulle escoriazioni violacee che deturpavano la pelle del suo viso, per fermarsi infine sul braccio martoriato che l’uomo teneva disteso lungo il corpo.
Teresa allungò una mano per sfiorare la pelle lacerata del marito, ma prima che potesse toccarlo l’uomo le afferrò il polso, puntando lo sguardo nel suo: “Mi sei mancata così tanto.” e nel parlare si portò la mano della moglie al volto, posandosela sulla guancia in una carezza leggera.
Dopo poco l’uomo parve mosso da una frenesia improvvisa, serrò le dita intorno a quelle della moglie, trascinandola con se nel folto del bosco, come tante volte aveva fatto da bambino.
Nonostante la confusione Teresa lo seguì senza chiedere spiegazione, la fiducia nei suo confronti era incrollabile, nulla avrebbe potuto mutare questo fatto.
Mentre proseguiva spedito verso una meta che solo lui conosceva, l’uomo cercò di aggiornala sugli eventi degli ultimi giorni: “Quando ci hanno attaccati siamo riusciti a fuggire insieme a pochi compagni, ci sparavano addosso, ma fortunatamente abbiamo riportato solo qualche graffio.”
“Batistì, Gelmo dimmi cosa gli è successo.” la voce di Teresa era colma d’apprensione, la gioia di riavere il marito lì con lei, offuscata dall’assenza del figlio.
“Ti sto portando da lui.”
Lascandole la mano, l’uomo cominciò a correre, incurante del dolore al braccio ferito, la moglie lo seguì immediatamente, senza badare ai rovi che le mordevano le vesti o alle radici che tentavano di farla inciampare, nulla in quel momento avrebbe potuto tenerla lontana un secondo di più dal figlio.
Gelmo la condusse oltre una macchia di cespugli che celava l’imboccatura di una piccola grotta nascosta alla vista, nessuno passando sul sentiero avrebbe potuto notare quell’apertura. Teresa lo precedette all’interno, impaziente di riabbracciare Battista.
Appena entrata nella caverna, la donna vide il figlio semi sdraiato al suolo, la schiena appoggiata ad un masso, la gamba sinistra piegata e quella destra sanguinante stesa di fronte a se.
Gli occhi del giovane si spalancarono colmi di stupore nel vederla, dalle sue labbra sfuggì una singola parola: “Mamma” mentre lacrime improvvise gli spezzavano il fiato.
La donna cadde in ginocchio accanto al corpo del figlio, attirandolo al sicuro contro di se, ripetendosi mentalmente che mai più avrebbe permesso che gli fosse strappato dalle braccia.  Anche Guglielmo era entrato nell’antro e si era avvicinato alla schiena della moglie, posandole una mano gentile sulla spalla.
In quel momento la mente di Teresa venne illuminata da una nuova consapevolezza, che si consolidò nel profondo del suo essere, luminosa e potente come una stella.
Solo ora, con il corpo caldo e vivo del figlio stretto al suo e il respiro calmo del marito a tranquillizzarla, Teresa sentiva che la guerra sarebbe finita presto, e che un nuovo periodo di pace avrebbe accompagnato quella fragile e appena ritrovata felicità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*casa vecchia
** Fossa del letame
*** “Cosa è successo?”
**** “E’ di là Teresa, non so più cosa fare, le ho provate tutte!”
***** “Hai capito?” “Vai, corri!”
****** manciata
******* “Chi c’è?”
******** “Shh, non urlare!”
********* “Non lo so signora”

  
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