Ciao a tutti! Grazie ai miei lettori silenziosi che continuano a leggere questa FF! Ehi, ehi... la situazione si fa grave... Viral deve aver preso una botta bella forte durante il naufragio... Ce la farà Rea a fronteggiare la situazione? Mi farebbe davvero molto piacere un commento... cosa ne pensate della storia? E del personaggio di Rea? Anche le critiche sono ben accette!!
Capitolo 3 - La lunga corsa di Rea
Theme song: "Blue jeans and Rosary" performed by Kid Rock!
Dal capitolo precedente: "Quando Rea, sospettosa, si
chinò vicino a lui per toccargli la fronte, a controllare se avesse febbre,
cercò di spostarsi, di non farsi toccare; ma l’avveduta Rea aveva già capito
dagli occhi lucidi che l’ospite si sentiva meno bene di quanto volesse dare a
vedere..."
-Non è il caso di essere
scontroso.- l’ammonì appoggiando le dita fresche e abbronzate sulla fronte
dell’uomo-bestia, che guardava altrove con lo sguardo rabbioso. La febbre stava
salendo.
Rea aveva scelto di vivere
in superficie meno di un anno prima, quando si era resa conto di non poter
vivere sotto terra; era scappata e aveva trovato quella casa diroccata, e vi si
era insediata. Tuttavia, soffriva moltissimo la solitudine e la sola e unica
cosa che avrebbe desiderato da quel naufrago era un po’ di calore. Ma si rese conto
da subito che non c’era da chiedergli nemmeno un “per favore”. Rea non ci aveva
messo molto ad abituarsi al carattere duro, scontroso e arrogante del suo
ospite: le sarebbe stato più semplice e piacevole prendersi cura di un soggetto
che non emanasse una simile carica negativa, ma non era tipo da farsi problemi
oltre a quelli che c’erano già; come un elastico, si era adattata a quel modo
di fare così rude e rispondeva con gentilezza, anche se avrebbe preferito
spaccargli qualcosa in testa.
Il problema era un altro,
molto più grave del caratteraccio dell’ospite. La povera Rea non sapeva cosa
fare: da un lato, doveva aiutare quello sventurato naufrago. Dall’altro, lo
sventurato naufrago era un assassino e un razziatore, che in un contesto
diverso da quello l’avrebbe uccisa o condotta in schiavitù senza nessuna
remora. Ma poteva lasciarlo morire per questo? E poi se la febbre fosse salita
ancora, lei non aveva medicine abbastanza potenti: quello che aveva in casa
erano preparati blandi, che potevano far sentire meglio lei quando in inverno
si prendeva un’infreddatura stagionale, ma non un uomo-bestia, più robusto di
una ragazzina, ferito, e con una febbre che certo non dipendeva dalla
temperatura esterna; quindi sarebbe dovuta andare al villaggio più vicino, ad
almeno tre ore di galoppo ventre a terra e chiedere del dottore: ma questo
voleva dire denunciare lo straniero di nome Viral, e consegnarlo a un villaggio
che l’avrebbe come minimo impiccato. Poteva raggiungere il villaggio solo a
notte fatta, sperando che nessuno si accorgesse del suo arrivo col favore delle
tenebre, ma a quel punto il dottore avrebbe tenuto per sé quel segreto? Non lo
conosceva così tanto da potersi fidare ciecamente di lui, anche se negli anni
passati l’aveva aiutata. Teoricamente i dottori prestavano giuramento di non
uccidere nessuno, ma era tutta teoria. Magari quell’uomo-bestia aveva ucciso
qualcuno della zona, e il dottore si sarebbe ricordato del suo volto.
Arrivò il pomeriggio, nella
foresta, e la febbre non si decideva a scendere. Rea era spaventata e non
sapeva cosa fare; decise per un ultimo tentativo: prese il lenzuolo più vecchio
che aveva e lo tagliò in tanti fazzoletti. Prese un bacile di terracotta e ci
versò dell’acqua dentro per un dito di altezza; trascinò sotto la credenza una
delle sedie, vi si arrampicò su e prese, dal ripiano più alto, una bottiglia di
whisky.
-Che succede?- chiese lo
straniero dal suo angolo, incuriosito da quel trambusto.
-Devo farti scendere la
febbre.- rispose la ragazza, versando quasi tutto il contenuto alcolico della
bottiglia nel contenitore con l’acqua. Era un peccato sprecarlo così, ma non
aveva altro alcool in casa. Mescolò un pochino, poi buttò nella miscela tutti i
fazzoletti ricavati dal lenzuolo. Scoprì il petto del naufrago, che teneva una
mano sugli occhi, frastornato, e gli mise su i pezzi del lenzuolo imbevuti e
puzzolenti di alcool. Era un antico rimedio per far scendere la temperatura in
caso di febbre, ultima spiaggia per Rea che sapeva che raggiungere il villaggio
nel minor tempo possibile voleva dire mettere a rischio il suo stesso cavallo,
e poi voleva dire denunciare Viral. E rischiare di essere accusata dall’intero
villaggio di essere in combutta con il nemico, e linciata ella stessa.
Cambiava i fazzoletti e li
immergeva di nuovo nell’alcool. Lo straniero non diceva una parola, neanche per
lamentarsi, e la febbre non calava. Rimase accanto a lui tutto il giorno, senza
una parola, cambiando fasciature e fazzoletti. Il naufrago era così stordito
che la ragazza non riusciva nemmeno a capire se dormisse o no; sapeva solo che
era vivo perché respirava a fatica, con la bocca aperta. Ma non poteva andare
avanti in quel modo.
A sera, Rea decise di
uscire cinque minuti dalla casa. Doveva cambiare aria, le sembrava di
impazzire. Provava una pena infinita, ma la provava per un maledetto assassino,
che non avrebbe mai dovuto soccorrere. L’aria fresca della foresta nella notte
estiva le accarezzò la pelle, sotto la camicia bianca e leggera che indossava
sopra al costume. Andò sul retro della casa, dove sotto una tettoia alloggiava
il cavallo, e riponeva alcuni utensili; prese un secchio, andò al torrente che
scorreva a pochi passi e lo riempì, poi tornò verso casa. Allungò la mano per
girare la maniglia della porta e rimase impietrita ad ascoltare: dall’interno
della casa, arrivava una voce. Una voce fioca, ma per lei che era abituata a
non sentire nient’altro lì attorno se non i rumori della foresta e i suoi,
quella voce risultava chiara come se venisse dalla radio. Che diavolo stava succedendo?
Aprì di scatto la porta e corse dentro: il cane le corse incontro preoccupato,
mentre lo straniero, nel letto, contorceva il lenzuolo fra le mani e con gli
occhi spalancati guardava il soffitto della stanza, e diceva nomi, implorava,
minacciava, a volte gridando, altre sibilando.
Stava delirando; Rea gli
corse vicino gridando il suo nome, spaventata, pose il secchio d’acqua fredda
vicino al letto, si bagnò le mani e cominciò a bagnare la fronte a Viral.
Sembrò calmarsi per qualche istante, afferrò con le grosse mani quelle piccole
e bagnate di Rea e se le premette al capo.
Rea gli si avvicinò,
stringendo i denti per non scoppiare in lacrime per la paura e per l’angoscia. -Mi
senti, Viral?- non ottenne risposta; lo straniero tremava, e tremava anche lei.
-Io vado a cercare un medico. Non ti devi allontanare, non ti devi alzare, hai
capito Viral?- lui lasciò andare le mani di lei, che però non scivolarono via,
ma rimasero sul suo volto bollente.
-Andrà tutto bene. Tornerò
presto.-
Galoppò nella notte verso
il villaggio; la luna era alta, ma non era nemmeno a metà: Rea doveva fare
affidamento alla sua memoria per gli ostacoli e per la strada, perché se il
cavallo si azzoppava a metà strada era nei guai, non sarebbe arrivata al
villaggio nemmeno il mattino seguente.
Galoppò nelle praterie,
andò al passo sui sentieri di montagna, scese a piedi lungo le pietraie: arrivò
dopo più di tre ore vedere i primi tetti del villaggio, con il cavallo tutto
sudato e ansante. Lo spronò ancora e quando arrivò alla porta della casa del
dottore, l’animale era quasi esausto: respirava a fatica e sembrava stesse per
cadere; come lei, del resto. Bussò alla porta di legno con foga. Dopo alcuni
minuti le fu aperto. Era il dottore in persona.
Era un uomo alto, sulla
cinquantina inoltrata, magrissimo. Rea doveva alzare la testa per guardarlo in
volto; aveva i capelli corti, tagliati a spazzola, e due mustacchi dello stesso
colore. Il volto era scarno e assonnato, ma rassegnato: in fondo, il mestiere
del medico prevedeva anche le emergenze notturne.
-Rea.- le disse a mo’ di
saluto. Era un tipo un po’ scorbutico. -Che è successo?- aveva già capito che
doveva essere successo qualcosa di fuori dal comune: sapeva che Rea viveva
sola, e se era lì voleva dire che a stare male non era lei.
-Dottore la prego… la prego
deve.. deve venire con me…- ansimò la ragazza.
Da dietro al dottore fece
capolino un ragazzetto. Il dottore la interruppe con un cenno. -Ragazzo.-
ordinò. -Sella due cavalli, e porta nella nostra stalla quello là.-
Rea era sollevata: il
dottore l’avrebbe aiutata. Però prima doveva dirgli di cosa si trattava. -Dottore
aspetti.- lo pregò. -Le devo prima fare una… una premessa.-
-Entri un attimo.- le disse
brusco.
-Non posso perdere tempo,
glielo dico per strada.
-Dobbiamo aspettare due
minuti che Johnny selli i cavalli, e mi devo mettere un pantalone, venga
dentro.- le intimò.
Rea fu condotta in un
salottino illuminato da due candele, mentre il dottore scomparve per alcuni
secondi nella sua stanza, per riemergerne pochi secondi dopo con un pantalone
da giorno.
-Chi è, Rea?
-Dottore, due giorni fa ho
raccolto un naufrago…
-Perché hai aspettato tanto
a chiamarmi?- la rimproverò alzandosi e prendendo la valigetta che teneva
sempre pronta per le emergenze.
-Dottore!- esortò
buttandosi a terra. -Io devo avere la sua parola che non consegnerà il
naufrago.
Il dottore si fece attento,
e aggrottò le sopracciglia. -Io sono un medico.- le disse severo l’uomo,
strappando di mano alla ragazza il lembo di pantalone che aveva afferrato. -Il
mio compito è curare, non giudicare.-
-Non è il medico che temo.-
rispose Rea, alzandosi e sbarrandogli il passo. -Temo l’essere umano, che è
scappato alle profondità della terra per abitare in superficie.-
Il dottore rimase immobile
alcuni istanti.
-Tu, Rea.- tuonò. -Hai dato
ospitalità a un uomo-bestia.
-Sì dottore. Io non lo
voglio convertire o roba simile, ma l’ho trovato sulla mia spiaggia, stava
morendo, adesso è a casa mia, sta delirando per la febbre, cosa devo fare?
-Basta chiacchierare di te,
Rea.- l’ammonì il dottore serio. -Andiamo adesso.-
John, che era il figlio del
medico, aveva portato davanti alla casa due grandi cavalli, dall’aria robusta e
scattante. Rea saltò su quello leggermente più basso.
Coprirono in altre tre ore
la distanza che li separava dalla casa di Rea, e quando smontarono era quasi
l’alba, e il cielo si stava tingendo di rosa. La ragazza saltò giù dal suo morello
e spalancò la porta di casa: dentro si sentiva fortissimo l’odore dell’alcool,
il cane le corse in braccio abbaiando, ma lo straniero non era nel letto: era
caduto, o era sceso, comunque era per terra a qualche passo dal giaciglio;
qualche ferita si era riaperta e aveva ripreso a buttare sangue, macchiando le
bende e il pavimento.
-Mio Dio, Viral!- chiamò
forte precipitandosi vicino allo straniero.
Il dottore le corse dietro.
Rea lo girò sulla schiena, mettendogli la testa sulle sue gambe. -Mi senti?
Svegliati!!- gli spostò i capelli biondi e sudati dal volto, lo chiamò per
nome, ma la febbre non era scesa. Il dottore intanto stava svolgendo le fasce,
per rendersi conto di quanto grave fosse la situazione. Lo straniero aprì gli
occhi di scatto, guardò l’uomo e cercò di alzarsi, ma ricadde tra le braccia di
Rea, che lo tenne a viva forza, inchiodandogli le spalle alle sue cosce. Era
bollente, toccarlo era come scottarsi. -È un medico. Ti vuole aiutare.- gli
sussurrò all’orecchio.