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Autore: llAmortentia    24/08/2013    2 recensioni
Seth prese un sasso piatto dalla sabbia dove eravamo,scaldati dal caldo sole di luglio,e lo lanciò nel fiume di la Push facendolo saltare gioioso tra le calme acque che si increspavano leggermente.
Il ragazzo mi lanciò un'occhiata non troppo convinta,ma dopo pochi istanti ritornò con lo sguardo su quella vasta distesa azzurra.
-"Non sto scappando da quello che sono, Seth. Vorrei solo prendere una pausa" presi un respiro e quell'inspiegabile senso di soffocamento si fece sentire,di nuovo.
-"Sai,da me,da tutte queste sfighe,da quest'immortalità. Vorrei essere normale,per un po'. Non dover sapere niente di tutto questo" continuai sconsolata abbassando la testa.
-"Allora andiamocene" propose lui d'un tratto. "Io e te,una meta sperduta. Non importa dove,ma saremo lontano da qui".
Continuai a setacciare la sabbia dalla mano sinistra a quella destra e sorrisi sognante ancora a testa bassa.
-"Emily" mi chiamò dolcemente,dopo qualche minuto di silenzio e mi alzò il viso delicatamente,mettendo il mio sguardo in parallelo al suo "saresti disposta a prenderti una pausa e affidarti totalmente a me?" i suoi occhi brillavano con un progetto gradevole in testa.
-"Si,lo voglio" annuii sorridendogli.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio | Coppie: Jacob/Renesmee
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Successivo alla saga
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-CAPITOLO 12-



In 16 anni, quella fu la punizione più dolorosa di sempre. Emmett, senza mai perdere il tono giocoso, che sinceramente iniziava a stancarmi, aveva presentato delle scuse per l’accaduto ed io le avevo accettate. Avevo l’impressione che per un po’ non mi sarei mai dimenticata di quella mattinata.
Oltre alla difficoltà a sopportare il dolore che ogni respiro mi provocava, era difficile, anzi quasi impossibile farlo passare in osservato. Sdraiata sul letto, massaggiando le costole intorpidite pregavo perché esse non fossero rotte o inclinate. Non era il momento giusto per un ricovero da Carlisle, non potevo permettermi più errori con la mia famiglia. Non ero la figlia perfetta, non ero stupida, l’avevo capito. Sono sempre stata grata di essere figlia unica, non perché pretendevo tutte le attenzioni o tutti i giocattoli per me, in cuor mio sapevo che sarebbe stato ingiusto non proteggere una così piccola creatura da un mondo così complicato, proteggerla da mio padre, da La Push, dal casino che stavo diventando.
Il telefono di fianco a me si illuminò, guardai l’ora sul display. Le 23.50.

“Non fa così freddo stasera da tenere la finestra chiusa. Seth”.

Il cuore iniziò a tamburellarmi nelle dita, creando violente scosse alla mente stanca.
Guardai la finestra, era chiusa. E sarebbe rimasta tale a lungo. Come il mio cuore. Seth mi aveva evitata tutto il giorno ed io avrei continuato quello che aveva iniziato. Non ero troppo orgogliosa per smettere, ero solamente troppo ferita per ammetterlo. Una cerbiatta impaurita non piace a nessuno, nemmeno a Rosalie, lei preferiva di gran lunga quelle combattive, pronte a correre per salvarsi la pelle. Io ero molto più di questo, ero un lupo e solitario era l’aggettivo più azzeccato.

“E’ appena iniziata una tormenta. Dormi bene. Emy”  e con quelle parole, gli spedii anche il gelo che invadeva la mia anima.

In quel preciso momento entrò Renesmee in camera.

-“Allora, com’è andata dalla zia?” chiese sedendosi sul letto vicino a me.
-“Bene” risposi secca guardando il soffitto ricurvo, tentando inspiegabilmente di trattenere le lacrime che raschiavano l’iride, vogliose di uscire.
-“Qualcosa non va?” chiese notando il mio evidente sforzo di mantenere la completa calma. Non risposi, una parola in più e sarei crollata ed io ero saldamente convinta a non farlo.
Stavo correndo con la mia moto, con i capelli al vento nel pieno sole di maggio. Tutto era luminoso, ed ero salva dal buio che minacciava di prendermi di sorpresa dietro l’angolo, perchè la mia strada sterrata piena di abeti e cipressi, non possedeva angoli, né curve.

 -“Amore mio” mi chiamò dolcemente. Da quanto tempo non sentivo più quel nomignolo associato a me.. “lo sai che lo stiamo facendo per il tuo bene. Per favore non ci odiare” mi accarezzò la fronte, spostando una ciocca di capelli ribelli, come era solita fare una folata di velocità.
-“Non vi odio. Lo so che è per il mio bene, la mia formazione e tutto il resto” un piccolo sbuffo uscì a fine frase. La moto stava per sbandare. “ Domani ancora da Emily?”
-“ No” sorrise come solo una mamma sa fare “ Alice ti ha prenotato per tutta la giornata”
-“ Forse è meglio l’inferno” scherzai accennando una risata ed una fitta intercostale.

Abbozzò un sorriso, uno dei suoi sorrisi dolci quasi zuccherini prima di avventarsi su di me, come se fossi una preda. Mi fu addosso prima che potessi realizzare dove fosse finita tutta la sua dolcezza, iniziò a solleticarmi come era solita fare quanto ero bambina, dopo un discorso serio. Mamma era fatta così, tendeva a liberarmi delle pressioni di una conversazione da adulti, riportandomi ancora più indietro l’età. Più mi dimenavo e urlavo, soffocandomi ogni tanto per il poco ossigeno che ricevevo, più se la prendeva con la pancia, che provava con tutta se stessa a sfuggire dalle sue grinfie. Il mio petto bruciava e doleva allo stesso tempo, le fossette sul volto suo volto non davano segno di volersi distendere. E fu il silenzio a distendersi raggelante sulle nostre teste. Le urla cessarono improvvisamente, un accenno di tosse prese il suo posto, poi un tonfo sordo. Tenevo le mani tese davanti a me, con un’ insolito tremolio fastidioso. Il respiro affannato, il cuore che batteva come un amplificatore da stadio, la vista leggermente offuscata. Ma quella nebbia calda poi, si dissolse, e l’orrore mi avvolse come un lenzuolo appiccicoso. Mamma era appoggiata alla grossa libreria di legno, comprata per nascondere la parete pasticciata da pennarelli per bambini. Era seduta, immobile sotto il peso dei libri caduti dalla mensola anch’essa ceduta. La sua espressione indecifrabile, mi dava la nausea.

-“Nessie?” mio padre urlò dal piano di sotto tra un annuncio televisivo e un altro, allarmato dal frastuono.
Non salire, non salire, non salire. Fu il mio unico pensiero, che mi fece odiare profondamente me stessa. L’unica mia preoccupazione, in quel momento, era di non finire ancora in punizione? L’egoismo mi stava prendendo a braccetto.
Un rigo di sangue le accarezzò la fronte, le sue braccia rimasero innaturalmente al loro posto, senza curarsi di quello che stava accadendo.

-“Mamma!” gli ribadii io, preoccupata fino alle viscere. Mi fiondai accanto a lei, combattendo contro la rigidità dei miei arti. “Mamma, io..” provai di nuovo, nell’incredulità, a darle una spiegazione.

Ma che spiegazione avrei mai potuto darle? “Mamma, è stata una scarica di adrenalina non ti preoccupare.” ? Oppure avrei potuto dirle che non era stata colpa mia, ma che qualcuno l’aveva spinta al posto mio? E mentre la guardavo negli occhi, aspettando una sua risposta, le affermazioni non mi sembravano così tanto stupide. Messe insieme formavano la verità e cioè l’unica spiegazione plausibile. Era stata davvero una scarica di adrenalina, un’auto difesa spontanea, involontaria, non mia. O forse lo volevo dal profondo questo sfogo.

-“Renesmee, tutto ok là sopra?” urlò ancora mio padre per il volume troppo alto.

Nessuna delle due rispose. Provai a scavarle l’animo, in cerca di qualcosa, di una parola, di un suo gesto, ma niente. Era più scioccata di me,e questa volta non riusciva a capacitarsi del fatto che sua figlia l’avesse aggredita. La comprendevo, detestandola per quel silenzio che mi uccideva. Sarei finita nei guai, fuori casa se fosse salito Jacob.

“Andiamo, rispondi..” la supplicai con un’ultima occhiata.

Ci fu uno scricchiolio di parquet. Guardai la porta di camera mia semi aperta. Il tonfo degli scarponi di Jacob si facevano vicini gradino dopo gradino, sussultai quando vidi la sua ombra e da vigliacca , mi allontanai dal corpo del reato. E il seguito fu un rapido susseguirsi di azioni, troppo dettagliate perché io riuscissi a coglierle tutte. La faccia di mio padre alla vista delle condizioni di mia madre, un nuovo suono oltre alla voce del presentatore dei cereali per la colazione, una voce da donna, più melodiosa, calda e affettuosa. Una voce piena di ninna nanne e raccomandazioni, che tentava di spiegare l’accaduto. La paura m’invase ancora di più, quando capii che non riuscivo più a sentire quello che la voce stava sussurrando. Le mie gambe leggere, si presero una pausa lasciando che mi appoggiassi al suolo, insieme alla mia mente che dopo tante preoccupazioni smise finalmente di farsene. La stanchezza che mi sbriciolava il corpo fu l’ultima cosa che sentii prima del vuoto.

  
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